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martedì 3 novembre 2009

Continua la crisi e la povertà aumenta in Messico


di Antonio Pagliula
Secondo gli ultimi dati diffusi dalle Nazioni Unite la recessione dell’economia messicana amplificata dalla crisi mondiale porterà altri 2 milioni di messicani alla povertà estrema.

Il Messico è considerato uno dei paesi più colpiti dalla crisi dell’economia degli Stati Uniti per due ragioni:
- a causa della sua alta dipendenza alle esportazioni “made in Usa”
- e per il crollo delle rimesse mandate dagli immigrati messicani negli Stati Uniti, da sempre fonte principale di divisa per il paese insieme agli introiti derivanti dal petrolio.
La povertà si sa è un male cronico per il Messico però quest’anno l’economia chiuderà con un -7% del PIL, la peggiore caduta dalla decade degli anni ’30, che tra l’altro porterà alla perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro. Se a questo poi si somma l’aumento globale dei prezzi delle materie prime, come mais e fagioli, è facile intuire i problemi delle classi sociali più basse. Per le Nazioni Unite ben 2 milioni di messicani scenderanno a livelli di povertà estrema come conseguenza della situazione economica del paese. Negli ultimi due anni sono così già 5 i milioni di messicani caduti a livelli di estrema povertà, tutto questo proprio quando il governo ha attivi il maggior numero di programmi sociali di assistenza alle classi povere della storia messicana.

Per il presidente Calderón una ripresa economica a ritmi sostenuti, almeno a livelli di un 4% annuali, è fondamentale per recuperare consensi anche in vista delle elezioni del 2012 vista e considerata anche la sconfitta nelle elezione legislative di luglio che ha portato alla perdita della maggioranza relativa nella Camera dei Deputati a scapito del PRI.

I programmi sociali non sono infatti sufficienti a contrastare l’attuale situazione economica e la povertà avanza non coinvolgendo solo le campagne messicane ma diffondendosi anche nelle città. Secondo alcuni dati forniti dal governo sono necessari 80 dollari al mese per rispondere alle esigenze alimentari per i messicani che vivono in città, mentre ne bastano 60 nelle aree rurali, allo stato delle cose però ben 20 milioni di persone su 107 non raggiungono neanche questi livelli minimi.

L’ultimo decennio ha visto il Messico come una delle economie emergenti di rilievo in America Latina ma questo non è servito ad eliminarne le contraddizioni interne che vedono 20 milioni di persone che lottano per alimentarsi convivere nello stesso paese di Carlos Slim, una delle tre persone più ricche del mondo.

da http://www.verosudamerica.com/2009/11/continua-la-crisi-e-la-poverta-aumenta.html

La banalità del bene

Questa mail list è stata creata per dare voce ai condannati all’ergastolo ostativo, quello senza nessun beneficio, senza mai un giorno di permesso: anni e anni, decenni, senza mai un giorno fuori dal carcere, senza mai un Natale in famiglia, senza mai un abbraccio libero con i propri cari. Tutto questo per reati commessi anche 20-30- 40 anni prima. Le persone condannate all’ergastolo ostativo, anche quando scontato 20-30 anni di reclusione e hanno realizzato una radicale trasformazione interiore, NON POTRANNO USCIRE VERAMENTE MAI DAL CARCERE e, dunque, viene a morire il fine educativo della pena (Art. 27 della nostra Costituzione “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”)
Nessuno è colpevole per sempre.

Tutto quello che leggerete proviene direttamente da loro, noi siamo solo il loro tramite, la loro voce che esce fuori, perchè internet e posta elettronica in carcere non sono ammessi.
http://urladalsilenzio.wordpress.com/

Gruppo "Urla dal silenzio" su Facebook:
http://www.facebook.com/group.php?gid=155797882305&ref=ts

La banalità del bene

“Se io stesso fossi un giusto, forse non ci sarebbe neppure il delinquente davanti a me.”
(Dostoevskij)

Un’amica attivista per l’abolizione dell’ergastolo ostativo, ha fatto un sondaggio fra i suoi amici:
- Benefici? Già in carcere fanno la bella vita e vogliono pure i benefici? Hanno vitto e alloggio gratis, io invece lavoro tutto il giorno e con lo stipendio non arrivo a fine mese.
- Gli assassini non hanno diritto ad avere un’altra possibilità perché le persone che hanno ucciso non avranno una seconda possibilità perché ormai sono morte. Quindi è giusto che chi ha ucciso non abbia una seconda possibilità.
- In carcere hanno tutte le comodità e hanno tutto gratis. Noi qui fuori se vogliamo qualcosa ce lo dobbiamo pagare e fare tanti sacrifici.
È pericoloso rimettere in libertà gli assassini, c’è un alto rischio che commettono di nuovo reati.
- Con la pena di morte soffrirebbero solo nell’attimo della morte, quindi sarebbe troppo facile. Se con l’ergastolo soffrono tutta la vita meglio così.
- Vogliono benefici? Non lavorano, li manteniamo noi con le nostre tasse e loro vogliono pure altri benefici?
- Non basta una vita per pagare quello che hanno fatto.
- Oggi giorno in carcere non si soffre più, non è più come una volta, oggi il carcere è meglio di un albergo a 4 stelle. Nel carcere ormai sono i detenuti a comandare e le guardie succubi.
Se al posto dell’ergastolo gli dai solo 30 anni, poi in realtà ne faranno molti meno e non è giusto.
I detenuti fanno le vittime e dicono che è colpa della società ma non è vero, è troppo facile scaricare la colpa sulla società. Anch’io ho avuto una brutta vita, lavoro da quando ho 13 anni perché mio padre era morto. Eppure non sono andato a fare rapine, ho scelto la vita onesta e sono andato a lavorare a 13 anni.

Che posso dire? Buona vendetta! A molti di noi non è stato chiesta la possibilità di scegliere.
A volte una possibilità, una sola, ti può cambiare la vita.
Il condizionamento può essere psicologico, culturale, ambientale e, perché no, si può scegliere di fare il delinquente anche per fame.
Molti di noi non hanno mai avuto una vera alternativa, come l’hanno avuta Tanzi e Poggiolini.
A proposito, pensando a loro, non c’è proprio da essere orgogliosi dell’avere rubato poco.
Nel Corriere di venerdì 11 settembre 2009 ho letto: Callisto Tanzi dopo il crac è ancora cavaliere del lavoro. Non è il solo, a Poggiolini fu data, mai revocata, la medaglia d’oro per la sanità.
Si può essere criminale ed essere anche un buon padre, un ottimo marito, un buon amico e un onesto criminale, mentre si può essere un buon cittadino ed essere un cattivo padre, un marito infedele ed un disonesto buon cittadino.
Penso che tutti abbiano dentro di noi del buono e del cattivo e io credo che tutti sono più buoni che cattivi e anche se non fosse vero mi piace pensarla così.

Ricordo a questi buoni cittadini che hanno risposto in questo modo che Gesù diceva a Pietro: Perdonare sempre, perdonare tutti, perdonare una infinità di volte, giacchè non esistono uomini senza peccato e perciò nessuno è in grado di punire e condannare, “per sempre”.

Per sempre lo aggiungo io.

Carmelo Musumeci
Carcere Spoleto
Ottobre 2009

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DA DESTRA SALE UNA MAREA NERA


Sono giovani e si ispirano al pensiero di Ezra Pound. A cui dedicano le loro sedi. Che da Roma si stanno moltiplicando nel resto d’Italia. Tra croci celtiche, spranghe e aggressioni.

