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sabato 17 ottobre 2009

NARDO’ – I LAVORATORI DELLA S.E.S. INTERROMPONO IL SIT-IN: COMINCIANO LE TRATTATIVE


I lavoratori della S.E.S. sospendono l’agitazione e il sit-in dopo l’incontro avvenuto ieri in Provincia.
Lungi dall’aver siglato accordi vi è l’impegno dell’azienda a rivedere le proprie posizioni.
Al confronto con il sindacato FILLEA Cgil, rappresentato dal segretario generale Cgil Salvatore Arnesano e della FILLEA Alessio Colella, presenti il referente della Provincia per il caso S.E.S Carlo Frisullo, il sindaco di Nardò Antonio Vaglio, in qualità di rappresentante dell’azienda il consulente Salvatore Musca e gli amministratori delegati delle tre aziende che compongono il gruppo S.E.S., Sevar Srl, Grandi Srl e Italgecri Srl.
Da quanto riferitoci dal signor Colella siamo ancora in una fase interlocutoria e i risvolti più importanti si avranno la settimana prossima: ci sarebbe da parte dell’azienda la disponibilità di reintegro immediato per 8 dei 14 licenziati ma il sindacato preme per una concessione degli ammortizzatori sociali almeno a rotazione. La situazione dei previsti 10 ulteriori licenziamenti rimane invece congelata. Non ci saranno altri licenziamenti.
Almeno questa concessione sembrerebbe ferma anche se viene paventata la possibilità da parte dell’azienda di imporre agli operai la rinuncia a disporre di un articolo dello statuto dei lavoratori. Ma queste sono solo indiscrezioni; il sindaco Antonio Vaglio ha cercato di mediare fra le parti in causa ma sappiamo bene che oltre a questa grave situazione deve cercare di far fronte ad una questione ben più annosa per le sorti sue e della sua giunta, cioè l’approvazione del bilancio.
Certamente la prossima settimana sarà un banco di prova importante. Le agitazioni dei lavoratori continuano a montare in città su più fronti e le finanze della comunità sono ridotte ad un colabrodo.
Come uscirne da queste crisi?

Soldi ai Taliban? Spazzatura! (di Gabriele Torsello)


Da Gabriele Torsello una chiarificazione sulla situazione in Afghanistan e sulla necessità della riconciliazione tra le diverse etnie. Essere Pashtun non significa automaticamente essere Talibano.

Il Times inglese insiste nell’accusare l’Italia per aver pagato i Taliban in cambio di una tregua, dando spazio alle ‘modalità’ ma non alle ragioni di tali dichiarazioni. Il presunto pagamento ai Pasthun, gli afghani residenti nelle zone in cui operano gli italiani e che il Times chiama in maniera generica e impropriamente Taliban, rientra nel programma di assestamento dell’Afghanistan attraverso una missione per la Pace e non per la Guerra.
Le Forze Occidentali impegnate alla ricostruzione del Paese, sono state più volte coinvolte in operazioni di approccio con i locali. Questo comporta, materialmente, un incontro con tutti gli afghani e in particolare modo con coloro che vivono nelle zone più remote e ostili. Il team militare ha il compito di relazionarsi con i leaders delle comunità e prendere nota di tutte le richieste avanzate che saranno poi inoltrate al commando a cui i militari fanno capo, e questi ultimi decideranno quali richieste dei ‘capi villaggio’ approvare o meno. L’erogazione avverrà attraverso la diretta costruzione di ciò che è stato richiesto (un pozza d’acqua, una strada, un ponte, un impianto elettrico ecc. ecc.), o attraverso l’assegnazione del capitale necessario alla realizzazione del progetto richiesto. Quest’ultima forma, ovvero il pagamento diretto è preferito dagli afghani perchè considerato un capitale di investimento diretto agli afghani stessi, e non un capitale diretto ad aziende estere come spesso accaduto e più volte contestato.

La natura delle ‘richieste’ non è uniforme in tutto il territorio afghano, come non è uniforme la condizione sociale da Kabul a Kandahar, c’è chi ha bisogno di una scuola ma ce anche chi ha bisogno di sicurezza, stabilità e fiducia prima di ogni cosa, altrimenti l’eventuale scuola o ospedale o strada che si intende realizzare, verrà distrutta già in fase di costruzione. Il programma di ricostruzione del paese, la missione per la pace in Afghanistan richiede tempo ed interventi graduali.

Ciò che è abbastanza uniforme, invece, là dove intercorrono gli approcci di dialogo, di collaborazione, di scambio e di scontro tra i militari occidentali (e non solo italiani) e gli afghani, è l’etnia della popolazione.

Sono Pashtun, la stessa etnia di coloro che spesso sono attori degli scontri armati, quali i Taliban. È il fattore etnico che necessita approfondimento e analisi.

