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giovedì 25 marzo 2010

Detenzione amministrativa - Uno storia di brutalità, violenze e violazioni

Per Joy e per tutte le altre vittime di abusi nei centri di detenzione per migranti, a partire da Amin Saber ucciso nel CPTA di Caltanissetta nel 1998 e dalle sei vittime del rogo al Centro Serraino Vulpitta di Trapani nel 1999.

1. Verso la fine dello stato di diritto: un diritto speciale per i migranti

A partire dal 1998, con la introduzione dei centri di permanenza temporanea e di assistenza (CPTA) per gli immigrati in attesa di espulsione, denominati oggi come CIE, Centri di identificazione ed espulsione, si è diffuso anche in Italia un diritto speciale che sanziona gli immigrati irregolari con una forma di detenzione caratterizzata dalla discrezionalità dell’autorità di polizia, ben oltre i casi eccezionali ed urgenti in cui questo è consentito in base all’art. 13 della Costituzione, che stabilisce limiti precisi per la detenzione amministrativa, precisando che, in mancanza di un atto dell’autorità giudiziaria nei soli casi previsti dalla legge, può essere adottata “in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge” con provvedimenti che devono essere comunicati al giudice entro 48 ore e convalidati entro 96 ore “dall’autorità giudiziaria”. Dopo che fino allo scorso anno l’ingresso o la semplice presenza irregolare sul territorio sono stati sanzionati con una misura amministrativa simile al domicilio obbligato, ma che nella sostanza risulta limitativa della libertà personale, oggi la introduzione del rato di immigrazione clandestina e il prolungamento dei tempi di detenzione nei CIE, fino a sei mesi, hanno ridefinito la funzione sanzionatoria di queste strutture ed hanno alimentato un clima di violenze e di abusi che si è poi tradotto in disperate rivolte ed in un numero imprecisato di atti di autolesionismo, fino al suicidio. Si è generalizzato l’uso già denunciato da anni degli psicofarmaci, per tenere tranquilli gli “ospiti” di queste strutture, ed è calato una plumbea cappa di censura su quanto avviene ancora oggi all’interno dei centri, al punto che le denunce dei movimenti antirazzisti e le iniziative di protesta sono state etichettate come atti di sovversione e come tali perseguiti penalmente.

Già nel 1998 si richiamava l’art. 5 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, che avrebbe consentito al legislatore nazionale l’adozione di misure limitative della libertà personale nel caso di arresto o detenzione “legali” di una persona “per impedirle di penetrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione”. Questa disposizione va però interpretata in senso coerente con il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona umana contenuto nelle convenzioni internazionali e nelle norme costituzionali nazionali.
In realtà non sembra possibile qualificare la situazione di trattenimento nei centri CIE come un caso di “arresto o detenzione legale” perché il termine “legale” dovrebbe significare una piena conformità a tutte le leggi di un determinato ordinamento giuridico, ed ai principi del diritto internazionale, senza trascurare il dettato costituzionale. In particolare, tale conformità della detenzione amministrativa alla legge fondamentale deve escludersi nel caso delle norme italiane che nel tempo hanno previsto e regolato prima i CPT, oggi i CIE, affidando per intero alla discrezionalità amministrativa, e dunque alle decisioni di Prefetti e Questori una materia delicata e costituzionalmente rilevante come la libertà personale.

La detenzione amministrativa, così come oggi è praticata in Italia nei CIE, viola gli articoli 3 ( parità di trattamento), 13 ( obbligo di controllo giurisdizionale sui provvedimenti amministrativi limitativi della libertà personale ed eccezionalità di tali provvedimenti) e 24 ( diritto di difesa per tutti, senza possibilità di differenze tra cittadini e stranieri) della Costituzione italiana. Le norme regolamentari e le prassi amministrative sono andate ancora oltre e sono innumerevoli i casi nei quali per effetto di provvedimenti amministrativi poi risultati illegittimi sono stati violati la riserva di legge ( solo la legge può stabilire la condizione giuridica dello straniero) ed il diritto di asilo, riconosciuti dall’art. 10 della Costituzione, rispettivamente al secondo ed al terzo comma.
Malgrado la Corte costituzionali nel 2001 con la sentenza n.105, abbia “salvato” i centri di permanenza temporanea, indicando modalità di applicazione delle norme orientate in senso conforme alla Costituzione, nella generalità dei casi queste prescrizioni vengono ancora oggi disattese. Nonostante il trasferimento delle competenze ai giudici di pace, sono sempre numerosi i casi di mancata convalida dei provvedimenti di trattenimento nei CIE, ed è ancora recentissima una sentenza della Corte di Cassazione che impone l’obbligo di una convalida effettiva con la comparizione dell’interessato e con il rispetto del principio del contraddittorio.( così la sentenza n. 4544 del 24/2/2010). .