di Tommaso Cerno e Claudio Papaianni
L’onda nera è arrivata fino a Napoli. Casa Pound ha occupato il vecchio monastero delle suore Teresiane, nel quartiere popolare di Materdei. Ora anche sotto il Vesuvio sventola la Tartaruga, simbolo del diritto alla casa e bandiera dei centri sociali di estrema destra. E subito in tutta Italia, il clima torna rovente. Prima i camerati avevano marciato su Roma, dove le comuni si sono moltiplicate da Casal Bortone all’Esquilino. Ora si sono ramificati dappertutto, registrando tutti quest’anno il boom delle adesioni. Contano almeno 2 mila iscritti da Nord a Sud, 50 mila simpatizzanti, una quarantina fra pub neri e librerie, radio e tv sul Web.
La piramide si allarga, dunque, dalla capitale fino alla provincia estrema, così come la mappa degli scontri di piazza.
Eccoli i “fascisti del Terzo Millennio”, un miscuglio di duce e hard rock, teste rasate e poesie di Ezra Pound. Laboriosi volontari, che per strada si trasformano in soldati addestrati alla lotta, con un obiettivo dichiarato: arruolare nuovi poveri, disoccupati e senzatetto, lasciati soli da una sinistra in constante ritirata. Facciata esterna e cuore pulsante di Casa Pound restano ben distinti. Lo simboleggia anche il pesante anche il pesante portone di ferro battuto che protegge dagli intrusi l’ex convento alle porte di Napoli, dove “L’Espresso” è potuto entrare. Sta a due passi da via Foria, che faceva da spartiacque ai traffici dei clan di Forcella e Sanità, le famiglie Giuliano e Misso. I camerati ci lavorano giorno e notte fra mobilio accatastato, calcinacci e piscio di gatto. “Vogliamo realizzare un centro per i bambini e uno studentato gratuito, ma ci vorrà molto tempo”, dice il portavoce Giuseppe Savuto. Ha 23 anni, si fa chiamare Peppe, è un ex militante della Fiamma tricolore. E’ lui che ha guidato l’occupazione del 12 settembre, a novant’anni esatti dalla presa di Fiume, solo l’ultima conquista dei neofascisti in ordine di tempo. Ed è sempre lui che ha scelto l’acronimo Hmo per la comune, allo stesso modo di Gabriele D’Annunzio: “Hic manebimus optime, qui staremo benissimo”. Sotto le volte di sei metri, ora progetta sale studio e biblioteche con titoli di Pound, Marinetti, Evola e Codreanu. Ma nel frattempo, l’effetto è stato di tipo diverso: nelle università e nei circoli giovanili di destra e sinistra tornano la ribellione e la lotta. In Campania c’è stata la scintilla, ma l’incendio ormai dilaga. Appena i camerati sono entrati a Materdei, esponendo il tricolore e i simboli neofascisti, la tensione è salita alle stelle. Nel centro di Napoli, ma anche nel resto del Paese.
Peppe Savuto è accusato da un liceale del Collettivo studentesco di sinistra, picchiato dal branco all’uscita di scuola. “Era con noi a Casa Pound, non può essere stato lui”, sono pronti a testimoniare i suoi camerati. Anche se il loro capo per ora resta l’unico indagato per l’aggressione e il ragazzo ha 30 giorni di prognosi. Dall’altra parte gli anarchici neri denunciano di essere stati pestati in centro storico, davanti all’agente immobile. Se a Casa Pound si professa il “movimento sociale”,in strada si usano le mani. Celtiche contro falci e martello sono di nuovo la miccia dei tafferugli all’università, delle spranghe che ricompaiono nei cortei, come gli albori di un nuovo ’77. L’ultimo episodio è accaduto in Toscana pochi giorni fa. A Pistoia, giovani a volto scoperto hanno fatto irruzione a Casa Pound. All’interno c’erano un militante e un consigliere comunale del PDL, che si sono rifugiati in un androne per sfuggire a bastoni, cinture e catene. Se i neofascisti denunciano 4 assalti nelle ultime settimane, i centri sociali di sinistra organizzano presidi davanti alle questure per chiedere il rilascio dei fermati. E scaricano le colpe sui camerati, profetizzando altri scontri. A Bologna, qualcuno ha appiccato addirittura le fiamme alla comune delle destra radicale, a Porta Castiglione. Dentro c’erano il leader Alessandro Vigliani e la fidanzata, incinta. Si sono salvati calandosi dalle finestre. Stessa paura, stesse scene da anni ’70, lo scorso marzo, quando il Blocco studentesco, emanazione delle tartarughe negli atenei, affrontò l’Onda durante un volantinaggio a Porta di Massa, ancora a Napoli. In quella piazza gli estetismi della destra fiumana lasciarono spazio ai caschi da motociclista, indossati come armature. “Si tratta di distorsioni, la verità è che eravamo in sette e siamo stati aggrediti da un settantina di comunisti. C’è pure un video su YuoTube che lo dimostra”, ribatte Savuto. Così come ci sono le foto, invece, che ritraggono il gruppo di Casa Pound con le mazze davanti ai portoni dell’università Federico II.
Manganelli tricolore contro insegne opposte. Per le strade ormai ogni pretesto è buono. Come la protesta contro la Gelmini a Piazza Navona lo scorso anno, quando ancora il Blocco studentesco invase il presidio dei liceali nel cuore di Roma. Scene riprese dalle televisioni cui, pochi giorni dopo, seguì l’irruzioni negli studi Rai per contestare il video che mostrava i ragazzi di Casa Pound aggredire i giovani della sinistra antagonista. “Non siamo né di destra né di sinistra, la nostra ideologia è meta politica”. Ribattono i militanti della tartaruga. Loro si rifanno al Pensiero Sociale di Benito Mussolini, quello degli albori. “Siamo contro gli slogan antisemiti, i lager, la xenofobia e l’omofobia”. Non tollerano nemmeno sentirsi dare dei razzisti:” siamo identitari”. Così nel nuovo dormitorio, a fianco del tricolore,hanno issato le insegne del Tibet e del popolo palestinese. A Napoli le indicano con un certo orgoglio, stanno lì a dimostrare le loro buone intenzioni. Poco importa poi, se ai raduni che organizzano in giro per l’Italia, le foto ritraggano marce di skinhead che fanno il saluto romano e i segni con la svastica nazista. Sono i simboli di una vecchia guerra che torna a rivivere anche sul corpo dei seguaci di Pound, dove croci e segni esoterici si alternano nei tatuaggi. E’ un armamentario che viene occultato sotto le felpe di fronte agli estranei o per le vie del centro, dove la sola legge sono le botte. “Copritevi se uscite, non mostrate i simboli”, ordina ai giovani camerati come Emmanuela, l’unica donna del centro sociale di Napoli. Appunto perché fuori non ci sono più i libri esoterici e le poesie. Fuori si picchia. Chi abita, dunque, a Casa Pound? Ragazzi in jeans e maglietta o squadristi e mimetica? E qual è la loro missione: aiutare i deboli, o ripulire le strade? A chi teorizza livelli differenti di militanza, dalla passione sociale all’addestramento paramilitare, replicano che “si tratta di menzogne”. “Siamo non violenti, è la sinistra che ci attacca e ci vuole morti”, accusano in coro. Ezra Pound è il loro solo riferimento, la loro battaglia è contro l’usura, i mutui e lo strapotere delle banche. Dei pestaggi in strada nemmeno un cenno. Eppure anche la festa a Casa Pound odora di violenza. Ai concerti degli ZetaZeroAlfa, il gruppo fondato dal capo della rete italiana, Gianluca Iannone, il confronto fisico è parte della musica. Il pezzo più famoso incita al “cinghia-mattanza”, una specie di danza sanguinaria, dove dal palco si ordina al popolo che balla di picchiarsi con tutte le forze e frustarsi con le cinture di cuoio,sfilate dai pantaloni.
Il ritornello è un invito a combattere, a farsi male per soffrire insieme:” Uno:me sfilo la cinta. Due: inizia la danza. Tre: prendo bene la mira. Quattro: cinghia mattanza.”. Urla, schitarrate che scaricano decibel e adrenalina, cinghie dritte sulla pelle, meglio se a petto nudo. Intanto i gruppi che si affiliano alla Tartaruga si moltiplicano. Torino, Latina, Avellino, Firenze, Siena. Hanno nomi e simboli che rievocano i legionari di Fiume: Cuore nero, Asso di bastoni, Circolo Futurista, Figli di nessuno.
A Verona c’è il Cutty Sark, un pub nero la cui inaugurazione fu accolta con il saluto romano, nella terra dei neonazisti più famosi d’Italia. Fra i clienti teste rasate con la celtica tatuata sull’avambraccio. “Siamo noi il simbolo della destra vera, non c’è niente di cui vergognarsi a salutare così”, dice uno skinhead: “Io picchio se c’è da picchiare, così come leggo Pound e Platone. E sono fiero che nella mia città sia stato firmato il manifesto che voleva riportare il fascismo alle origini, a Piazza San Sepolcro”. Anche a Milano i camerati aumentano. Hanno intitolato Piazza Gramsci a Gabriele Sandri, il tifoso ucciso da un poliziotto. E’ una sfida allo Stato. “L’unico modo per sconfiggere la memoria emotiva con la memoria perenne”, proclamano. Immortale come il loro fascismo.


EREDITA’ DI FAMIGLIA

Per i camerati è la bella Emmanuela, 21 anni, capelli corvini. E’ l’unica donna di Casa Pound a Napoli, ma non una qualunque. E’ la figlia di Michele Florino, ex senatore missino e poi di An. Per anni è stato il capo della sezione Berta di via Foria, quella dei duri e puri. Da lì, il 17 giugno 1975, partì la molotov che ucciso Iolanda Palladino. Aveva la stessa età di Emmanuela. La sua auto era incolonnata per caso fra i militanti comunisti in festa per la vittoria alle elezioni. Otto anni dopo, tre ragazzi morirono in un agguato: omicidio di camorra, si disse. Ma oggi, il pentito Giuseppe Misso fornisce una nuova versione e accusa proprio Florino di avere partecipato al summit che decise la spedizione di stampo politico. Una rappresaglia contro il clan Giuliano che aveva imposto la chiusura di alcuni circoli del Msi. Florino nega e querela, ma resta indagato dopo il faccia a faccia con il boss, notoriamente vicino alla destra napoletana. Poi c’è la mamma di Emmanuela, Maria Teresa Angiulli. E’ la segretaria della commissione Patrimonio del Comune di Napoli, la struttura che vigila (o dovrebbe farlo) sul corretto utilizzo dei beni del municipio. Proprio come lo stabile occupato dalla figlia e dai suoi camerati.

da L'Espresso

Ostia, diciottenne bielorusso adottato pestato al grido di "sporco polacco"

Ostia, diciottenne bielorusso adottato pestato al grido di "sporco polacco"

Baby gang in azione sul pontile, ferito per aver difeso
il fratello sedicenne: un mese di prognosi

Una settimana fa l'aggressione omofoba vicino al commissariato di Ostia
di Giulio Mancini

ROMA (2 novembre) L’hanno massacrato solo perché è «uno sporco polacco». Lui, appena diciottenne, d’origine bielorussia ma adottato da anni da una famiglia di professionisti italiani, non ha potuto neanche difendersi. Perchè lo hanno vigliaccamente colpito in testa con una bottiglia di vetro e, una volta a terra, l’hanno riempito di calci e di pugni.
Trenta giorni di prognosi all’ospedale “Grassi” di Ostia. Il trauma cranico, la frattura delle ossa nasali, le labbra spaccate e gli occhi lividi sono quanto resta della ferocia del “branco” addosso a Angelo, nome di fantasia di un ragazzo picchiato selvaggiamente sul Pontile. Otto-nove ragazzi contro di lui ed il fratello, poco più che sedicenne. Non una sola ragione per arrivare a conciarlo così. Poche frasi provocatorie e subito la violenza di una baby gang sulle tracce della quale sarebbero arrivati i carabinieri, che indagano sul caso insieme con la polizia. Due diciassettenni, infatti, sono stati identificati e denunciati nelle ultime ore. L’accusa per loro è quella di favoreggiamento: hanno visto chi ha sferrato calci e pugni ma, come nelle tradizioni delle bande più feroci, non parlano.

Tutto è successo in pochi minuti, intorno alla mezzanotte, in piazza dei Ravennati. Nella ricostruzione fatta dai carabinieri Angelo e il fratello, che chiameremo Vittorio, erano seduti su una panchina del Pontile a chiacchierare con una coppia di ragazze. Su un sedile poco distante, otto ragazzi guardavano, ridevano, rumoreggiavano. Allontanatesi le amiche e rimasti soli, passano pochi istanti e i fratelli diventano oggetto delle attenzioni della gang. Uno dei più malandrini, lentiggini e doppio pearcing sul labbro superiore, si alza dal proprio posto e si avvicina i due chiedendo una sigaretta. Un altro, invece, più corpulento, alto almeno un metro e ottanta con berretto e pearcing sul labbro inferiore, prende di mira Vittorio con pungenti provocazioni.