Innanzitutto essere Pashtun non significa essere automaticamente un Talibano, e i Pashtun sono ancora oggi visti come nemici da altre etnie minori, in particolare dai Tajiki. Dal 2001, con l’intervento occidentale, si è lanciato una politica di riconciliazione tra tutte le etnie afghane, ma purtroppo non è una riconciliazione voluta da tutti. Si parla infatti di dividere geograficamente l’Afghanistan in diversi stati in base al gruppo etnico di appartenenza. L’ipotesi che va per la maggiore è di spaccare il paese in due, da una parte i Pashtun con Pashtunistan e dall’altra tutte le rimanenti etnie, in una terra che di Afghanistan conserverà soltanto il nome. La scissione non farà altro che ricreare una situazione simile a ciò che accadeva durante il regime Taliban tra il 1995 e il 2001, quando gli uomini del Mullah Omar e quelli del Leone del Panshir Massod dialogavano a colpi di kalashnikov, con la differenza che la guerra non sarà solo etnica ma internazionale. Chi è a favore della scissione dell’Afghanistan, quindi, è contrario ad ogni forma di dialogo tra culture e tra etnie afghane, e nel caso specifico è contrario a tutte quelle scelte militari che adottano strategie diverse dall’uso immediato delle armi.

Le fonti ‘ufficiali’ che hanno rivelato al giornalista del Times le accuse contro l’Italia, sono gli stessi che nel dicembre del 2007 hanno fatto espellere dall’Afghanistan diplomatici delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea perchè accusati di essere a favore del dialogo con i Taliban dell’Helmand, e non all’azione di forza immediata e violenta.

In realtà il Times, probabilmente in buona fede, altro non fa che alimentare e ‘sponsorizzare’ la divisione dell’Afghanistan e sostenere i presupposti per una vera guerra.

da IlPaeseNuovo

Cuba, Fidel Castro: ''Il Nobel per la pace andava dato a Evo Morales''


Nelle sue consuete riflessioni il leader maximo sostiene che il premio sarebbe dovuto andare al presidente boliviano pur ammettendo l'intelligenza politica di Obama

Il leader cubano Fidel Castro ha affermato che sebbene il presidente degli Stati Unit Barack Obama sia stato uno dei pochi politici statunitensi che ha lavorato a favore degli indigeni nel proprio Paese e nel resto del mondo è stato prematuro avergli concesso il Nobel per la Pace. Nelle sue riflessioni inviate ai media nazionali il leader maximo ha sostenuto che il presidente bolivariano Evo Morales sarebbe stato un candidato degno di vincere il prestigioso riconoscimento per lo sforzo fatto per arrivare a ricoprire la più alta carica dello Stato sudamericano e ottenere una quantità enorme di agevolazioni per il suo popolo. La ragione per cui il collega bolivariano non ha ottenuto il premio, ha argomentato il comandante, risiede nel "grande svantaggio" di non essere "un presidente degli Stati Uniti".
Pur apprezzando le doti politiche di Obama, definito "un uomo intelligente", l'ex presidente cubano non ha potuto fare a meno di ribadire che il democratico "questo premio non lo ha ancora vinto". Castro ha trovato anche lo spazio per ripercorrere la vita di Morales, dall'infanzia povera alle lotte civili in età adulta, per sottolineare il duro lavoro fatto per poter aiutare dati al suo popolo.

da PeaceReporter

S. Borsellino: tardivi ricordi di Martelli e Ferraro sulla trattativa Stato-mafia

"La dichiarazione della Ferraro è molto tardiva e mi chiedo perché tanta gente, a cominciare dall'ex ministro Claudio Martelli, ci abbia messo tanti anni a ricordare delle cose avvenute 17 anni fa che era importante conoscere prima. Perché tanti anni?". E' l'interrogativo di Salvatore Borsellino, il fratello del magistrato assassinato il 19 luglio del 1992 in via D'Amelio a Palermo, dopo le rivelazioni ai magistrati di Caltanissetta e Palermo fatte da Liliana Ferraro, collaboratrice di Falcone al ministero della Giustizia, e dall'ex guardasigilli Martelli.

Borsellino contrario alla trattativa - "Lasciando la polemica - dice Salvatore Borsellino - è importante la dichiarazione della Ferraro che ci fa capire come Paolo fosse al corrente della trattativa e conoscendo quella che era la sua integrità di giudice e il suo legame con Giovanni Falcone, quale possa essere stata la sua reazione. E' quello che io sostengo da anni - incalza il fratello del magistrato - e cioè che a fronte della notizia della proposta di questa trattativa, mio fratello Paolo reagì in maniera violenta minacciando anche di rendere noto al Paese l'esistenza di questa trattativa: per questo è stato necessario eliminarlo. Mio fratello Paolo è stato eliminato perché si è opposto a questa scellerata trattativa fra mafia e stato".

De Donno smentisce - Nel corso dell'interrogatorio dell'altro ieri a Roma, la Ferraro avrebbe indicato in domenica 28 giugno 1992 il giorno in cui, all'aeroporto di Roma, informò Paolo Borsellino di una ipotetica “trattativa” di cui sarebbe venuta a conoscenza dall'allora capitano dei carabinieri del Ros, Giuseppe De Donno. De Donno ha però smentito di aver parlato di trattativa con la Ferraro.