La normativa italiana sui centri di identificazione ed espulsione, proprio per le modalità di applicazione da parte delle autorità di polizia, risulta ancora in netto contrasto con il dettato costituzionale. Le procedure amministrative relative al trattenimento rimangono infatti prive di una effettiva sede di ricorso, dal momento che gli immigrati trattenuti nei CIE spesso non vengono neppure condotti davanti al giudice della convalida, in quanto sono “costretti” a rinunciare alla partecipazione all’udienza, ed i difensori non sono messi nelle condizioni di esercitare effettivamente i diritti di difesa previsti dall’art. 24 della Costituzione, perchè non vengono mai avvertiti delle udienze con il necessario anticipo.

Gli immigrati trattenuti nei CIE, malgrado il ricorso contro l’espulsione o il respingimento, possono essere ancora oggi accompagnati in frontiera anche in pendenza del ricorso giurisdizionale. L’art. 24 della Costituzione, che stabilisce “per tutti” e non solo per gli italiani il diritto di far valere in giudizio i propri diritti ed interessi legittimi, è di fatto contraddetto in tutte le fasi del trattenimento nei CIE. In molte sedi i giudici civili ritengono che il ricorso contro il respingimento differito disposto dal Questore sia di competenza dei tribunali amministrativi, mentre i giudici amministrativi ritengono che si tratti di competenza dei giudici ordinari, con la conseguenza che spesso i migranti rimangono privi di un giudice che stabilisca la legittimità dei provvedimenti di allontanamento forzato, presupposto dell’internamento nei CIE.

A causa della cronica carenza di interpreti ufficiali non è garantito neppure il diritto alla comprensione linguistica, talvolta sono proprio gli scafisti o gli immigrati con precedenti penali a svolgere il ruolo di interprete. Generalmente l’immigrato trattenuto nel CIE, durante l’udienza di convalida, non percepisce neppure la differenza tra il giudice, l’avvocato d’ufficio e gli agenti di polizia in borghese (1) Eppure tutte le convenzioni internazionali e in particolare la Raccomandazione n. 1624 del Consiglio d’Europa nel 2003 indicano la necessità di una assistenza linguistica attraverso “interpreti indipendenti” durante i procedimenti di espulsione. La stessa Raccomandazione, ed adesso la direttiva sui rimpatri richiamano la necessità dell’effetto sospensivo ( dell’espulsione) del ricorso giurisdizionale e del patrocinio gratuito per dare effettività ai diritti di difesa.
Nei centri di detenzione amministrativa hanno libero accesso gli agenti diplomatici e consolari dei paesi dai quali si ritiene provengano gli immigrati, con la conseguenza che i potenziali richiedenti asilo sono spesso intimiditi e minacciati di gravi ritorsioni qualora insistano nella volontà di formalizzare la loro richiesta di asilo.

Come è dimostrato da diversi processi in corso e da numerose indagini giornalistiche, sembra che l’art. 13 terzo comma della Costituzione secondo cui “ è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” , non abbia alcun valore all’interno dei CIE (come durante le operazioni di allontanamento forzato degli immigrati irregolari). Nella maggior parte dei casi anche sporgere denuncia è difficilissimo, per paura di ritorsioni e soprattutto perché l’accompagnamento forzato in frontiera costituisce una minaccia tanto grave che consiglia agli immigrati di fare tutto il possibile per evitarlo, incluso il silenzio sulle violenze subite o alle quali si è assistito.

2. Espulsione e detenzione amministrativa nel quadro del Regolamento Schengen
Sulla base di una diffusa giustificazione, fondata anche sugli obblighi di esecuzione degli accordi di Schengen, oggi Regolamento delle frontiere Schengen del 2006, che impongono agli stati aderenti di dare effettiva esecuzione ai provvedimenti di respingimento e di espulsione, si è alimentata anche in Italia una spirale securitaria, come se i centri di detenzione amministrativa costituissero un efficace strumento di contrasto della clandestinità e della criminalità, associata sempre più spesso al diffondersi della condizione di irregolarità dei migranti. Sotto questo punto di vista, al di là della diversità dei toni, le politiche dei governi che si sono succeduti in Italia dal 1998 ad oggi sono state sostanzialmente omogenee, sulla base del comune presupposto della ineliminabilità dei centri di detenzione

Dopo le dichiarazioni favorevoli ai CIE dell’attuale Presidente della Repubblica prima che fosse nominato alla più alta carica dello Stato, si sono moltiplicate da parte di autorevoli rappresentanti dell’attuale opposizione, come Francesco Rutelli e Giannicola Sinisi, già responsabile immigrazione per la Margherita, ed anche da parte di numerosi esponenti del PD, che i CIE non sarebbero eliminabili. Si dovrebbero soltanto graduare i requisiti per il trattenimento, riservando queste strutture “a coloro che sulla base di un provvedimento del prefetto, siano ritenuti pericolosi, per i quali le altre misure siano ritenute inadeguate, ovvero che non hanno osservato le misure di minore afflittività, ovvero hanno violato le prescrizioni impostegli”.