«Lascia stare mio fratello», tuona Angelo rivolto ai due. «Vabbè, mo è tu fratello: ma se tu sei uno sporco polacco», gli urla in faccia per tutta risposta il più grosso di stazza dei due “provocatori”. Passano pochi istanti di tensione, altri due-tre ragazzi amici del branco si avvicinano, ricominciano le minacce e gli insulti allo «sporco polacco» fino a che Angelo non viene colpito alle spalle. Qualcuno gli ha spaccato un bicchiere o una bottiglia sulla testa (a terra resteranno i frammenti di vetro) e il diciottenne perde i sensi. Si risveglia all’arrivo di un’ambulanza: lo hanno pestato a sangue e hanno ferito pure il fratello più piccolo che riporterà una prognosi di cinque giorni.

«In questa vicenda - contesta l’avvocato Luciano Randazzo che cura gli interessi della famiglia di Angelo e Vittorio sono ben evidenti le aggravanti di una discriminazione di natura etnica oltre che i futili motivi scatenanti la violenza».

Le indagini sinora hanno portato a individuare due dei testimoni dell’aggressione ma chi ha insultato e colpito deve essere a conoscenza della storia personale di Angelo, originario della lontana Bielorussia e forse poco orgoglioso di essere diventato connazionale di quelle belve.

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=78909&sez=HOME_ROMA
da Antifa

Ku Klux Klan in Italia, l'ultima follia


L'apertura delle iscrizioni lanciata via internet con slogan deliranti
Gli obiettivi della "lotta" sono negri, immigrati, omosessuali, ebrei
"Aderisci e salva la stirpe bianca"
Ku Klux Klan in Italia, l'ultima follia
"Riprendiamoci quello che ci è stato tolto e diamo ai nostri figli il futuro che meritano"

Dal sito della sezione italiana
di MARCO PASQUA
Lanciano "un appello" a chiunque, in Italia, voglia difendere "la stirpe bianca", perché "l'uomo bianco non è mai libero di esercitare il proprio potere nelle proprie terre e nazioni". L'ombra del Ku Klux Klan (KKK), che, in America, riunisce xenofobi e razzisti nascosti dietro al tradizionale cappuccio bianco o colorato, si allunga anche sul nostro Paese, dove è stato fondato un "reame d'Italia". Ad animarlo, è il movimento degli "United northern and southern knights of the KKK" (l'acronimo è Unsk), la più importante ramificazione americana del Ku Klux Klan, con il suo quartier generale a Fraser, nel Michigan.

Già nel 2007, il KKK mosse i suoi primi passi in Europa, con il primo "reame ufficiale". Dopo una serie di liti interne al movimento, questo venne sciolto. Fu allora che gli iscritti, prevalentemente italiani e tedeschi, si rivolsero agli United northern and southern knights (costituiti nel 2005 su impulso di un iscritto al KKK), per chiedere di essere ammessi al loro direttivo. "Dopo una breve trattativa - viene spiegato su un forum neonazista italiano, che li celebra - si decise di creare un Klan europeo parallelo e fraterno a quello americano. Questo venne convalidato e ufficialmente riconosciuto nel resto del mondo nell'agosto del 2008". A oggi, oltre alle sedi in 29 stati americani, al reame italiano, ne esiste uno tedesco, uno in Belgio e nel Regno Unito. Anche se, avvisano, "contiamo di espanderci ulteriormente nei prossimi mesi". Il coordinamento europeo è affidato a quello che viene definito "Reich" tedesco. Ogni singolo reame è autonomo, ma risponde al coordinamento europeo, che a sua volta riferisce alla casa-madre nel Michigan. Quest'anno hanno già avuto luogo due "vertici", tra i direttivi europei e quelli americani.

Nella sezione italiana del loro sito, si annuncia "l'apertura delle iscrizioni" e si lancia un appello ad aderire al movimento: "Se siete uomini o donne patrioti bianchi e ritenete di volervi impegnare per la vostra stirpe e per le generazioni future, se ne avete abbastanza di vedere la nostra discendenza, i nostri diritti e il nostro futuro calpestati e gettati via, se volete mettere fine a questo scempio, saremo felici di avervi con noi e di ascoltarvi. Aderisci alla lotta e salva i tuoi diritti quale cittadino bianco e cristiano. Riprendiamoci quello che ci è stato tolto e diamo ai nostri figli il futuro che meritano".

Per aderire bisogna compilare un modulo, allegando foto a colori e copia di un documento: l'accettazione ufficiale arriverà dopo il superamento di un periodo di osservazione di 12 mesi. All'atto dell'iscrizione si riceve il cosiddetto "libretto del periodo di prova".

La filosofia ricalca quella razzista dei "fratelli" americani: lotta e contrasto a "neri, immigrati, omosessuali" ma anche "ebrei", per dar vita ad uno Stato "bianco e cristiano". Agli ebrei, ad esempio, è tassativamente vietata l'iscrizione al movimento, perché ai Klansmen (come vengono definiti gli iscritti), interessano "solo i cristiani bianchi". "Siamo fedeli ai principi del Ku Klux Klan, fondato nel 1865", dicono nella sezione italiana del loro blog, e parlano di una "sacra missione". Una missione che può essere così sintetizzata: "La lotta per la nostra stirpe è esigente e la vittoria può essere raggiunta soltanto con dedizione e lealtà. Il nostro obiettivo è semplice ma forte, conservare il cristiano bianco, i suoi ideali e le sue tradizioni. Siamo qui per guidare i nostri fratelli e le nostre sorelle bianche e ristabilire l'ordine in questa società collassata".

Secondo questi razzisti incappucciati, che si definiscono "nazionalisti fieri di essere italiani", oggi "si parla molto di orgoglio nero, orgoglio ebraico, orgoglio ispanico e addirittura di orgoglio gay", mentre "esiste solo un segmento maggioritario della popolazione che non viene incoraggiato ad essere orgogliosa della propria discendenza e delle conquiste dei suoi avi. Quel gruppo etnico è la razza bianca". E via con una serie di considerazioni sui principi della superiorità della razza, alla base del credo neonazista: "Al fine di poter essere mentalmente sano, un individuo necessita di una chiara identità e consapevolezza del proprio valore e affinché la nostra razza tutta possa essere forte e in salute le genti bianche di ogni dove devono sviluppare un senso di identità e valore razziale. Quindi acquisite orgoglio nella vostra razza".

Come diffondere i principi xenofobi del KKK in Italia? Sono loro stessi a spiegarlo: "Data la natura storica pressoché sconosciuta della nostra associazione, il nostro primo obiettivo è quello di far giungere il nostro vero messaggio ai bravi cittadini italiani. Questo avverrà sotto forma di volantinaggi in luoghi, spazi e modi leciti secondo la legge italiana e tramite web (forum, siti, blog, e-mail)". E, nell'ottica di questa propaganda via web, la sezione americana sta già provvedendo da tempo a inserire su Youtube i video con le loro cerimonie - inclusa quella nel corso della quale si brucia la croce.

Duri attacchi vengono rivolti anche ai gay, "colpevoli" della crisi della nostra società: "L'omosessualità è irresponsabilità senza vergogna. E' inutile negare che da quando è uscita dall'armadio è iniziata la crisi di salute della società. Gli omosessuali aggiungono una difficoltà tremenda al costo della sanità. Rifiutano di essere ragione di questa difficoltà, preferendo protestare per i benefici di governo invece di cambiare il loro comportamento, cioè pagando per i loro peccati".

Il cappuccio bianco che indossano serve a "tutelare il lavoro e la tranquilla vita quotidiana" degli iscritti: "Noi non desideriamo che i nostri membri cadano vittima di persecuzioni, aggressioni o discriminazioni", spiegano, non nascondendo il timore verso "taluni personaggi e associazioni di sinistra" che potrebbero crear loro problemi. Cercando di anticipare quanti chiedono la loro messa al bando, rispondono con una domanda: "Dicono che i Klansmen dovrebbero essere espulsi dai loro posti di lavoro militari, nella polizia, nei vigili del fuoco e da tutte le forme elette di governo. Se un Klansman dovrebbe essere licenziato dal proprio posto di lavoro perché il Klan storicamente uccise dei neri allora non sarebbe forse sensato che anche un nero lo sia poiché essi hanno maggiore attitudine all'uccidersi a vicenda più di quanto ne possa avere un Klansman?".

(2 novembre 2009)

http://www.repubblica.it/2009/11/sezioni/cronaca/ku-klux-klan/ku-klux-klan/ku-klux-klan.html
da Antifa

Gelli e Cardilli manovrano per un nuovo progetto piduista con i Templari

Mentre a Palazzo Chigi c'è chi pensa a completare il suo "piano di rinascita democratica", nel suo rifugio dorato di Villa Wanda, dove gli è stato concesso di scontare per "motivi di salute" i pochi anni di condanna deliberati da tribunali compiacenti, Licio Gelli continua nella più assoluta impunità a tessere le sue trame massoniche e a lavorare a nuovi progetti piduisti.
L'ultimo della serie, che è emerso di recente in margine a un'inchiesta per tangenti della procura di Verbania, lo vede implicato nella costruzione di una nuova cupola politico-affaristica segreta in combutta con l'ordine dei Templari attraverso un suo alto rappresentante, tale Delio Cardilli, tenente colonnello della guardia di finanza in servizio dal 1969, considerato l'anello di congiunzione con tutta una serie di "persone che contano" tra militari, politici, dirigenti dei ministeri, banchieri, magistrati, professionisti, imprenditori e faccendieri.
L'inchiesta che i magistrati di Verbania hanno completato a fine settembre e trasmesso ai pm antimafia di Palermo, che stanno indagando su un gruppo di affiliati ai "circoli del buon governo" di Marcello Dell'Utri, in grado di far slittare le udienze della Corte di Cassazione, era partita da un'indagine su una cordata di imprenditori che avevano messo in piedi un giro di fatture false simulando finte esportazioni di macchinari e riuscendo, oltre ad evadere le tasse, a farsi rimborsare in cinque anni ben 9 milioni di euro di crediti Iva dallo Stato. Al centro della mega truffa c'era la Tubor Spa, una fabbrica di termosifoni con 170 operai, lasciata fallire dopo il sequestro dei profitti illecitamente conseguiti. A garantire l'"ombrello fiscale" a questa associazione a delinquere erano Rolando Russo, dirigente dell'Agenzia delle entrate di Verbania e lo stesso Delio Cardilli.
I due, secondo gli inquirenti, si sarebbero divisi tangenti per un milione e 748 mila euro. Nonostante risultasse indagato a Roma già dal 2002, fino al 2006 Cardilli sedeva al comando generale delle fiamme gialle come "capo ufficio operazioni del nucleo speciale evasione contributiva", per diventare poi "comandante del centro addestramento regionale" di Perugia. Prima di essere arrestato, nel giugno 2008, insegnava alla "Libera Universitas" di Orvieto e scriveva di fisco sui quotidiani economici, tra cui anche il giornale confindustriale Il Sole 24 ore. Per comunicare con i suoi complici Cardilli usava 72 schede telefoniche e 29 cellulari. Per riuscire ad intercettarlo i finanzieri gli hanno dovuto piazzare una microspia in ufficio, riuscendo ad ascoltarlo solo per un paio di mesi.