L’incertezza sulle date - Della presunta trattativa sarebbero stati protagonisti gli ufficiali del Ros dei carabinieri, l'allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, che prima e dopo il 28 giugno, incontrarono più volte Paolo Borsellino. "Non posso sapere cosa succedesse in quegli incontri. Certo che se nell'incontro segreto nella caserma Carini, a Palermo il 25 giugno, di cui i due ufficiali hanno parlato 4 anni dopo, Paolo era già al corrente della trattativa, sono certo che il colloquio non fu su mafia e appalti, ma posso immaginare di cosa abbiano parlato...". "Adesso - conclude Salvatore Borsellino - dai magistrati mi aspetto chiarezza".

da AntimafiaDuemila

L’ultimatum dei Calabresi che s’arrabbiano


Sabato 24 ottobre ad Amantea manifestazione per l'acqua, l'aria e la terra

Migliaia di persone chiederanno verità, giustizia e bonifica dei siti contaminati

È una mobilitazione che cresce, minuto dopo minuto, centimetro per centimetro.
Scende in piazza sabato 24 ottobre ad Amantea, in provincia di Cosenza, la Calabria che non vuole lasciarsi schiacciare dalle tonnellate di scorie tossiche e radioattive scaricate in mare e sottoterra, tra gli anni ottanta e novanta, da oscuri criminali che avrebbero lavorato al soldo di imprese e Paesi interessati allo smaltimento di rifiuti nucleari.
Appuntamento alle ore 9, nel piazzale Eroi del Mare, sul lungomare Natale De Grazia. Sarà una prima resa dei conti col governo, con la regione e tutti gli enti preposti. Perché da mesi è tornata ad esplodere la vicenda delle cosiddette “navi a perdere”, ma non è stata ancora fornita alcuna risposta alle domande poste da milioni di persone.
Eppure, quaggiù il numero dei malati di tumore è sei volte più alto del resto d’Italia, la vendita di pesce è calata dell’80 per cento e le previsioni sui flussi turistici per il 2010 sono catastrofiche.
I documenti prodotti dai locali comitati spontanei che stanno sorgendo ovunque, spiegano gli obiettivi della manifestazione del 24. Si chiederà “che venga recuperato ed analizzato al più presto” il relitto contenente “i fusti sommersi a 480 metri di profondità al largo di Cetraro”, individuato qualche settimana fa da un robot sottomarino sulla base delle dichiarazioni di un pentito di mafia che sostiene si tratti della “Motonave Cunski, affondata dalla ‘ndrangheta per conto di bande assassine e di chissà quali servizi segreti nazionali ed internazionali”. I fusti conterrebbero scorie tossiche e radioattive come quelle che secondo alcune ipotesi investigative sarebbero state trasportate dalla motonave Jolly Rosso, spiaggiata nei pressi di Amantea nel dicembre 1990. Questi veleni sarebbero stati interrati nella valle del vicino fiume Oliva”. Siccome si conoscono i luoghi dove risultano sepolti i rifiuti, tali siti devono essere “immediatamente bonificati”!
Innumerevoli assemblee e pubblici dibattiti si sono svolti nelle ultime settimane. Tra le iniziative più partecipate, spiccano quelle di San Pietro in Amantea, Aiello Calabro, Amantea, Diamante, Cetraro, Reggio Calabria, Verbicaro, Rende, Cosenza, Acri ed Orsomarso. Comitati come il “Natale De Grazia”, attivo da tanti anni, ribadiscono che tra gli obiettivi del movimento c’è la riapertura dell’inchiesta sulla Jolly Rosso: “che siano perseguiti i responsabili del tentato affondamento” e del seppellimento dei rifiuti, “delle ditte che vi hanno lavorato e di coloro che hanno depistato più volte l’inchiesta”.
Insieme a Legambiente, ai sindacati ed alle associazioni, il “De Grazia” lotta inoltre affinché “venga dichiarato dal governo lo stato d’emergenza in tutto il territorio costiero che va da Maratea ad Amantea e nei siti contaminati come Crotone e la Sibaritide; che vengano indennizzati tutti i pescatori della costa e i contadini della valle dell’Olivo e tutte quelle categorie che vivono di turismo; che venga effettuata un’analisi epidemiologica in tutta la costa tirrenica e in tutta la regione”; che si istituisca e sia reso pubblico il registro dei tumori”; che venga aperta un’inchiesta per fare chiarezza sulla morte sospetta del capitano Natale De Grazia; che riprendano i processi riguardanti i disastri ambientali giacenti nelle varie procure calabresi”; che vengano dati “mezzi e risorse” per il recupero della nave Yvonne davanti Maratea.
È prevedibile che il corteo del 24 raccolga i movimenti di difesa del territorio, attivi negli ultimi anni dalla Lucania alla Sicilia. Soprattutto, convergeranno su Amantea quanti si sono battuti contro i progetti di devastazione ambientale portati avanti dal governo centrale, dalla classe politica che amministra il malgoverno locale e dalle multinazionali. Saranno i coordinamenti per la difesa dei beni comuni ad animare le mobilitazioni che è presumibile si svilupperanno con intensità crescente fino all’estate prossima.
La provincia di Cosenza è attraversata da reti che lottano contro la centrale del Mercure, l’elettrodotto Laino-Rizziconi, l’inceneritore di San Lorenzo del Vallo, il termovalorizzatore di Rende e Montalto, la discarica di Scala Coeli. Inoltre, la recente ipotesi di omicidio colposo, formulata dalla procura di Paola a carico di dieci indagati per i quaranta operai della Marlane di Praia morti di cancro, rende l’atmosfera ancora più incandescente.
Resta da capire se questo moto di indignazione popolare può sfociare in un movimento forte ed incisivo, qualcosa di simile a quanto accaduto negli anni passati in altre zone d’Italia. È automatico pensare alla Val Di Susa dei movimenti contro l’Alta velocità ed alla Basilicata della rivolta di Scanzano contro le scori nucleari.
Ed affiora con chiarezza l’importanza del lavoro d’inchiesta svolto da ambientalisti come Francesco Cirillo che per anni ha bussato alle porte del tribunale di Paola, o l’avvocato Rodolfo Ambrosio di Legambiente, che rimbalza da un tribunale all’altro per costituirsi parte civile in estenuanti processi. Senza l’attenzione di questi instancabili “rompiscatole”, molti casi, tanti procedimenti giudiziari, si sarebbero eclissati nella scarsa memoria che cancella identità e prospettive di questa regione.
Si spegnerà la rabbia diffusa che si sta propagando nelle contrade della provincia brettia e sulle due coste? È un sentimento crescente anche nel resto della regione. Può essere frenato soltanto dai persistenti vincoli feudali che legano masse di calabresi al destino di antiche famiglie della politica e della malavita. Sono i clan di sempre, quelli che dominano partiti ed enti. Sono i veri responsabili dello stupro delle Calabrie. Soltanto una partecipazione sociale genuina ed arrabbiata può metterne in discussione il potere plurisecolare.
Per esempio, due settimane fa 10mila persone hanno riempito le strade di Crotone, in difesa della terra, dell’aria e dell’acqua. Sono uomini, donne, vecchi e bambini che da anni vivono in abitazioni e scuole costruite con materiali tossici provenienti dalla Pertusola, una fabbrica chiusa da anni, e mai bonificata. Gli stessi materiali sono stati sotterrati dalle ecomafie sotto agrumeti e pescheti nella piana di Sibari, ma della bonifica non si parla più, nonostante siano stati stanziati milioni di euro e assegnati i lavori.
Dunque, almeno per il momento, la rabbia popolare c’è, ma rimane in profondità. S’immerge silenziosa negli anfratti della rassegnata compostezza che quaggiù le popolazioni hanno maturato durante secoli di calamità naturali e sociali. Ma come acqua di fiumara può riemergere minacciosa, imprevedibile, risolutiva, e cambiare il volto di questa regione. La paura di morire di fame e di cancro rappresenta più che una semplice motivazione per arrabbiarsi. È un’occasione unica per mettere in fuga i politicanti, sfiduciare la ‘ndrangheta, educare i più giovani ad un diverso rapporto con la nostra terra.
Ma per vincere, ci vorrebbe un ultimatum al governo ed a chi può intervenire. Entro una data unanimemente condivisa, questi signori dovrebbero scrivere una parola di verità, ripulire la regione dai veleni tossici e radioattivi. In caso contrario, l’auspicio è che tutta la Calabria si blocchi. Che nessuno passi più da questa terra, almeno fino a quando non restituiranno la salute e la dignità a chi la abita. Come al tempo dei briganti!
Claudio Dionesalvi
CARTA settimanale 16/22 ottobre 2009 n° 36