Si è anche sostenuto che la chiusura dei CPT comporterebbe addirittura il ritorno alla legge Martelli del 1990 ” ed alla assolutamente inefficace e puramente simbolica intimazione a lasciare il territorio dello Stato”. Nessuno sembra ricordare che la direttiva comunitaria sui rimpatri prevede forme diverse di rimpatrio volontario prima di ricorrere al rimpatrio forzato, ma in Italia questa direttiva è stata bruciata con la introduzione del reato di immigrazione clandestina. Si può legittimamente dubitare della fondatezza di queste affermazioni, considerando la cifra ormai stabile di stranieri trattenuti in queste strutture, una percentuale assai modesta rispetto a quelli comunque residenti sul nostro territorio in condizioni di irregolarità, ed alla percentuale ancora più modesta di immigrati (attorno alle 6.000 persone, la metà all’incirca degli immigrati che possono essere rinchiusi annualmente nei CIE dopo il prolungamento a sei mesi della detenzione amministrativa), che ogni anno vengono accompagnati effettivamente in frontiera attraverso i centri. Di fronte al fallimento delle politiche migratorie del governo appare quasi patetica la serie di comunicati stampa con i quali il Ministero dell’interno utilizza i principali canali di informazione per rassicurare la popolazione che ogni settimana sono stati accompagnati nei paesi di provenienza tra 40 ed 80 immigrati irregolari. Un numero di persone, non una semplice cifra, sempre in diminuzione (diremmo fortunatamente) se confrontata agli anni precedenti, che conferma il fallimento dell’inasprimento repressivo voluto dal governo Berlusconi e dal ministro Maroni. Dopo gli accordi con la libia anche gli altri paesi hanno rialzato il costo degli accordi di riammissione e pretendono decine di milioni di euro all’anno per accettare la riammissione dei propri cittadini espulsi dall’Italia.
Numeri assai poco significativi rispetto alla consistenza della presenza di migranti in situazione irregolare, come emerge da anni in base ai dati delle regolarizzazioni o delle richieste sulla base dei decreti flussi annuali. Sulla base di questi dati si può stimare che, in assenza di una legge sul diritto di asilo costituzionale e di possibilità effettive di ingresso legale per ricerca di lavoro, il numero degli immigrati presenti in Italia in condizione di irregolarità aumenti annualmente di almeno 150.000 unità. Se dunque si sostiene che i CIE contribuiscono a rendere “effettive” le misure di accompagnamento forzato in frontiera si viene immediatamente smentiti dalle cifre (2).

Gli accordi di Schengen non imponevano peraltro una aberrazione giuridica come i CIE, in quanto si limitavano alla prescrizione che le espulsioni fossero “effettivamente” eseguite. Obiettivo perseguibile anche nel rispetto delle garanzie fondamentali della persona e del diritto di asilo, nell’ambito di procedimenti giurisdizionali , così come imposto dall’art. 13 della Costituzione, ed entro gli stessi termini dettati da quella norma (al massimo 96 ore), a condizione di adottare procedure e strutture idonee al risultato di effettuare un limitato numero di espulsioni. Le attività di polizia finalizzate all’allontanamento forzato degli immigrati potrebbero risultare più efficaci se le espulsioni (ed i respingimenti) fossero comminate per ragioni oggettivamente accertate dal giudice (ad esempio per l’accertamento di una grave responsabilità penale o di una elevata pericolosità sociale) e non per il semplice ingresso clandestino, o in base valutazioni meramente discrezionali dell’autorità di polizia (una discrezionalità spesso priva di motivazione come nel caso del riconoscimento della “presunta” pericolosità sociale). Non si è peraltro riscontrata alcuna valenza dei CIE nel contrasto della criminalità nei territori nei quali sono istituiti, sia per l’elevata percentuale dei migranti rimessi in libertà alla scadenza dei termini.