Modello P2
Affiliato ai Templari, l'antico ordine cavalleresco affine alla massoneria, secondo gli inquirenti Cardilli "era in lizza per diventarne vice-priore nazionale". Da questa posizione strategica egli tesseva la sua rete di amicizie e complicità negli ambienti "che contano" ispirandosi al modello della P2 di Gelli, come risulta da questa trascrizione di una sua telefonata a un altro "cavaliere" intercettata il 16 giugno 2007: "Io voglio fare una forza che, con l'obiettivo umanitario, poi diventa anche economica e addirittura una forza politica... politica nel vero senso del termine. Perché quando io alzo il telefono e dall'altra parte c'ho il cavaliere templare che è procuratore della repubblica di Roma, ti faccio un esempio, io sto già più tranquillo. Mica dobbiamo fare chissà cosa, però c'hai un amico. Anche per un consiglio, no? Dall'altra parte alzi il telefono e trovi il direttore delle entrate... E c'hai un amico. A me piace fare una coalizione: tutti in uno. Hai capito? Che tu hai bisogno di qualsiasi cosa, e ognuno di noi deve avere l'etica di aiutare l'altro. Per la Finanza ci sono io, poi c'è il collega dei carabinieri, quell'altro dell'esercito... C'è tanta gente... Ci sono quelli della pubblica amministrazione, diversi imprenditori... così si fa!".
Per tutta quell'estate 2007 Cardilli si era tenuto in contatto telefonico con Licio Gelli, annunciandosi come "Delio" e dicendosi a sua completa disposizione "tranne una settimana di ferie". Sospettando di essere intercettati i due parlano per allusioni e senza mai fare nomi, facendo anche riferimento a un misterioso "gruppo dei cinque" che stanno organizzando. Molte telefonate servono solo a fissare incontri di persona, e le indagini ne documentano almeno uno, quando il colonnello accompagna a Villa Wanda un industriale, identificato con Pietro Mazzoni, titolare dell'omonima azienda con interessi negli appalti ambientali, dell'energia, delle pulizie e delle telecomunicazioni.

Spuntano i nomi di Dell'Utri, Schifani e Frattini
Prima che le intercettazioni si interrompano a causa del frequente cambio di telefonini, gli inquirenti fanno in tempo a registrarne una molto significativa sull'ampiezza della rete politico-affaristica che i due stanno tessendo. Convocando i templari ad una festa da tenersi il 15 settembre al Castello dell'Oscano di Perugia, Cardilli chiede loro se non sia il caso di ammettere altri "pezzi da 90" nel "nostro" sottogruppo, esprimendosi così: "Io volevo far entrare due assessori regionali, due magistrati: i procuratori di Roma e di Pisa, sono amici miei... (poi) farei entrare il senatore Colucci di Forza Italia (Francesco, in realtà questore della Camera, ndr). Un domani uno dice: ma chi è il vostro priore? Senatore Colucci, Senatore Schifani. Eh, Schifani è un altro amico mio, eh, (dire) Senatore Schifani è già un'altra cosa, no?... Il procuratore di Bologna pure... Io c'ho diverse nomine, ma finché non vedo le cose chiare, non le faccio entrare. Io ho fatto entrare il vicepresidente della Finmeccanica (ingegner Sabatino Stornelli, secondo i pm)... Il prefetto di Napoli sta nella mia comanderia... Abbiamo i notai, abbiamo i migliori avvocati, deputati, onorevoli, abbiamo addirittura un viceministro dell'interno che voleva entrare, ti dico pure il nome: Minniti".
Dalle intercettazioni, oltre ai nomi del presidente del Senato e del boss calabrese appartenente alla corrente dalemiana e ora sostenitore di Franceschini, salta fuori anche quello dell'attuale ministro degli Esteri, Franco Frattini, a quell'epoca ancora vicepresidente della Commissione europea: "Frattini, sì, sì, possiamo... ti posso mettere in contatto con lui", garantiva il colonnello ad un amico imprenditore che cercava appoggi per un suo progetto da presentare in sede europea. Su questa rete di "amicizie eccellenti" che coinvolge l'ordine dei Templari, ma con propaggini anche verso la mafia e in particolare i circoli di Dell'Utri, indaga ora per competenza la procura di Palermo, essendosi quella di Verbania limitata alla sola inchiesta sulla corruzione.
I pm di Palermo hanno scoperto infatti che il 6 giugno 2008 Cardilli si incontrò con una poliziotta, Francesca Surdo, in seguito arrestata quale complice di una consorteria massonica che riusciva a far rinviare e aggiustare anche i processi di mafia in Cassazione. E il presunto capo della banda, Rodolfo Grancini, è un massone di Orvieto in rapporti con Marcello Dell'Utri. La poliziotta voleva entrare nei servizi segreti e Grancini la presentò a Cardilli, qualificatosi come "già destinato ai servizi". All'incontro partecipò un "amico importante" del colonnello templare, Roberto Mezzaroma, costruttore romano ex europarlamentare di Forza Italia, e la poliziotta ricorda che "portava sulla giacca il prisma simbolo dei circoli di Dell'Utri".
E non va dimenticato che Dell'Utri, già condannato in primo grado a Palermo e ora al processo in appello, è stato indicato da Licio Gelli come "l'unico leader carismatico di questo paese" a parte Berlusconi, il solo ad essere alla sua altezza. Peccato che "lui ha il processo per mafia", come ebbe a rammaricarsi in quell'occasione il "venerabile" della P2.

http://www.pmli.it/
da Indymedia

Navi dei veleni: il Wwf denuncia le incongruenze

di Enzo Mangini
L'associazione ambientalista rileva che le coordinate del relitto ispezionato dalle telecamere inviate dalla Regione Calabria sono diverse da quelle della motonave Catania, che secondo il ministro dell'ambiente e il procuratore nazionale antimafia avrebbe invece «chiuso» il caso.

Lo sa chiunque vada per mare: bastano pochi primi e pochi secondi, sulle coordinate di una carta nautica, per fare una grande differenza. In questo caso, la differenza tra la verità e la frettolosa dichiarazione di «caso chiuso».

In una lettera inviata questa mattina al ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo e al procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, è il Wwf a contare primi e secondi. Il risultato è che le coordinate non coincidono. Secondo i rilevamenti dell’associazione ambientalista, infatti, il relitto ispezionato un mese fa dalle telecamere inviate dalla Regione Calabria su indicazione della Procura di Paola, in provincia di Cosenza, si sono immerse nel punto individuato dalle coordinate 39 gradi, 28.50 primi nord e 15 gradi, 41.57 primi est. La Mare Oceano, l’unità mandata dal ministero dell’ambiente, invece, ha immerso le sue sonde a 39 gradi, 32 primi nord e 15 gradi, 42 primi est. Lì sotto, appunto, c’è il relitto della motonave Catania, silurata da un sottomarino tedesco durante la prima guerra mondiale. E si sapeva che il relitto era lì, tanto che – come riportato da molti media – il relitto era segnalato sulle carte nautiche della marina militare tedesca e dell’ufficio idrografico del Regno Unito, praticamente la massima autorità mondiale in materia di carte nautiche.
Tradotto in distanze lineari, la differenza di coordinate vuol dire che tra i due punti ci sono circa tre miglia marine e mezzo. Cioè 6 chilometri e mezzo. Un errore difficile da fare con gli strumenti di posizionamento satellitare esistenti oggi a bordo anche delle barche dei naviganti della domenica. In sostanza, le sonde della Regione Calabria hanno visto un relitto diverso da quello visto dalle sonde della Mare Oceano e i dubbi erano emersi già quando sono state diffuse le immagini della perlustrazione sottomarina ordinata da ministero dell’ambiente e procura nazionale antimafia. Per questo, la dichiarazione di «caso chiuso» a proposito della vicenda della nave dei veleni affondata davanti le coste di Cetraro è sembrata quantomeno frettolosa, in mancanza di verifiche più precise sui relitti e soprattutto sul contenuto delle loro stive.
«Siamo stati i primi a gioire delle risposte rassicuranti da voi venute in occasione della conferenza stampa del 29 ottobre scorso, ma siamo convinti che l’unico modo per superare ogni equivoco sia quello di approfondire nel modo più trasparente possibile le analisi dei relitti – dichiara il Wwf nella lettera inviata a Prestigiacomo e Grasso – Per questo il Wwf chiede una perizia pubblica comparata, a cui possano assistere esperti nominati dalle associazioni ambientaliste, tra i due video girati dal Rov della nave ‘Coopernaut Franca’ della società Nautilus cha ha agito su incarico della Regione Calabria e dell’Arpacal [Agenzia regionale protezione ambiente] e dal Rov della nave ‘Mare Oceano’ della società Geolab incaricata dal Ministero dell’ambiente nonché di tutte le informazioni riguardanti le zone di operazione [a partire dalle coordinate dei due punti nave ] e le caratteristiche tecniche del naviglio rilevato». Il Presidente del Wwf Italia, Stefano Leoni, ha ribadito l’urgenza di una perizia pubblica comparata che possa cancellare ogni dubbio e accertare appieno la verità sull’identità e il contenuto della nave affondata a Cetraro.
L’associazione ambientalista, che da anni lavora sui dossier delle cosiddette «navi a perdere» ha denunciato in passato molte volte la reticenza di alcuni apparati dello Stato rispetto all’evidenza del traffico internazionale di rifiuti pericolosi e radioattivi, connesso con il traffico di armi. Una reticenza che, dopo l’esplosione del caso Cunsky, rischia di diventare molto sospetta, specialmente quando i motivi per dubitare delle dichiarazioni ufficiali si possono misurare in gradi, primi e secondi.

da Carta

La messa è finita


di Gianluca Carmosino
Migliaia di persone hanno partecipato all'ultima messa di Alessandro Santoro alle Piagge. Tra le lacrime, Alessandro ha trovato il modo e le parole per ringraziare tutti gli abitanti del quartiere e perfino Carta.