da GlobalProject

Siamo alla delegittimazione del giudice e alla intimidazione di tutti i magistrati


di Livio Pepino

Piero Calamandrei (nel libro Elogio dei giudici scritto da un avvocato) racconta di un miliardario che non riesce a fermare il processo contro suo figlio, che con l'auto ha sfracellato contro un muro un povero passante. Al difensore il miliardario raccomanda ripetutamente di non guardare a spese, purché cessi lo “sconcio” del processo. L'avvocato cerca di spiegargli che «la giustizia non è una merce in vendita» e che «quel giudice è una persona per bene…». Allora il miliardario salta su sdegnato: «ho capito… lei non me lo vuol confessare: abbiamo avuto la sfortuna di cadere in mano di un giudice criptocomunista».
La boutade di Calamandrei oggi – cinquant'anni dopo – è diventata una pericolosa deriva illiberale e disgregante. Ma ancora non basta. Accade persino che, oltre ad essere definiti "comunisti", i magistrati autori di decisioni sgradite e indipendenti vengano indicati come bersagli (con numero telefonico e indirizzo di abitazione) su quotidiani prossimi a una delle parti interessate. È il caso del giudice Mesiano, autore della sentenza con cui la Fininvest è stata condannata a risarcire la Cir per i danni «a lei cagionati dalla corruzione del giudice Vittorio Metta», del quale una rete televisiva di proprietà del premier si è spinta a riprendere e mandare in onda i scene di vita quotidiana (accompagnando la diffusione con commenti sarcastici sul suo passeggiare da solo, sul suo aspettare il turno dal barbiere e sul colore dei suoi calzini).
Non si tratta (solo) di un eccesso di servilismo, a cui pure troppa parte della stampa scritta e parlata ci ha da tempo abituati. Siamo a una svolta di sistema. La maggioranza di governo, il suo leader e i suoi cortigiani valutano sempre più la giustizia con il metro della utilità: «è giusto non ciò che rispetta le regole ma ciò che conviene». E, coerentemente, non badano ai mezzi per ottenere decisioni utili. Indipendentemente dal fatto che siano giuste e conformi alle regole. Dopo il rifiuto di sottoporsi al processo siamo alla delegittimazione del giudice e alla intimidazione di tutti i magistrati che dovranno occuparsi in futuro di vicende analoghe.
Il salto di qualità è evidente e non può restare senza risposta da parte di tutti i cittadini onesti.