3. I centri di detenzione amministrativa come strumenti di controllo dell’immigrazione
Se è vero che oltre il 75% degli immigrati oggi regolari in Italia è entrata (e continuerà ad entrare) irregolarmente e se poi, periodicamente, intervengono regolarizzazioni o sanatorie camuffate (come i cd. decreti flussi), le misure di contrasto dell’immigrazione clandestina basate sui centri di detenzione amministrativa non hanno affatto arginato il fenomeno ma sono servite soltanto a creare le condizioni di esclusione e di emarginazione. Anche i mass-media, soprattutto a livello locale, piuttosto che considerare gli immigrati irregolari come vittime di sfruttamento, hanno contribuito ad accrescere stigmatizzazione nei loro confronti, considerando tutti i “clandestini” prima come criminali, adesso come possibili terroristi. Le leggi e le prassi amministrative si sono orientate nella stessa direzione, mentre i controlli di legalità esercitati dalla magistratura sono stati attenuati, svuotati di effetti pratici, avvertiti con insofferenza quando giungevano a censurare l’operato dell’autorità amministrativa (3).
Il controllo giurisdizionale ha assunto un forte connotato politico e l’operato dei giudici di pace, costretti a svolgere il loro lavoro all’interno dei CIE, è rimasto sotto la costante pressione del ministero della giustizia, che in diverse occasioni ha esternato una violenta critica nei confronti di quei giudici che non convalidavano le espulsioni prefettizie o i provvedimenti di trattenimento disposti dal Questore.
Diversi magistrati, a partire dal 2001, sono stati sottoposti ad ispezioni o a procedimenti disciplinari perché avevano osato applicare le leggi in materia di immigrazione in senso conforme alla Costituzione ed ai Trattati internazionali, “disobbedendo” alle linee di politica giudiziaria dettate dal governo, ed in particolare dal Ministro degli interni di concerto con il Ministro della giustizia. Tutti i processi più importanti scaturiti dalla denuncia di abusi subiti all’interno dei CIE sono stati “seguiti” da rappresentanti del Ministero dell’interno che, piuttosto di contribuire alle indagini sugli abusi, ha tentato in tutti i modi di delegittimare le vittime e i giornalisti le associazioni che si erano schierate al loro fianco.

4. La detenzione amministrativa al vaglio della Corte costituzionale
Già la Corte Costituzionale nel 2001 con la sentenza n.105 aveva segnalato la necessità di interpretare la normativa in materia di trattenimento dei migranti irregolari allora vigente in senso conforme alla Costituzione. Per effetto di questa pronuncia i magistrati di Milano che avevano sollevato la questione di costituzionalità delle disposizioni relative all’espulsione con accompagnamento forzato in frontiera ottennero una assoluzione nel procedimento disciplinare che era stato imbastito contro di loro per iniziativa del Ministro della Giustizia.
Secondo la sentenza n. 105 del 2001 “il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea ed assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’art. 13 della Costituzione “ (4).

Successive decisioni degli organi giurisdizionali, che confermavano tale orientamento ed annullavano centinaia di provvedimenti di espulsione o di trattenimento adottati senza rispettare le prescrizioni di legge, suscitavano una violenta reazione da parte delle forze di governo che imputavano ad una parte della magistratura una applicazione eccessivamente “garantista” delle norme in vigore. Gravissimi esempi, questi, di come il potere esecutivo ( già in quel periodo) invadeva l’ambito della giurisdizione, sferrando un pesante attacco allo stato di diritto e ad una delle norme più importanti della Costituzione repubblicana. Questi attacchi si sono intensificati dopo l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini nel 2002, ed oggi dopo l’approvazione dell’ultimo “Pacchetto sicurezza” con la legge 94 del 2009, si è giunti al linciaggio politico e morale di quei magistrati che applicando le leggi in senso conforme ai Trattati internazionali ed alla Costituzione italiana rimettono in libertà immigrati rinchiusi nei centri di detenzione amministrativa.

I successivi provvedimenti del governo Berlusconi, come la legge n.271 del 2004, nel tentativo di “sterilizzare” le censure della Corte Costituzionale, hanno svuotato di fatto i diritti di difesa dei migranti irregolari con una previsione secondo la quale il controllo giurisdizionale (la convalida) del trattenimento si svolge all’interno degli stessi centri, presso i quali devono necessariamente recarsi giudici (adesso i giudici di pace) e gli avvocati (più spesso di ufficio).

Dopo le sentenze n. 222 e 223 del 2004 della Corte Costituzionale, il successivo intervento del legislatore han prodotto “una drastica riduzione degli spazi di intervento della difesa e di interpretazione dei giudici”. Viene ancora trascurato il fondamentale rilievo della Corte secondo la quale “ per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia dell’immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi ai flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale” (così, sulla scorta della precedente sentenza n. 105 del 2001, la sentenza n. 222 del 2004).

Con la legge 271 del 2004 si è cercato al contrario di limitare il ruolo di controllo dell’autorità giurisdizionale, trasferendo la competenza per la convalida dei provvedimenti di trattenimento ai giudici di pace, stabilendo che le convalide vengano effettuate all’interno dei CIE, alla presenza (spesso silente) del difensore d’ufficio, e stabilendo la competenza del giudice di pace del luogo del CIE anche in materia di espulsione e respingimento, anche se questi provvedimenti sono adottati da autorità amministrative lontane migliaia di chilometri (5).