Più di 1.200 persone, tra loro anche molti non credenti, migranti, rom e alcune persone provenienti da fuori Firenze, hanno partecipato domenica 1 novembre dalle 11 alle 14 all’ultima messa di don Alessandro Santoro presso la comunità delle Piagge. Una celebrazione commovente, nella quale rabbia e gratitudine si sono alternati negli interventi e nelle preghiere.Tutti, in diverso modo, hanno fatto capire che, nonostante il provvedimento del vescovo Giuseppe Betori contro don Santoro [che il 26 ottobre ha «celebrato» il matrimonio di Sandra, una donna nata uomo], il laboratorio delle Piagge, non si ferma.
Ieri alle 15 si svolto il tradizionale doposcuola per i bambini e i ragazzi delle elementari e delle medie. I più grandi hanno partecipato invece dalle 15 in poi al Progetto Rete, dedicato all’accompagnamento degli adolescenti nelle delicate scelte della loro età. Alle 17 i volontari dell’associazione Il Muretto hanno aperto le porte del centro sociale Il Pozzo ai migranti che abitano nel quartiere per portare avanti la scuola di italiano. In serata, come ogni lunedì, c’è anche la scuola informale per gli adulti, per dare la possibilità di leggere e scrivere alle tante persone analfabete del quartiere.
Continua intanto l’invio e la raccolta dei messaggi di solidarietà alla Comunità da parte di centinaia di persone. Nell’ultimo giorno, e solo sul sito della Comunità www.altracitta.org, sono stati raccolti oltre quattrocento messaggi mentre altre centinaia sono arrivati all’indirizzo di posta elettronica ilmuretto@libero.it e presso la redazione di Carta. Altre 700 persone hanno firmato domenica, dopo la messa, l’appello per far restare Alessandro alle Piagge.
Domani, martedì, parte inoltre il digiuno a staffetta sotto la Curia in Piazza Duomo, quala forma di resistenza nonviolenta nei confronti della decisione del vescovo Giuseppe Betori di esiliare Alessandro Santoro in un limbo umano [è stato il vescovo, con tutta la sua arroganza, a usare queste parole].
Domenica Alessandro, tra le lacrime, durante l’omelia ha detto che se tornasse indietro rifarebbe tutte le scelte fatte, anche la «celebrazione» del matrimonio di Sandra, donna nata in un corpo di uomo, «perché non si può dire no all’amore, perché questa è l’unica legge, scritta nel Vangelo, l’unica alla quale sento di dovere obbedienza assoluta». «È questo lo scandalo di cui parla il vescovo – ha detto Alessandro – l’amore incondizionato per l’esistenza umana? Non ho mai insegnato i dieci comandamenti ai bambini – ha poi aggiunto -, perché suonano come divieti. Per spiegare loro la grandezza di Gesù, preferisco parlare del discorso della montagna, delle beatitudini di cui oggi ci parla il Vangelo. Dalla montagna si vede la folla, si vedono i volti delle persone, si può parlare con loro riconoscendosi in loro. E le beatitudini ti dicono non cosa non fare, ma cosa è giusto e bello fare per vivere in pienezza il messaggio di Cristo. Ed essere beati già qui sulla terra, perché anche nell’inferno bisogna fare spazio per il paradiso».
Alessandro ha anche spiegato che ora vuole obbedire a un provvedimento che non condivide, «ma se mi opponessi a pagarne le conseguenze sarebbe tutta la comunità», prima di ringraziare tutte le persone del quartiere «che mi hanno aiutato in questi anni a diventare uomo» e a scoprire che il mondo si può cambiare dal basso. Infine, ha citato le città invisibili di Italo Calvino, ma anche Luigi Pintor, Gandhi e Carta, che in questi anni lo hanno aiutato a guardare le cose da punti di vista differenti.
Da ultimo, con le note di alcune canzone di De Andrè e Gaber, Alessandro ha chiesto un favore alla sua gente: «Voglio la vostra benedizione – ha detto alla Comunità – Voi che siete stati i volti della mia famiglia, venite qui e benedicetemi, con la mano sulla testa, con il vostro abbraccio».
Nel pomeriggio molte persone sono rimaste per conoscere meglio le diverse attività promosse alle Piagge e per salutare Alessandro.

da Carta

Questione Meridionale, nota di Fascì (Pdci)

Nel 2010 si festeggeranno i 150 anni dall’unità d’Italia. Ma l’Italia è davvero unita? O rimane ancora irrisolta la “Questione Meridionale” denunciata da Salvemini, Villari, Giustino Fortunato e Gramsci un secolo fà? Esiste oggi una questione meridionale?
Io non so come oggi definirebbero la situazione Italiana e del Mezzogiorno i citati grandi meridionalisti.
Mi sembra che il tema possa essere spiegato meglio con degli esempi.
- In questi giorni tutti i telegiornali hanno riportato, con grande enfasi, l’intervista all’Amministratore Delegato delle Ferrovie dello stato. La notizia è che, fra qualche giorno, sarà attiva la linea veloce Roma- Milano\Milano-Roma. 3 ore; questo il tempo necessario per arrivare da Milano a Roma. Una enorme quantità di treni e vagoni nuovi di zecca sono stai messi a disposizione degli utenti. Una – ennesima - conquista.
Per la par condicio ci si sarebbe aspettato che il dott. Moretti avesse preannunciato una simile iniziativa da Roma verso Reggio Calabria o Palermo.
In realtà ha solo preannunciato che si farà (forse e non si sà quando) la linea veloce Bari-Reggio Calabria. Una certezza a fronte di una premessa – l’ennesima!

Vorrei aggiungere per completezza che, oggi, per arrivare a Roma, un cittadino di Reggio ha bisogno di un viaggio di circa 6 ore (il doppio quindi) e con un servizio composto da treni vecchi e sporchi.
- Insomma mi sembra di vedere la fotocopia di un’altra promessa di quelle che lasciano il segno: “il Ponte sullo Stretto”.
Il governo ha preannunciato che il I^ dicembre darà avvio ai lavori per la realizzazione del Ponte sullo Stretto. Andando a visionare con le lenti di ingrandimento la notizia ripetuta più volte dal Presidente e da altri autorevoli rappresentanti del Governo si evince che:
1) non inizieranno i lavori per il ponte, ma solo i lavori per lo spostamento della linea ferrata.
2) Si giustifica l’opera come un lavoro utile a migliorare la velocità. Sarà pur vero ma mi sembra difficile poter spiegare a chi studia ingegneria come si possa migliorare la velocità attraverso un’opera che demolisce un tratto di rete in rettilineo per sostituirlo con un binario in curva!
3) A proposito del ponte, i cui lavori starebbero per iniziare. Sarà così, ma di recente si è scoperto che ancora non è stato approvato il progetto esecutivo! Come si fà, quindi, ad appaltare l’opera?
4) A proposito; un grazie al Governo che ci annuncia l’inizio dei lavori di un’opera priva di copertura finanziaria atteso che, guardando attentamente nelle carte, si evince che il finanziamento pubblico-privato consta oggi di “0” finanziamenti privati e dell1% di contributo statale.
- Certo i cittadini calabresi possono stare tranquilli perché il Governo stà per mettere loro a disposizione la “banca del sud”. Rispetto alla Cassa del Mezzogiorno si è ancora regrediti: almeno quell’istituto era pieno di contenuti perché si trattava di finanziamenti dello Stato al Mezzogiorno. Nella nuova banca, invece, il Governo non ha messo una lira.
Ecco questa è la risposta alla iniziale domanda: la Questione Meridionale, nata dopo l’unità d’Italia non solo non è stata mai risolta dopo 150 anni, ma addirittura il Governo pensa di occultare il problema del divario nord-sud, solo con slogan mediatici privi di contenuti e di prospettive concrete. Il Sud e la Calabria non vogliono essere presi in giro; anzi vogliono scegliersi il loro futuro con le loro intelligenze e le loro capacità.
Questo è quello che vogliamo; noi stiamo spendendo le nostre forze per raggiungere questo obiettivo e per dimostrare che il sud e la Calabria non vogliono essere sudditi ma di avere una classe dirigente capace ed intorno a questo obiettivo grande ed importante chiamiamo tutto il centro sinistra e tutte le forze sane di questa grande Calabria.

Lorenzo Fascì
Segreteria Prov.Pdci Reggio


http://www.strill.it/index.php?option=com_content&view=article&id=53002%3Aquestione-meridionale-nota-di-fasci-pdci&catid=1%3Aultime&Itemid=85

Roma - Occupato il Ministero dell'Istruzione


di Sarah Castelli
Blitz degli studenti e precari della ricerca dell'Onda al ministero dell'istruzione a Roma. Gli studenti rispondono con forza all'approvazione della Riforma Gelmini. L'occupazione del ministero lancia la campagna "La Gelmini non ci merita". A breve ci sarà una conferenza stampa.Gli studenti, dopo il blitz, escono dal ministero e tornano nelle facoltà per riprendere la campagna di mobilitazione contro la riforma. Questo è solo l'inizio!

da GlobalProject

L'atto finale di un genocidio


Gli indiani Akuntsu, uno di quei popoli incontattati che vivono nelle foreste, nudi, cacciando con archi e frecce, lontani e isolati da tutti, a serio rischio di estinzione

"L'atto finale di un genocidio. Il numero degli Akuntsu scende a 5". Con queste parole inizia la denuncia della Ong in difesa dei popoli indigeni Survival International, allarmata per la sorte degli Indiani Akuntsu, uno di quei popoli incontattati che vivono nelle foreste, nudi, cacciando con archi e frecce, lontani e isolati da tutti (circa un centinaio nel mondo). E che oggi rischiano di scomparire. Da sempre parte integrante dell'Amazzonia brasiliana, nello stato di Rondonia, loro terra ancestrale è ormai mangiata da allevamenti di soia e bestiame. La foresta pluviale si è ormai ridotta a un fazzoletto dove loro tentano di vivere, ormai ridotti a cinque, cinque unici superstiti di un popolo la cui origine si perde nella notte dei tempi. Pochi giorni fa è morto, infatti, Ururú, il loro membro più anziano.