da Articolo21

I «pacchi» natalizi di Berlusconi

di Anna Pacilli

Due annunci in due giorni: cantieri aperti il 30 novembre per la Tav e il 23 dicembre per il Ponte. Ma la Val di Susa non ci pensa proprio, mentre per la grande opera sullo stretto mancano sia il progetto che i soldi

«Non vorremmo che, pur di aprire un qualche cantiere, si spacciasse la realizzazione della bretellina ferroviaria di Cannitello [1-2 chilometri di linea] in Calabria, opera connessa al ponte, come l’inizio dei lavori. Sarebbe una beffa che, in qualche modo, tende a nascondere il danno già fatto a Calabria e Sicilia dirottando 1,3 miliardi di euro di fondi Fas destinati al sud a un’opera irrealizzabile per vincoli tecnici, economico-finanziari e ambientali, invece che destinarli al risanamento del territorio».
E’ il commento del Wwf all’ultimo annuncio riguardante il Ponte sullo Stretto, fatto da Berlusconi due giorni fa a proposito dell’avvio dei lavori il 23 dicembre, alla vigilia di Natale. Una ipotesi improbabile, dice l’associazione, per almeno tre motivi: «non esiste ad oggi non solo un progetto esecutivo che consenta di aprire i cantieri del ponte, ma nemmeno il progetto definitivo che serve a completare la procedura di valutazione di impatto ambientale; si devono ancora rivedere e aggiornare i valori dell’offerta del general contractor [Gc] e le convenzioni tra la concessionaria pubblica Stretto di Messina Spa e il Gc capeggiato da Impregilo, che ha vinto la gara sulle progettazioni definitiva ed esecutiva e la realizzazione del ponte e delle opere connesse, sulla base di un maxiribasso che stimava il costo dell’opera 3,9 miliardi di euro, mentre il costo stimato dal Servizio studi della camera dei deputati 6, 3 miliardi di euro; infine, il governo non ha risorse per realizzarlo», riassume Stefano Lenzi, responsabile del settore legislativo del Wwf Italia, che la vicenda del Ponte la conosce a menadito.
Un «dettaglio» fondamentale quello della indisponibilità delle risorse necessarie: a oggi il governo, con la delibera del Cipe del 6 marzo scorso, ha destinato al Ponte 1,3 miliardi di euro, mentre l’opera costa cinque volte di più. In aggiunta, questi fondi non sono neppure immediatamente disponibili, ma «saranno centellinati di anno in anno dal Cipe, come stabilito dall’ultimo decreto anticrisi, decreto legge n. 185 del 2008», ricorda ancora il Wwf, che ha ricostruito la storia dell’opera in un breve dossier [www.wwf.it], che è anche la storia dei governi, da una parte, e delle mobilitazioni, dall’altra, degli ultimi sei anni. Fra le altre, vale la pena ricordare che il governo Prodi, a fine 2006, aveva cancellato il ponte sullo Stretto di Messina e dirottato la quota di 1.400 milioni di euro [in precedenza destinata alla ricapitalizzazione della Stretto di Messina Spa] ad altre infrastrutture e ad opere di tutela dell’ambiente e difesa del suolo in Sicilia e Calabria. Prima, il 14 ottobre, c’era stata a Roma una importante manifestazione nazionale contro la legge Obiettivo e le grandi opere, organizzata da movimenti territoriali [innanzitutto i NoTav della Val di Susa] e associazioni ambientaliste, insieme a Carta.
E proprio la Tav è l’oggetto del secondo annuncio in due giorni, con cui il governo prepara un pessimo periodo natalizio. «Entro la fine di novembre inizieranno i sondaggi geognostici per la definizione del progetto preliminare della Torino-Lione concordato con il territorio – ha detto ieri il ministro delle infrastrutture, Altero Matteoli, in occasione della conferenza stampa di presentazione del vertice sulle reti infrastrutturali trans europee, in programma a Napoli il 21 e 22 ottobre – Lunedì ci sarà una riunione a Torino all’Osservatorio della Torino-Lione per decidere i lavori propedeutici da far partire subito». Il ministro deve essersi distratto in questi ultimi tempi, altrimenti non parlerebbe di accordi con il «territorio»: in Val di Susa non solo non ci pensano proprio ad accettare l’alta velocità, ma i Notav hanno convinto molti esponenti locali del Pd dell’insensatezza dell’opera, tanto da provocare un terremoto dentro al centrosinistra piemontese, avvertito anche a livello nazionale.

da Carta

Indagata la Santanchè

Insieme ad alcuni esponenti del gruppo Movimento per l'Italia

Daniela Santanchè e una decina di esponenti del suo gruppo, il Movimento per l'Italia, sono indagate dalla Procura di Milano. L'accusa è quella di turbamento di funzioni religiose e interruzione dello svolgimento di manifestazioni religiose. Ricordiamo brevemente ciò che accadde pochi giorni fa:
la Santanchè e alcuni suoi compagni di partito tentarono di strappare il velo ad alcune donne mussulmane durante un incontro religioso. La manifestazione indetta dall'ex parlamentare di An si chiamava anti-niqab, e si svolse il 20 settembre a Milano, durante la festa per la fine del Ramadan. Questo gesto scatenò delle successive e pericolose reazioni di folla. Per fortuna tutto si risolse in un nulla di fatto, anche se la Santanchè accusò di essere stata malmenata – accusa difficile da sostenere in quanto le numerose telecamere presenti non hanno rilevato nessun atto violento contro lei. Secondo la Digos di Milano la provocazione sarebbe potuta degenerare in scontri anche violenti, considerando anche la folta presenza di mussulmani in preghiera (quasi 2000 persone). - Silvia Fabbri.