Mentre nei primi mesi di applicazione della nuova normativa si era rilevata una sorprendente capacità di tenuta “costituzionale” di una parte dei giudici di pace rispetto alle pressioni subite dalle autorità di polizia per effettuare le convalide in modo meramente “cartaceo”, oggi molti giudici di pace “ribelli” sono stati rimossi e i nuovi giudici nominati al loro posto si limitano ad esaminare solo formalmente i provvedimenti di polizia sottoposti al loro controllo.
Alcuni giudici di pace hanno comunque sollevato la questione di incostituzionalità della normativa che assegna loro la convalida di provvedimenti restrittivi della libertà personale, provvedimenti che avrebbero dovuto restare di competenza dei magistrati togati, maggiormente garantiti dalla normativa dell’ordinamento giudiziario (e dalla Costituzione) in materia di indipendenza, ma la Corte Costituzionale non si è pronunciata nel merito di queste eccezioni..

Risulta sempre più grave la violazione del diritto di difesa degli immigrati trattenuti nei centri di detenzione amministrativa, una frattura irreversibile con il sistema delle garanzie dettato dall’art. 24 della Costituzione, la base per un diritto speciale applicabile solo agli stranieri irregolari ( in realtà a tutti gli stranieri, a causa dell’estrema facilità con la quale oggi si può perdere il permesso di soggiorno).
Spesso all’immigrato trattenuto nel centro non si comunica neppure la possibilità di nominare un difensore di fiducia o di accedere alla procedura di asilo. In molti casi le delegazioni parlamentari hanno rilevato la mancata tempestiva consegna (notifica) dei provvedimenti amministrativi di trattenimento e delle relative convalide.

Non si contano più i casi di percosse e violenze di ogni genere perpetrate dalle forze di polizia ai danni degli immigrati trattenuti nei centri, non appena si sgretola il muro di omertà costruito dalle forze dell’ordine e dalle associazioni che cogestiscono queste strutture, ma spesso i responsabili rimangono impuniti, o vengono assolti in appello, o ancora condannati a pene insignificanti, basti pensare al caso del Regina Pacis di Lecce, alcuni anni fa.

5. La privatizzazione delle frontiere interne
A fronte delle statistiche sulla modesta percentuale di immigrati effettivamente allontanati tramite i centri di permanenza temporanea , queste strutture enormemente dispendiose, che sono costate alla collettività centinaia di milioni di euro, come rilevato a partire dal 2003 anche dalla Corte dei Conti nelle sue relazioni annuali, dimostrano il fallimento delle politiche espulsive basate sul trattenimento forzato(6) .Ma adesso la politica dell’emergenza e l’affidamento degli appalti con procedure da protezione civile ha attenuato i controlli sulla legittimità delle procedure di attivazione e di esercizio dei CIE . Soprattutto dopo il prolungamento della detenzione amministrativa a sei mesi, l’intera capienza dei centri di detenzione italiani non consentirebbe di espellere che una minima parte degli immigrati irregolari presenti sul nostro territorio, stimato oggi in diverse centinaia di migliaia, né appare praticabile la proposta di una loro ulteriore proliferazione che avrebbe costi economici e sociali incalcolabili.
L’emergenza immigrazione non comporta soltanto la violazione dei diritti fondamentali della persona migrante ma si traduce anche in procedure amministrative ai limiti della legalità e dai costi sempre più elevati. La periodica reiterazione dei decreti che stabiliscono la situazione di emergenza in materia di immigrazione consente ai prefetti di allacciare rapporti convenzionali a trattativa “riservata” con ditte di fiducia dell’amministrazione.. Associazioni private di diverso tipo cogestiscono i centri di permanenza temporanea con costi notevolmente diversi a seconda del territorio (dai 35 ai 90 euro al giorno per immigrato), con criteri così poco trasparenti che la Corte dei Conti nelle sue ultime relazioni annuali aveva sollevato numerosi dubbi sui criteri di spesa .

6. Degrado della dignità umana ed abusi nei CIE.
Non si possono ignorare neppure le condizioni igienico sanitarie in cui sono quelli che vengono definiti come centri di identificazione ed espulsione nei quali si può restare rinchiusi anche per sei mesi,,strutture che per legge necessiterebbero di un apposito decreto istitutivo sulla base di requisiti assai rigorosi.
Le ultime visite effettuate da delegazioni di parlamentari o da agenzie umanitarie, al di là dei piccoli sotterfugi posti in essere dalle autorità che gestivano i centri per mostrare una realtà diversa da quella quotidiana, hanno documentato la quasi totale assenza di interpreti e di servizi di mediazione, oltre che la difficoltà di ricevere informazioni sul diritto di asilo o di presentare la relativa istanza; e malgrado eclatanti denunce giornalistiche sono ancora riscontrabili condizioni igieniche scandalose, e regimi detentivi ai limiti del trattamento disumano e degradante (sanzionato dalla Convenzione Europea a garanzia dei diritti dell’uomo).