Ururú era il cardine di questo compatto e ormai minuscolo gruppo che vive di caccia, e ne era parte integrante. "Era un combattente, era forte e ha resistito fino all'ultimo momento" racconta a Survival Altair Algayer, capo dell'equipe del Funai, il Dipartimento agli affari indigeni del governo brasiliano che protegge la loro terra. "E, purtroppo, sta molto male anche suo fratello Konibu", spiega.

Gli Akuntsu vivono in piccole maloche di paglia (case comuni). Sono abili cacciatori - pecari, aguti e tapiri sono prede molto ambite - e coltivano manioca e mais in piccoli orti. Raccolgono i frutti della foresta e talvolta pescano nei ruscelli. Costruiscono flauti di legno che vengono utilizzati in danze e rituali e indossano bracciali e cavigliere fatte di fibre ricavate dalla palma. Le collane di conchiglie sono state sostituite da quelle in plastica ottenuta, peraltro, dai contenitori dei pesticidi abbandonati come spazzatura dagli agricoltori.

A sterminare uno dopo l'altro l'intero popolo sono stati infatti i coltivatori di soia e gli allevatori di bestiame, per mano di killer al soldo.
Ururú ha assistito a questo barbaro genocidio giorno dopo giorno. Questa gente ha invaso e distrutto ettari ed ettari di foresta, la loro terra natale, quella madreterra che gli indigeni adorano e rispettano sopra a ogni cosa. Una sciagura, autorizzata da un governo senza scrupoli che, tra gli anni Sessanta e Settanta, ha aperto le porte ai progetti di colonizzazione e alla costruzione della famigerata superstrada BR 364 nello stato di Rondônia. Uno scempio che ha costretto gli Akuntsu a ritirarsi in triangoli di terra sempre più piccoli, a retrocedere davanti all'uomo bianco, alla sua prepotenza, alla sua mancanza di scrupoli. Fino al giorno in cui si spinsero fino alle loro case, con ruspe e fucili, distruggendo ogni cosa e sparando all'impazzata. Gli unici due uomini superstiti di quella mattanza, Konibú e Pupak, portano ancora oggi i segni di quella sparatoria, cicatrici di pallottole che li colpirono mentre fuggivano disperati. Nessuno è capace di comprendere la lingua degli Akuntsu, quindi è impossibile sapere con certezza l'orrore provato, ma gli sguardi, i gesti, le cicatrici, il tono della voce, la dicono lunga.
Inoltre, con Ururú se n'è andata la più grande memoria storica del suo popolo, se ne sono andati i dettagli, i particolari di quegli orrori subiti negli ultimi cinquant'anni e impressi in lui per sempre, ma mai nessuno potrà seppellire quella tragica verità.

Il Funai contattò gli Akuntsu nel 1995. Erano rimasti solo in sette. Gli assassini avevano cercato di nascondere le tracce del loro crimine, ricoprendo con la terra i villaggi distrutti dai bulldozer, ma l'équipe governativa individuò i resti delle case distrutte. E capì.
Come ricompensa demarcarono il territorio indigeno, riconoscendolo ufficialmente, e il Funai poté dunque porsi a difesa di quegli ettari preziosi, continuamente oggetti di tentativi di invasione da parte dei vicini allevatori. Il membro più giovane del gruppo, la figlia di Konibú, è morta nel gennaio del 2000.

"Con la morte di Ururú stiamo assistendo agli atti finali di un genocidio in pieno XXI secolo - ha commentato Stephen Corry, direttore generale di Survival - A differenza degli stermini di massa della Germania nazista e del Ruanda, il genocidio dei popoli indigeni continua negli angoli più remoti del mondo, sfuggendo alla vista e alla condanna dell'opinione pubblica. Anche se i numeri sono inferiori, il risultato non cambia. Le speranze di salvezza dei popoli indigeni cominceranno solo quando le loro persecuzioni saranno state finalmente riconosciute gravi tanto quanto la schiavitù o l'apartheid". Per gli Akuntsu, intanto, nessuna speranza. Tre donne e due uomini, ormai in età avanzata è tutto quel che rimane di una gloriosa tribù. E un'altra parte della stupefacente diversità dell'umanità scomparirà, per sempre.

di Stella Spinelli da PeaceReporter

Una morte in carcere. Più che evitabile


di Matteo Bartocci
Si è impiccata con le lenzuola nel carcere femminile di Rebibbia a Roma. Diana Blefari, 40 anni, neobrigatista condannata all'ergastolo per concorso nell'omicidio del giuslavorista Marco Biagi. Si è uccisa il giorno dopo la notifica della condanna definitiva da parte della Cassazione. Svanita la spavalderia dei primi tempi dopo l'arresto, soffriva da tempo di disturbi psichici. Mutismo, isolamento, sciopero della fame, qualche aggressione violentissima verso gli agenti di polizia penitenziaria. Problemi di cui i medici del carcere romano erano ben consapevoli visto che nei mesi scorsi hanno chiesto un trattamento sanitario obbligatorio «in altra struttura più idonea» visto che era concreto, scrissero sul referto, il pericolo di vita per la detenuta. Dopo vari trasferimenti l'approdo a Rebibbia, in una cella sempre «aperta» e vicinissima al gabbiotto delle guardie.
Il capo del Dap Franco Ionta, dopo un sopralluogo in carcere, è sicuro che la sistemazione della neobrigatista «era corretta», e che «le recenti visite psichiatriche deponevano per una sua relativa tranquillità».
Tutto il contrario, invece, per le associazioni e gli organismi indipendenti sul carcere. «Era un suicidio prevedibile – afferma il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Mentre Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone, ricorda che quello di Diana Blefari non è un caso isolato. «E' il sessantesimo caso di suicidio in carcere dall'inizio dell'anno, si tratta dunque di un'emergenza a cui va data urgentemente una risposta». Per Luigi Manconi, presidente di Antigone a buon diritto ed ex sottosegretario alla giustizia, la diagnosi sulla Blefari era «inequivocabile»: «Gravi disturbi mentali. Valutazioni che stanno lì a testimoniare di una condizione che avrebbe dovuto imporre un suo ricovero in una struttura psichiatrica protetta».
Per i legali Blefari non è stata curata per un pregiudizio, che l'ha fatta valutare «come brigatista e non come una persona malata bisognosa di cure. Nessuno si è voluto prendere la responsabilità di dire che una pericolosa terrorista non era in grado di stare in carcere e a processo».

da IlManifesto

99 POSSE - TU LO CHIAMI DIO



TU LO CHIAMI DIO - 99 Posse

Tu lo chiamo dio ma io non lo conosco
nunn'è n'amico d'o mio e lo trovo un po' losco

dio deve essere importante perchè in lui è concentrato
il senso sacro dell'impero creato
dio deve essere importante ma attenzione attenzione
non parlerò di dio con chi sostiene una religione

tu lo chiamo dio ma io non lo conosco
vive in cielo il tuo dio e noi siamo in un fosso

il mio dio non giustifica le contraddizioni
lui si schiera e combatte, non rimanda al domani
lui non deve incarnare le mie aspirazioni
lui mangia con me procediamo a tentoni

Ho visto troppo persone morire soltanto
in nome de padrie et filio et spirito santo
mille generazioni martoriate dal dubbio
torturate con calcolo è peccato è peccato
ho visto donne combattere battaglie inumane
violentate nell'intimo e chiamate puttane
mille generazioni martoriate dal dubbio
torturate con calcolo è peccato è peccato
ho visto vite distrutte nel sorriso di un prete
calmo e rassicurante nel parlarmi di fede
mille generazioni è peccato è peccato
e lui calmo sorride nel chiostro maiolicato

Tu lo chiamo dio ma io non lo conosco
la mia spiritualità non si esprime nel culto

il mio dio non vive in cielo non sa neanche volare
se ho bisogno di lui non lo devo pregare
non divide le acque non moltiplica i pani
il mio dio è la mia pancia e muove lei le mie mani

Una Repubblica fondata sulla ''trattativa''


di Norma Ferrara -
Antonio Ingroia: le dichiarazioni di Ciancimino hanno provocato reazioni a catena. Ora chi sa parli.
La democrazia in un Paese talvolta è questione di tempo. Quello che intercorre fra una verità giudiziaria e una storica, quello che intercorre fra una memoria persa e una ritrovata, fra una morte sulla quale è stata fatta giustizia e una sulla quale è calato il silenzio.
Due anni fa, prima della nascita del movimento delle agende rosse, prima delle dichiarazioni del pentito Spatuzza e del dichiarante Massimo Ciancimino, ad un incontro pubblico, in memoria del 15esimo anno dalla scomparsa del magistrato Paolo Borsellino e della sua scorta, dentro le mura di un Palazzo di Giustizia di Palermo, una voce si distinse dalle altre: quella del pm Antonino Di Matteo.Rompendo quel rito annuale il magistrato ebbe il coraggio della chiarezza, dell'indignazione. Le sue parole rilette oggi assumono un significato ancora più lancinate. “Io mi chiedo – disse Di Matteo - che Paese è un Paese che ha rinunciato a sapere la verità? Un Paese nel quale di fronte all’emergere di stralci di procedimenti giudiziari circa le responsabilità di soggetti non organici a Cosa nostra nella strage di via d’Amelio si è lasciato tutto nel silenzio.[...]. Quello intorno alle indagini sulla strage non è stato – continua Di Matteo - un calo di attenzione fisiologico, c’è stato qualcos' altro”.


Oggi è forse più chiaro a cosa si stesse riferendo quel magistrato che seguì proprio a Caltanissetta le prime indagini sulle stragi e che raccoglie, insieme al magistrato Antonio Ingroia, le dichiarazioni del figlio di Vito Ciancimino, snodo principale della presunta trattativa fra Stato e mafia. Da quest'estate un movimento spontaneo di giovani si è raccolto accanto all'urlo del fratello di Paolo, Salvatore Borsellino, chiedendo verità e giustizia per quella strage non solo di mafia, per quella trattativa che a Contromafie il procuratore nazionale Piero Grasso ha definito “inaccettabile” dopo aver dichiarato giorni prima ai microfoni del Tg3 “che la trattativa ci fu e salvò la vita a molti uomini politici”. Qualche giorno dopo in Commissione antimafia il procuratore ha fatto di più: ha sollevato dubbi sul metodo stragista che da Capaci in poi Cosa nostra adottò per far fuori quei due magistrati scomodi per i piani della mafia dopo il maxi processo. Che Paese è questo? Abbiamo girato la domanda al sostituto procuratore di Palermo, Antonio Ingroia, amico e collega di Paolo Borsellino.