da Indymedia

Processo Dell'Utri: prosegue requisitoria

Palermo. Le vicende della pallacanestro Trapani, la sponsorizzazione da parte della Birra Dreher e l’intervento di Pubblitalia, ma anche i rapporti mafia-politica: sono stati questi gli argomenti della requisitoria, tenuta oggi, per la terza udienza, dal procuratore generale di Palermo Antonino Gatto nel processo Dell’Utri.
Il rappresentante dell’accusa, davanti alla seconda sezione della Corte d’Appello di Palermo, ha sostenuto che l’ex senatore del Pri Antonino Garraffa, ex presidente della squadra di basket trapanese, ha raccontato la verita’ nel rivelare le pressioni e le minacce che avrebbe subito dopo non avere rispettato un presunto accordo sottobanco con la Pubblitalia, diretta da Marcello Dell’Utri all’epoca dei fatti, risalenti alla fine degli anni Ottanta. “Intervennero boss mafiosi come Vincenzo Virga - ha detto il Pg - per convincere Garraffa a rispettare i patti. E’ il segno della forte compromissione dell’imputato con Cosa nostra”. Ripercorrendo invece i rapporti politici della mafia, Gatto ha ricordato le dichiarazioni del pentito Tullio Cannella, che aveva detto che Cosa nostra, delusa dai politici della prima Repubblica, aveva prima pensato a un movimento di stampo autonomista e poi aveva cercato nuovi referenti politici, per cercare di portare avanti le proprie istanze. “Il rapporto pero’ - ha continuato Gatto - sarebbe stato con Marcello Dell’Utri. La difesa invece ha cercato di sostenere che in cosa nostra ci fosse la convinzione di un rapporto direttamente con Silvio Berlusconi e non con l’imputato. Noi non lo abbiamo mai sostenuto: questa e’ una manovra diversiva, perche’ piu’ si alza il tiro e piu’ e’ difficile accertare le responsabilita’”. Il processo e’ stato rinviato a venerdi’ prossimo per la possibile conclusione dell’accusa.

da Indymedia

Il dormitorio su una striscia d’asfalto

Gabriella Kuruvilla è una scrittrice e artista italoindiana. È nata a Milano nel 1969.

Milano, un sabato d’inizio ottobre, clima tiepido che spinge le persone a uscire di casa. Più che altro per fare shopping. Corso Buenos Aires è pieno di traffico: lungo il canalone che porta dal centro alla periferia scorre un flusso continuo di auto e di persone, attirate dalle vetrine con la merce in saldo.

Verso sera molti tornano a casa. Alcuni – pochi – vanno verso piazza Oberdan, più per prendere il tram o la metropolitana che per assistere alla quinta Notte bianca della solidarietà. In questa striscia di asfalto pedonale nel centro della città vivono e dormono da più di sei mesi alcuni rifugiati politici provenienti dal Corno d’Africa, in particolare dall’Eritrea.

Cercano così di attirare l’attenzione su una situazione ai limiti del tollerabile. E per questo subiscono intimidazioni e ritorsioni da parte del comune, della polizia e della questura (che ha anche cercato di fargli revocare, senza riuscirci, lo status di rifugiati). Queste persone, tra cui ci sono anche donne e bambini, sono state allontanate a fine aprile da uno stabile abbandonato a Bruzzano, alle porte di Milano. Costrette a lasciare il loro alloggio, obiettivamente fatiscente ma comunque necessario, rivendicano il loro diritto a un’esistenza dignitosa. E per farlo usano la loro presenza fisica in un luogo ben visibile della città.

Paulos, uno dei portavoce dell’iniziativa, mi dice: “Ora siamo in quaranta, ma all’inizio eravamo più di trecento”. Molti hanno trovato rifugio negli edifici vuoti e inutilizzati che costellano Milano. Altri immigrati sono riusciti a “scappare” dall’Italia. Ma i rifugiati non hanno questa possibilità: se non vogliono infrangere la legge sono costretti a rimanere qui. “E qui stiamo morendo”, afferma Paulos.

L’unica alternativa offerta dal comune di Milano è il dormitorio pubblico. “Le famiglie sono separate, i maschi vengono divisi dalle femmine”, continua, “e siamo costretti a entrare alle otto di sera e a uscire alle sette di mattina”. Questa non è una casa. È solo una toppa troppo piccola per il buco da coprire, e li costringe a passare l’intera giornata per strada.

Il comune indifferente
Così, loro in strada preferiscono starci sempre, per manifestare pacificamente contro un’amministrazione comunale cieca, insensibile, avida e avara, non molto diversa dai cittadini che l’hanno eletta. Un’amministrazione comunale che infrange le convenzioni di Ginevra e non investe i finanziamenti che ha ricevuto dall’Unione europea per affrontare il problema dei rifugiati.

Questi soldi non arrivano ai diretti destinatari, che non ricevono quello che gli spetta secondo le leggi internazionali: innanzitutto un alloggio, ma anche corsi di formazione e di lingua, oltre ai ticket per mangiare e per accedere ai trasporti pubblici. “Come dice un proverbio cinese: ‘Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno. Insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita’”, conclude Paulos. Poi torna in mezzo alla piazza tra i banchetti delle informazioni. Tra poco cominciano la cena e il concerto.