Dopo anni di denunce da parte delle associazioni indipendenti il rapporto sui centri di permanenza temporanea presentato nel 2009 dalla associazione Medici senza frontiere (disponibile nel sito internet della stessa organizzazione) ha documentato inconfutabilmente la fondatezza delle accuse rivolte al sistema dei centri di detenzione amministrativa. Le stesse accuse sono state documentate e confermate da visite del Comitato per la prevenzione della tortura, dal Comitato diritti umani delle Nazioni Unite e dalla Federazione internazionale dei diritti dell’uomo ( FIDH), oltre che dal Rapporto annuale di Amnesty International(7). Sono ancora in corso alcuni processi penali contro responsabili ed operatori di queste strutture, rinviati a giudizio per gravi abusi commessi ai danni degli immigrati trattenuti nei CIE. . In troppi casi le donne trattenute nei centri di permanenza temporanea vengono “trattate” da personale maschile, con gravi rischi di violenza e pressioni di ogni genere(8). La vicenda di Joy e delle altre immigrate detenute trattenute nel centro di identificazione ed espulsione di Milano, in via Corelli, ed esposte alla minaccia continua del ricatto sessuale non è affatto un episodio isolato e rischia di rimanere ancora una volta senza alcuna sanzione alimentando negli operatori dei centri un pericoloso senso di impunità.

7. Detenzione amministrativa e carcere: un percorso circolare senza vie di uscita.
Al di là dei centri di detenzione amministrativa, l’aumento delle sanzioni penali previste a carico dei migranti irregolari, soprattutto dopo i pacchetti sicurezza e la introduzione del rato di immigrazione clandestina, con pene che vanno ormai ben oltre i criteri della proporzionalità e della adeguatezza, impongono di considerare il circuito CIE-carcere come un ciclo unico di sanzione della mera presenza irregolare sul territorio, dopo il mancato rispetto del primo ordine di espulsione. La detenzione amministrativa si rivela dunque come una sanzione vera e propria e non uno strumento finalizzato a garantire l’effettività dell’espulsione. In questa direzione i centri di permanenza temporanea si sono rivelati fallimentari e per questa ragione i nuovi accordi di riammissione prevedono forme estremamente rapide di allontanamento forzato degli immigrati trovati sul territorio italiano in condizioni di irregolarità, senza trattenimento e senza un effettivo controllo giurisdizionale. I governanti europei si sono ormai accorti della impossibilità di contrastare l’immigrazione dei cd.”clandestini” attraverso lo strumento dei centri di detenzione, ricorrendo a procedure sommarie e collettive di allontanamento forzato in frontiera sulla base degli accordi di riammissione. Si evita così il “transito” in strutture detentive che comunque impongono un sia pur minimo controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’operato delle forze di polizia.
Corrispondono a queste scelte di politica della sicurezza le nuove prassi amministrative adottate dalle autorità italiane che procedono a rastrellamenti sul territorio alla ricerca di gruppi predeterminati di immigrati irregolari da accompagnare in frontiera, con l’espulsione immediata dei cd. clandestini avvalendosi di “voli charter congiunti” organizzati in poche ore per accelerare e rendere ancora più “efficaci” e meno costose le procedure di rimpatrio forzato. A Milano il Sindaco Moratti è giunto a chiedere al governo l’adozione di un decreto legge per estendere anche al reato di immigrazione clandestina, ricordiamo una mera contravvenzione, la possibilità di perquisizioni senza mandato dell’autorità giudiziaria. Una richiesta che strappa ancora una volta l’art.13 della nostra Costituzione.

In altri casi si creano strutture detentive all’interno delle zone portuali e degli aeroporti per trattenere indiscriminatamente quanti arrivano irregolarmente e sono dunque destinatari di un “respingimento in frontiera”. In questo caso il trattenimento amministrativo si svolge al di fuori di qualsiasi garanzia procedurale, in luoghi inaccessibili (anche per i familiari, per gli interpreti e per gli assistenti legali), dove possono essere impunemente violati anche i diritti fondamentali della persona umana. Ma su tutto questo bisognerebbe tacere, forse neppure esercitare il diritto di critica,. Denunciare quanto avviene nei centri di detenzione amministrativa viene considerato una “diffamazione”, se non un aperto incitamento alla sovversione, secondo un preciso “avvertimento” lanciato da una parte della magistratura in sintonia con i vertici di governo, in risposta alle denunce degli abusi commessi nel centro di detenzione italiani.