Sono state riaperte quest'estate le indagini su Capaci e via d'Amelio presso la procura di Caltanissetta. Riferendosi a quest'inchiesta al recente Forum antimafia di Firenze lei ha detto “C'è una parte di Paese che non vuole queste verità”. Quale?
L'intera storia d'Italia è contrassegnata dal fronteggiarsi di due Italie. Un' Italia fatta di persone che vogliono davvero verità e giustizia, a tutti i costi e senza sconti per nessuno. E un'altra parte d'Italia che percepisce il rischio che ci siano verità imbarazzanti, difficili e hanno messo in atto una serie di ostacoli affinché queste verità non vengano fuori. Come finirà? dipenderà essenzialmente dall'esito di questo confronto che ha caratterizzato la storia d'Italia degli ultimi dieci anni, il nostro futuro e quello della democrazia.


Un altro elemento che torna dopo molti anni al centro del dibattito pubblico è “la trattativa”, ovvero quel dialogo che (pare) si aprì fra esponenti delle istituzioni e esponenti mafiosi negli anni delle stragi. Al di là delle ricostruzioni giornalistiche, delle dichiarazioni di politici, che ricordano dettagli trascurati per 17 anni, cosa possiamo con certezza dire in merito alla cosiddetta “trattativa” oggi?
Paradossalmente sono uno dei più informati sui fatti ma anche uno dei meno indicati a rilasciare dichiarazioni in merito. Tuttavia si posso dire alcune cose. Già in passato erano emersi elementi significativi che comprovavano l'esistenza di una trattativa a cavallo delle stragi e subito dopo, fra il '92 e il '93. Questi elementi sono stati convalidati anche in sentenze, passate in giudicato (quelle sulle stragi) che parlano esplicitamente di questa trattativa fra la mafia e alcuni esponenti dello Stato. Poi c'è un fatto nuovo. Negli ultimi mesi, per una serie di circostanze, che hanno avuto inizio principalmente con le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, si è innescata una reazione a catena che ha fatto si che venissero fuori molti nuovi elementi. Ricordi, circostanze rese note da parte di testimoni o protagonisti istituzionali del tempo. Questi episodi letti in modo coerente, confrontati gli uni con gli altri e con le risultanze processuali già in possesso dei magistrati, hanno fatto ritenere convalidata la tesi e l'ipotesi di una trattativa.


La trattativa c'è stata, dunque?
Questi elementi - dicevo - hanno fatto ritenere convalidata l'ipotesi che una trattativa ci sia stata e si sia dipanata fra il 1992 e il 1994, e forse anche oltre. Questa trattativa ha impegnato uomini di mafia, anche diversi nel tempo se consideriamo che partì con Totò Riina - che poi venne arrestato - che continuò pare con Vito Ciancimino - a sua volta finito in carcere - e in seguito non si è fermata ma è andata avanti; ci sono quindi state delle sostituzioni. Dalle risultanze processuali pare che queste sostituzioni non siano avvenute solo da parte mafiosa ma anche dall'altra parte, tant'è che si è parlato, semplificando, di una prima, di una seconda trattativa e cosi vià ... Non posso entrare nel dettaglio di questi aspetti ma credo che queste indagini assumano un' importanza non solo per le responsabilità penali connesse ma perché riguardano la storia del nostro Paese. Lo dico senza enfasi ma con convinzione: fare luce su quella stagione è fondamentale perché se trattativa ci fu - come pare - e se ad un certo punto si concluse, i risultati sono diventati visibili negli anni successivi e forse anche noi oggi paghiamo le conseguenze di quella “trattativa”. Anche noi siamo in sostanza figli di quella trattativa, l'intera seconda Repubblica lo è. Non è possibile oggi capire cos'è quest'ultima se non verranno chiarite sino in fondo le sue origini.


La politica ha giocato un ruolo singolare in queste indagini. Solo oggi dopo 17 anni molti uomini politici parlano di episodi accaduti nei 58 giorni che divisero la strage di Capaci da quella di via D'Amelio. Perché testimoni dell'epoca, come Violante e Martelli, parlano solo oggi - cos'è cambiato?
Molti di loro erano già stati interrogati dalla magistratura anche in quegli anni, chiaramente non in merito alla “trattativa”, di cui ancora nulla si sapeva, ma intorno a quella stagione, e nulla dissero in merito. Possiamo oggi prendere per buona la versione di ciascuno di loro: erano in possesso di singole circostanze e particolari cui non avevano attribuito particolare significato poiché presi singolarmente; significato che avrebbero rintracciato invece oggi alla luce del contesto raccontato da Ciancimio Junior. Trovo prematura tuttavia una valutazione su questo “ritardo” mentre credo che sia importante la valutazione di questi ricordi, seppure tardivi. Mai come in questa occasione, inoltre, se altri uomini delle istituzioni sono in possesso di notizie/informazioni, come personalmente credo, è giunta l'ora di parlare.


Un documento da molti ritenuto “centrale” per provare la trattativa è da poco giunto alla procura di Palermo, cosa può dirci sul cosiddetto “papello”; è l'unica prova o potrebbero essercene altre?
Non posso entrare nel dettaglio dell'indagine quello che posso dire è che, da quanto emerge da cose ormai pubbliche, il cosiddetto papello sarebbe stato uno di primi passi della trattativa. Sarebbe stato scritto da Riina, ma è verosimile e plausibile che la trattativa sia proseguita a prescindere da quel “papello” e che dopo non ci siano stati più dei documenti scritti ma ci sia stata una trattativa verbale.


In una sua inchiesta sui “Sistemi criminali”, poi archiviata, lei metteva in relazione alcune dinamiche interne a Cosa nostra e la politica italiana, con altre internazionali legate alla destra eversiva, ma anche a progetti secessionisti nel sud Italia. Quanto è attuale quell'inchiesta oggi alla luce di quelle dichiarazioni?
Anche qui ho difficoltà a parlare di indagini di cui mi sono occupato in passato. Ma ci sono cose che ho già detto nella requisitoria di primo grado del processo dell' Utri e in altre occasioni. Quello che emergeva, fra le altre cose da quell'inchiesta, era che in questa trattativa, ad un certo momento, il progetto di tipo separatista coltivato da Cosa nostra nella fase storica che va dal 1991 al '92 fosse stato utilizzato come una sorta di minaccia per fare accettare la trattativa. Come a dire, per intenderci, Cosa nostra ad un certo punto pone la questione così: siamo disposti a rinunciare al progetto e al Golpe se tu Stato vieni a trattare con noi.