Io, però, devo andare. Per spostarmi prendo la bici, non l’autobus. Il comune di Milano, poco tempo fa, ne aveva inaugurato un nuovo modello, con le sbarre ai finestrini. In questi autobus gli immigrati sprovvisti di documenti venivano caricati ed “esposti” per ore prima di essere trasportati alla centrale dei vigili urbani per gli accertamenti. Moderne galere a cielo aperto, sono stati “dismessi”, solo dopo aver provocato lo sdegno di molte persone (ma l’approvazione di altre). Per dimostrare che Milano non è una città razzista, e che i diritti – anche semplicemente i diritti umani – sono uguali per tutti. Gabriella Kuruvilla

da Internazionale

L’eleganza dei bugiardi

Muin Masri è uno scrittore nato nel 1962 a Nablus, in Palestina. Vive in Italia dal 1985.

Noi stranieri d’Italia, nel bene e nel male, siamo figli di un disegno di legge. Alcuni, purtroppo, sono stati condannati a non nascere per colpa degli anticoncezionali che il governo applica ai diritti umani. È sempre stato così, ma un tempo la mortalità tra noi stranieri non era così alta. Cos’è cambiato?

La politica è più aggressiva e la gente meno tollerante? Gli stranieri sono meno educati? È difficile per un immigrato descrivere la trasformazione dell’Italia dagli anni ottanta a oggi. Ma di una cosa sono sicuro: questo paese era un sogno collettivo, oggi invece somiglia sempre di più a un bordello dove uno si vergogna quando entra e si vergogna quando esce, anche se quando è dentro si diverte come un matto.

Non voglio essere nostalgico, ma l’Italia di oggi non trasmette più la stessa felicità di qualche anno fa. Una felicità che contagiava anche noi stranieri. Qualcosa è cambiato. La malavita è la stessa, tutto il resto è diverso.

Una volta i politici facevano il loro mestiere, si vestivano male e ogni tanto mentivano durante le campagne elettorali. Oggi sono tutti alla moda ma nessuno dice mai la verità, neanche dopo aver vinto le elezioni. In passato i mezzi d’informazione potevano essere un valido strumento d’integrazione. Ospitavano dibattiti seri e notizie vere, oltre ai programmi leggeri e a Colpo grosso di Umberto Smaila, a cui tutti buttavamo un occhio la sera.

Oggi tutti sembrano soffrire di una crisi d’identità, nonostante i vestiti eleganti. E negli stranieri vedono la causa di un malessere generale, una sorta di nemico utile. Non voglio essere nostalgico, ma quest’anno al festival di Internazionale a Ferrara mi è sembrato di riconoscere l’Italia di un tempo, quando gli stranieri si lasciavano contagiare dalla felicità degli italiani. C’erano molti giovani, vestiti come gli pareva, che sembravano contenti. Davvero. Muin Masri

da Internazionale

Il buono, il brutto, il cattivo.

Un'ora e mezza di dibattito, con rare asprezze tutte innescate da Ignazio Marino, che ha punzecchiato Pierluigi Bersani sul nucleare e la scelta di candidare Antonio Bassolino come capolista e Dario Franceschini sull'immigrazione e il conflitto di interessi. Oggi è stato il pomeriggio del dibattito televisivo a tre con i candidati alla segreteria del Partito democratico. La sfida l'ha trasmessa la tv del partito, "Youdem", i giornalisti della Rai Tiziana Ferrario e Maurizio Mannoni hanno svolto il ruolo di moderatori. Rigido il contenitore: dodici domande poste dai conduttori (sei a testa alternate), risposta di due minuti dei candidati, in ordine ogni volta rimescolato.

Appello finale al voto. Bersani: "Se ci mettiamo dalla parte dei più deboli, di chi lavora e di chi produce possiamo fare una società migliore per tutti. Aiutateci". Franceschini: "So che c'è molta delusione del partito. Ma il 25 ottobre è importante per il Paese, più gente verrà e più chi verrà eletto avrà forza politica". Marino: "La campagna elettorale è stata un'esperienza che mi ha arricchito. Possiamo costruire, con i voti di tanti, un partito laico, che decide e torna al governo del Paese". Prima erano stati affrontati praticamente tutti i temi balzati alle cronache del dibattito politico delle ultime settimane. Dalla sanità alla crisi economica, dalla laicità alla giustizia passando per le questione interne al Pd, come le alleanze e l'istituto delle primarie.

Sanità. Marino ha citato l'articolo 32 della Costituzione (quello che sancisce il diritto universale alla salute), elencato i dati sulle persone che si spostano dal Sud al Nord per avere cure migliori (un milione ogni anno), sull'efficienza diversa tra le varie parti d'Italia, richiamato la necessità di un piano generale di ristrutturazione degli ospedali (600 su 1000 sono stati costruiti prima del 1940). Ha attaccato Bersani: "Un errore candidare Bassolino e Loiero, nelle loro Regioni la sanità ha fallito", e proposto: "La politica deve uscire dal controllo della sanità smettendo di nominare i primari". Bersani vuole il livellamento di qualità: "Ci sono eccellenze e buchi neri, facciamo in modo di imparare dalle eccellenze". Franceschini ha lanciato l'idea di cominciare a dare l'esempio: nelle Regioni governate dal Pd gli assessori regionali smettano di nominare i direttori sanitari.