8. Proposte per il superamento della detenzione amministrativa Malgrado il prevalere delle politiche seuritarie, a fronte del loro evidente fallimento, a parte il vantaggio politico degli “imprenditori della paura”, non si può rinunciare a tracciare una prospettiva di una nuova politica migratoria che comprenda il superamento dei CIE.

La criminalità, il traffico di esseri umani e il terrorismo si sconfiggono con azioni mirate, con la identificazione certa dei sospetti, con l’inclusione ed il coinvolgimento delle comunità degli immigrati . L’internamento in strutture come i centri di identificazione ed espulsione, oggi fino ad un periodo massimo di sei mesi, non sono più funzionali all’attribuzione di identità ed all’esecuzione più rapida dell’espulsione, ma servono solo alimentare esclusione sociale, clandestinità e frustrazione.

L’unica garanzia di sicurezza, per una società democratica, sarebbe costituita dall’adozione di procedure che comportino comunque una identificazione certa dei cd. “clandestini”, agevolando la legalizzazione permanente (e dunque la emersione dalla clandestinità anche in seguito ad autodenuncia) di quanti si trovano già nel nostro territorio e possono vantare una situazione di integrazione sociale ( ad esempio una residenza stabile ed un rapporto di lavoro).

La chiusura dei centri di detenzione amministrativa, con una diversa e più selettiva politica delle espulsioni, non impedirebbe il rispetto degli accordi di Schengen, a condizione di svuotare le sacche di clandestinità con la “regolarizzazione permanente” e con la concreta possibilità di un rientro nella legalità per coloro che sono soltanto responsabili di violazioni amministrative. L’effettività delle espulsioni può essere comunque garantita ricorrendo alla misura del domicilio obbligato per la generalità degli immigrati irregolari, prevedendo nel tempo ipotesi di rientro nella condizione di regolarità e riservando ai casi più gravi, nei limiti del dettato costituzionale, la limitazione della libertà personale.
Bisogna restituire una valenza effettiva alla previsione costituzionale che stabilisce la riserva di legge nella disciplina della condizione giuridica degli immigrati. Per questo non basta modificare le leggi in materia di immigrazione e asilo che oggi concedono margini incontrollabili alla discrezionalità dell’autorità amministrativa sottraendola ad un effettivo controllo giurisdizionale.
Occorre abrogare per intero la legge Bossi-Fini del 2002, senza inutili finzioni nominalistiche, modificando sostanzialmente il Testo Unico sull’immigrazione del 1998 nella parte relativa al controllo degli ingressi, ai casi di respingimento ed espulsione, ai centri di permanenza temporanea.
Una politica migratoria puramente repressiva basata sulle misure di detenzione amministrativa e di allontanamento forzato non può che produrre una reazione violenta che stronca qualsiasi intervento di mediazione ed alimenta il conflitto sociale.
Una disciplina efficace delle espulsioni potrà realizzarsi anche senza la detenzione amministrativa nei CIE, ovvero nei cd. centri di accoglienza (come li continua a chiamare la stampa), siano centri di identificazione (CID) o centri “polifunzionali”. Come è confermato anche dalla Direttiva 2003/9/CE e dal Regolamento Dublino 343 del 2003, le norme internazionali o comunitarie non impongono la privazione generalizzata della libertà personale degli immigrati irregolari e dei richiedenti asilo, ma solo che i provvedimenti di respingimento e di espulsione siano effettivamente eseguiti, conformemente alla legge nazionale . Questo obiettivo è perseguibile più efficacemente con i rimpatri volontari, con misure di allontanamento forzato che non precludano un successivo ingresso regolare e soprattutto con una riduzione dell’area della irregolarità attraverso le procedure della regolarizzazione permanente. Le espulsioni ed i respingimenti devono esser comunque sottoposti ad un diffuso controllo giurisdizionale, senza colpire le vittime del traffico ma contrastando le grandi agenzie criminali nei luoghi dove queste prosperano indisturbate (a Malta ad esempio) con la copertura di quei governi che poi stipulano accordi di riammissione con l’Italia.

Vanno riconosciuti a tutti gli immigrati, regolari ed irregolari, come già prescrive l’art. 2 del T.U. n. 286 del 1998, i diritti fondamentali della persona umana sanciti da tutte le Costituzioni moderne. La detenzione amministrativa deve essere ridotta ai casi e tempi conformi all’attuale dettato costituzionale. Se si vuole davvero garantire la sicurezza e l’ordine pubblico occorre praticare politiche migratorie autenticamente inclusive, combattere l’emarginazione sociale e la discriminazione a base razziale, riconoscere i diritti di cittadinanza sulla base della residenza e non della nazionalità.