Tratto da: liberainformazione.org
da AntimafiaDuemila

Placido Rizzotto


Corleone, 1948. Aveva 34 anni. Il sindacalista comunista Placido Rizzotto scompare misteriosamente nella notte del 10 marzo. Il giovane Placido Rizzotto, da bambino ha assistito all'arresto da parte dei carabinieri del padre, ingiustamente accusato di associazione a delinquere; durante la seconda Guerra Mondiale si trovava con l'esercito nel Nord Italia e dopo l '8 settembre dei 1943 scelse di unirsi ai partigiani, testimone impotente di alcuni eccidi scampato alla violenza della guerra, torna nella sua terra natale alla fine della seconda guerra mondiale. L'aver partecipato alla Resistenza aveva profondamente cambiato Placido Rizzotto, non poteva accettare la realtà corleonese fatta da pochi padroni terrieri, dei loro servi mafiosi e di moltissimi contadini in miseria, in una Corleone del dopoguerra ancora inevitabilmente regolata dall'incontrastabile legge del potere mafioso. Negli anni della guerra ha maturato una forte coscienza sociale e non può guardare inerte le ingiustizie che stanno accadendo nella sua comunità né tollerare l'appropriazione delle terre da parte della mafia e l'assunzione dei lavoratori per motivi esclusivamente nepotistici. Diviene sindacalista e cerca di organizzare i lavoratori per spingerli a vincere la paura e a resistere alle tirannie. Li spinge a occupare le terre e a distribuire a famiglie di contadini onesti quelle tenute incolte dalla mafia. La mafia non tarda a reagire, intimidisce i suoi compagni e lo isola in ogni modo. Entra in conflitto anche con Lia, la ragazza che ama. Rizzotto non recede di un passo dai propri principi e dalla propria battaglia preferendo affrontare con coraggiosa determinazione un tragico destino. Rizzotto continua la sua battaglia, diventando a fatica Segretario della Camera del Lavoro della città, impegnato a sostenere i contadini nella lotta per l'occupazione delle terre, organizzava gli stessi ad occupare le terre dei boss locali, mettendosi a capo del movimento contadino per l'occupazione delle terre. Era nel mirino di mafia e padroni, Placido aveva osato sfidare i boss mafiosi locali. Da subito si oppone al sistema malsano di assegnazione dei lavori e delle terre, cercando di guidare la forza propositiva della gente a combattere la mentalità delle minacce e del terrore. Si batte per l'applicazione dei "Decreti Gullo'" che prevedevano l'obbligo di cedere in affitto alle cooperative contadine le terre incolte o malcoltivate dai proprietari agrari. Ancora una volta furono organizzati scioperi e rivolte. E ancora una volta ci furono violenti scontri tra mafiosi e contadini. Uno dei feudi che vengono assegnati alle cooperative agricole è quello di Strasatto dove comandava un giovane mafioso che diventerà tristemente famoso: Luciano Liggio. Tra Rizzotto e Liggio c'era già stato uno scontro che era finito male per il mafioso il quale si era ritrovato appeso all'inferriata della Villa comunale.Ovviamente tra i due non correva buon sangue. A questo punto i padroni, i mafiosi e alcuni "pezzi" dello Stato decidono di farla finita una volta per tutte con questi "sovversivi". Il primo maggio del 1947 cominciarono a seminare terrore con la strage di Portella delle Ginestre e negli anni successivi catturano e uccidono sistematicamente tutti i capi sindacali che osavano mettersi loro contro. Accanto a lui una serie infinita di piccoli uomini dalle mani sporche di terra e Lia, la giovane donna che si innamora di Placido, che con lui sogna, che per lui subisce uno "zio" insidioso, che dopo di lui fugge da quella terra che le ha tolto ogni speranza e ogni coraggio. Nonostante gli avvertimenti della sua famiglia, e le attenzioni dei suoi fedelissimi collaboratori, Rizzotto non riesce a sottrarsi a una sorte che sembra quasi scontata. La sera dei 10 maggio dei 1948 viene sequestrato e ucciso Placido Rizzotto, scompare nel nulla e il suo corpo non fu mai ritrovato. La morte del sindacalista sconvolge tutta l'Italia democratica. La CGIL proclama uno sciopero generale contestando violentemente dall' allora capo del Governo Mario Scelba In questa realtà si intrecciano le vite di tanti personaggi che scriveranno, nel bene e nel male, la storia della seconda metà del Novecento: il giovane universitario Pio La Torre che sostituisce Rizzotto alla guida dei contadini corleonesi e che subirà la sua stessa tragica sorte; l'allora capitano Carlo Alberto dalla Chiesa, capo delle indagini sulla morte di Rizzotto, ucciso Generale in un attentato nel 1982; Luciano Liggio, mandante dell'omicidio di Placido Rizzotto, che diventerà uno dei più potenti boss della mafia siciliana. Le indagini, condotte dall'allora capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, porteranno all'arresto di Luciano Liggio, uno degli assassini di Rizzotto, e vennero alla ribalta due dei suoi fedelissimi luogotenenti: Totò Riina e Bernardo Provengano, ed al ritrovamento dei miseri resti del sindacalista. La settimana prima della scomparsa di Placido Rizzotto, sulle Madonie, era stato assassinato il capolega Epifanio Li Puma. Meno di un mese dopo, a Camporeale, verrà ucciso Calogero Cangelosi. Sono alcuni di una lunga serie di sindacalisti, capi contadini e semplici lavoratori a cadere sotto il piombo della mafia del feudo, alla vigilia delle elezioni politiche del 18 aprile '48. Purtroppo quegli assassini mafiosi hanno vinto. Sono diventati sempre più ricchi e potenti, hanno conservato il controllo del territorio, dirottato i voti su chi volevano, goduto della copertura di partiti di governo. Hanno esportato i capitali e sono entrati con Sindona nella finanza internazionale. Hanno riciclato i soldi sporchi nell'arrembante Milano degli anni Settanta e fatto da padrini a qualche capitano del neo capitalismo all'italiana. Il tutto continuando a uccidere, dopo Placido Rizzotto, Pio La Torre e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, e poi decine di magistrati, poliziotti, politici coraggiosi, povera gente che aveva osato ribellarsi o semplicemente attraversava la strada di un attentato. E' vero che negli ultimi anni, dalla morte di Falcone e Borsellino, qualcosa è stato fatto. Anzi, molto più di qualcosa. Ma tira anche un'aria di disarmo nella lotta alla mafia, una specie di indietro tutta. La festa nazionale per il lieto fine dei processi ad Andreotti, la cui immagine pure sarebbe dovuta uscire a pezzi dal dibattimento in aula, dalle decine di menzogne, dai provati contatti con Sindona e i cugini Salvo, ha testimoniato del mutato clima nell'opinione pubblica.

Fonte: ASSALTARE IL CIELO
Associazione culturale
per la promozione e la tutela
dei diritti umani
assaltareilcielo@virgilio.it
da RETI-INVISIBILI

Vendola: costruire nuova coalizione

Il governatore avvia gli incontri. Via libera da Blasi. Idv: utile confronto. Nichi soddisfatto dalla prima tornata di faccia a faccia. Il capitolo più difficile sarà quello con l´Udc

Il Pd di Blasi sdogana senza se e senza ma, Nichi Vendola nei panni di candidato del centrosinistra alle regionali 2010. L´Idv non sbatte la porta in faccia al leader di Sinistra e libertà, che vorrebbe bissare il successo del 2005. Quanto al rivoluzionario gentile, assicura di volere «costruire una nuova coalizione» per «tenere in vita e arricchire l´esperienza del cambiamento» che va in scena nel tacco d´Italia ormai da quasi cinque anni a questa parte. Da ieri è lo stesso Vendola a «prendere l´iniziativa», come gli aveva suggerito Massimo D´Alema. Il governatore incontra una delegazione del Pd e poi un´altra, dell´Italia dei valori. Per i democratici, fanno capolino nel quartier generale di lungomare Nazario Sauro il segretario in pectore Sergio Blasi e l´ex europarlamentare Enzo Lavarra. Il faccia a faccia va avanti per poco più di mezz´ora. Blasi, all´uscita, assicura che Nichi «lavorerà per mettere in piedi un´alleanza larga». A cominciare da quella con i «ceti moderati», che non vogliono marciare alla volta della «destra caserma di Berlusconi e Fitto».

Ogni riferimento all´Udc non sembra casuale. Un partito, quello di Pierferdinando Casini, i cui dirigenti però ripetono che è «alternativo a Vendola». Trovare la quadra non sarà facile, ma il capo dei riformisti appare fiducioso: «Vendola come competitore l´anno prossimo per la presidenza della Regione è un fatto acquisito». Più chiaro di così. E´ inevitabilmente spigolosa, subito dopo, la chiacchierata col coordinatore dell´Idv, l´onorevole Pierfelice Zazzera, e il consigliere regionale Giacomo Olivieri.

I dipietristi non sono mai teneri nei riguardi di Nichita il Rosso. «Le distanze fra di noi potrebbero accorciarsi se, per esempio, Vendola scegliesse di rimuovere tutti i manager della sanità che risultano indagati. Giacché il rischio è quello di affrontare una campagna elettorale sotto la spada di Damocle delle inchieste giudiziarie» spiega Zazzera, che tuttavia proprio a proposito di Vendola non digrigna i denti come al solito: «Quello con il presidente è stato un confronto utile. Ad oggi non si può dire che sarà sostenuto dall´Italia dei valori, ma cambiare idea non è peccato». Della serie: voglio (assecondarlo), ma per ora non posso.


Vendola, affiancato da Nicola Fratoianni, alla fine della mattinata è soddisfatto. Col Pd fa sapere di avere un «rapporto molto buono, di lealtà e solidarietà politica». Con l´Idv la relazione è «franca e feconda». Nonostante le tensioni del passato. «Ma chi governa deve anche capire quali sono i passi da correggere e gli errori da superare» concede ai "carissimi nemici" capeggiati dall´eclettico Tonino da Montenero.

L´eventuale patto con l´Udc è il capitolo più delicato di questa storia. Vendola mette le mani avanti: «Io non impongo niente, ma non intendo subire veti». L´obiettivo, piuttosto, è quello di tirare su «un edificio» in grado di accogliere «pezzi di ceto politico, di società e settori moderati che patiscono il centrodestra, considerato una realtà soffocante». Del resto, aggiunge, dovrebbero stare dallo stesso lato della barricata «tutti quelli che sanno quali sono i danni inflitti al Mezzogiorno dal governo Berlusconi». A quel punto non resterebbe chiuso nel cassetto delle buone intenzioni, il sogno di realizzare un «grande accordo» per «difendere gli interessi del Sud» ed «esaltare la centralità della questione morale».

Sono - Meridione e legalità - le due facce della medaglia che Vendola sventolerà davanti agli occhi di tutti i potenziali compagni di viaggio e che esibirà domenica 15, quando alla Fiera del levante «racconterò quanto ho vissuto, fra luci e ombre. Sarà un appuntamento doveroso». Per dare il via, ufficialmente, alla corsa verso la riconquista del governatorato all´ombra delle insegne dei progressisti, a partire da quelle di Sinistra e libertà. Vendola sorride: «Il mio movimento ha in Puglia un consenso significativo».
(03 novembre 2009)

http://bari.repubblica.it/dettaglio/Vendola-candidato:-si-del-Pd-apertura-dellIdv/1767643

La società del moussakàs

Helene Paraskeva è una scrittrice nata ad Atene. Vive a Roma dal 1975. Questa è la seconda puntata della sua serie Menù antirazzista.

Per descrivere i processi d’integrazione tra etnie i sociologi usano diverse metafore. Per esempio, la società statunitense, formata da immigrati provenienti da tutto il mondo in epoche diverse e assimilati a un modello culturale unico, era paragonata a un crogiolo, il famoso melting pot. Altri esperti usano la metafora culinaria della salad bowl, l’insalatiera con vari tipi di verdure che, condite insieme, hanno un sapore armonioso.
Anche il moussakàs, piatto completo dal sapore unico (anzi, epico), può essere paragonato a una società in evoluzione, che passa dal modello multiculturale a quello interculturale. Per la preparazione del moussakàs bisogna disporre in una teglia tre strati di cibi differenti, cucinati in maniera diversa. Il primo strato è di melanzane fritte, anche se alcuni usano le patate. Sopra, dopo una spolverata di parmigiano, si mette uno strato di ragù e infine, dopo un’altra spolverata di parmigiano, si aggiunge la besciamella.
Il moussakàs è multiculturale perché i suoi ingredienti vengono da diverse parti del mondo. La melanzana è d’origine asiatica, la patata proviene dagli altopiani andini, il pomodoro – che gli aztechi chiamavano tomatl – viene dall’America centrale, il parmigiano è italiano, la besciamella è una salsa raffinata d’ideazione francese e la carne macinata del ragù è la migliore, quella del luogo. L’olio di oliva non può che essere mediterraneo. Quando gli strati sono pronti, si mette tutto in forno per circa mezz’ora.
Oltre a essere multiculturale, il moussakàs è l’esempio concreto di una società interculturale. I suoi ingredienti non sono schiacciati, spremuti o pestati. I componenti di questa società comunicano tra loro senza perdere identità, pur essendo di origini diverse. Ogni ingrediente è insaporito dall’olio di oliva, che mette in relazione i diversi sapori e ne facilita la convivenza.
Si dice del moussakàs che diventa migliore il giorno dopo la cottura. L’interculturalità è un processo che ha bisogno di tempo per crescere e maturare. Ma, intanto, bisogna cominciare. Helene Paraskeva

da Internazionale