Note:
(1) Sulla difficoltà di un effettivo esercizio del diritto di difesa all’interno dei CPT, cfr. Sossi (2002).
(2) Per i dati relativamente alla presenza di immigrati irregolari in Italia con importanti informazioni sulle percentuali di immigrati trattenuti nei CPT effettivamente rimpatriati, si veda il Dossier statistico della Caritas per il 2005 in www. Dossier immigrazione.it e in cartaceo pubblicato dal Centro studi e ricerche IDOS, 2005. Si può calcolare dai dati del Dossier della Caritas che dei circa 15.000 immigrati trattenuti in un anno (precisamente 15.647 nel 2004) nei centri di detenzione italiana soltanto la metà ( appena 7.895) venga effettivamente accompagnata in frontiera. Tutti gli altri vengono rimessi in libertà per la scadenza del termine di trattamento o, in un numero più modesto di casi, per l’ammissione alla procedura di asilo o per l’annullamento dell’espulsione da parte dell’autorità giudiziaria.
(3) Sul rapporto tra legge e prassi amministrativa nella disciplina in materia di immigrazione ed asilo, con particolare riferimento alla detenzione amministrativa, vedi Bonetti (2004:572ss). Per una riflessione sulla riserva di giurisdizione con riguardo alla condizione giuridica dei migranti ed ai nuovi profili della cittadinanza, si rinvia a Ferrajoli (2004:179ss).
(4) Sulla sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale si rinvia a Bascherini (2001,1687).
(5) Sulla nuova legge 271 del 2004 si rinvia a Caputo, Pepino (2004, 13).
(6) La relazione della Corte dei Conti è reperibile nel sito www.cestim.it e nell’archivio di Sergio Briguglio
(7) I rapporti citati nel testo sono reperibili nel sito www.meltingpot.org
(8) Sulle condizioni di trattenimento all’interno dei centri di detenzione italiani si vedano i rapporti di Medici senza frontiere nel sito www.msf.org Si vedano anche le testimonianze del Dossier sul centro di permanenza temporanea serraino Vulpitta di Trapani, nel sito www.cestim.it, alla sezione “centri di permanenza temporanea”

da GlobalProject

Straniera nel suo paese

Igiaba Scego è una scrittrice italiana d’origine somala. Questa è la prima puntata della sua serie Nuovi cittadini.

Queenia Pereira De Oliveira non ha la cittadinanza ma vive in Italia da quando è nata. Qui ha fatto le scuole, ha conosciuto i suoi amici e si è formata come persona. Suo padre è nigeriano, la madre è brasiliana. Non ha la cittadinanza perché la legge non accoglie i figli degli immigrati che, come lei, sono arrivati in Italia da piccoli.

Queenia vorrebbe pensare al futuro ma la legge glielo impedisce. Quando ha compiuto 18 anni ha capito di essere una straniera in Italia. Su Facebook scrive: “Vivere nel mio paese legata a un permesso di soggiorno è come uscire di casa con un paio di chiavi, sapendo che qualcuno è pronto a cambiare la serratura (di casa mia) e lasciarmi fuori”.

Ai ragazzi come Queenia lo stato italiano nega la possibilità d’iscriversi a un albo professionale, di fare un viaggio di lavoro all’estero, di andare a studiare in un altro paese. Sono imprigionati nel loro paese dal permesso di soggiorno.

La cittadinanza in Italia si trasmette secondo il principio dello ius sanguinis, da genitore a figlio. Si è italiani se si ha un genitore (o un antenato) italiano e si riesce a dimostrare il rapporto di parentela. Chi è nato all’estero e non sa niente dell’Italia può avere la cittadinanza perché il suo trisavolo era friulano o calabrese. Invece ragazzi di origine cinese, somala, albanese che sono cresciuti qui, sulla carta sono considerati degli stranieri.

Una proposta bipartisan
La legge è anomala. Se ne sono accorti i parlamentari Andrea Sarubbi (Partito democratico) e Fabio Granata (Popolo della libertà), che stanno portando avanti un’iniziativa bipartisan sulle seconde generazioni.

Nel 2009 hanno presentato un testo che propone il passaggio dal principio dello ius sanguinis a quello dello ius soli, garantendo la cittadinanza ai figli di immigrati regolari che risiedono in Italia da cinque anni. “Stiamo cercando di portare i nuovi italiani al centro del dibattito politico”, spiega Sarubbi. “Nelle amministrazioni locali sono stati approvati degli ordini del giorno che propongono di dare la cittadinanza ai minori”.

Gli impedimenti non sono ideologici: purtroppo è solo una questione di convenienza politica. Intanto Queenia studia per laurearsi. Ma finita l’università, che scriverà sul permesso di soggiorno? Igiaba Scego

da Internazionale