Scuola e università. Ironico Bersani: "Chissà perché quando sento parlare del ministro Gelmini dietro vedo sempre Tremonti". L'ex ministro ha una suggestione: prendendo spunto dalla riforma parlamentare del sistema sanitario del 1978, "cominciamo a discutere di una rifondazione, parlamentare, del nostro sistema che sta deperendo". Marino è per l'applicazione decisa del principio del merito nella scelta dei docenti: "Da noi solo lo 0,05 dei professori universitari di ruolo è sotto i 35 anni, in Inghilterra sono il 16. E il merito è pure che se un professore è lì dagli anni ottanta e non produce dal punto di vista scientifico, possiamo dirgli di accomodarsi fuori". Per Franceschini la destra "ha tradito" questo settore, che va rilanciato perché è fondamentale per l'economia italiana. E al merito di Marino ha aggiunto il concetto di uguaglianza, intesa come pari possibilità negli studi: "Devono andare di pari passo".

Giustizia e Berlusconi. Lo spunto è una domanda sulla possibilità che possa cominciare un dialogo con la maggioranza per ridisegnare il sistema giudiziario. Duro Franceschini: "Non c'è spazio per un confronto per chi calpesta le regole e attacca le istituzioni di garanzia. D fronte a questo dobbiamo fare opposizione, non è questione di antiberlusconismo". Il segretario in carica ha aggiunto: "E' stato un grave errore non aver fatto, quando potevamo, un legge sul conflitto di interessi. Se vinco mi batterò e dirò no a una stagione di inciuci che ce lo impedì". Il riferimento è alla Bicamerale tra Berlusconi e D'Alema, che è il principale sostenitore di Bersani, il quale non ha incassato e ha replicato punzecchiando Walter Veltroni, uno sponsor di Franceschini: "Ricordo che questa legislatura l'abbiamo iniziata parlando con Berlusconi". Poi ha aggiunto: "Il più grande antiberlusconiano è quello che riesce a mandare a casa il premier. Non dobbiamo occuparci degli affari di Berlusconi, ma della giustizia civile, il servizio che manca a questo paese". Marino è per dare "più risorse alla magistratura" che deve rimanere un "potere indipendente". Il senatore chirurgo ha attaccato i due avversari ricordando la legislatura tra il 1996 e il 2001, l'occasione persa di fare una legge sul conflitto di interessi. Franceschini ha interloquito: "Non ero nemmeno parlamentare".

Crisi economica. Per Marino è necessario trovare risorse per le persone più deboli, e il governo non lo sta facendo. Ha proposto di diminuire il carico fiscale sugli stipendi, le imprese e le pensioni. Le risorse andrebbero reperite dall'aumento delle aliquote di tassazione sulle rendite finanziarie e i grandi patrimoni. Marino vorrebbe anche maggiori investimenti sulle energie rinnovabile piuttosto che sul nucleare, pretendendo risposte immediate dagli avversari. Bersani gli ha risposto a stretto giro: "Al nucleare non ci penso neanche, lo potevo fare quando ero al governo e non l'ho fatto". L'ex ministro vuole un grande piano per le piccole opere (di cui si farebbero carico i comuni facilitati dallo Stato centrale attraverso deroghe dal Patto di stabilità) e un sostegno ai redditi medio bassi, specialmente tenendo conto che "tra quest'anno e il prossimo avremo un milione di disoccupati in più". Franceschini ha richiamato le proposte lanciate nelle prime settimane della sua segreteria, concentrandosi sull'emergenza: l'assegno di disoccupazione per tutti e il sostegno ai poveri con il contributo di solidarietà dai redditi alti. Ha detto: "La colpa principale del governo è di non aver messo in campo misure per l'emergenza e nascosto il problema".

Patto Draghi. Ai candidati è stato chiesto un parere sulle idee lanciate qualche giorno fa dal governatore della Banca d'Italia Mario Draghi: l'innalzamento dell'età pensionabile affiancato da una riforma degli ammortizzatori sociali. Franceschini ha ribadito la propria approvazione e la necessità di un "patto fra generazioni" per garantire il futuro dei più giovani, Marino si è detto a favore della revisione dell'età pensionabile sebbene "con oculatezza", tenendo conto dei lavori usuranti e della condizione delle donne, a cui va garantito in parallelo più appoggio prima e durante la vita lavorativa. Il senatore chirurgo ha ripreso l'idea di un contratto di lavoro unico a tempo indeterminato, che abbia all'interno l'indicazione di un salario minimo garantito. Secondo Bersani la discussione sulle pensioni, tutta centrata sull'eventuale innalzamento dell'età di accesso, parte da un presupposto sbagliato: andrebbe avviata una riflessione per chiedersi se "i pilastri che abbiamo ideato sin qui sono in grado di reggere" o se siano necessari degli aggiustamenti, con particolare riferimento alla parte contributiva del sistema.

Omofobia e temi etici. Inevitabile la domanda sul caso Binetti e il trattamento delle questioni etiche. Franceschini ha rivendicato di aver "rotto il tabù del voto su tutte le questioni, a cominciare dalla scelta del gruppo al Parlamento di Strasburgo". Con Paola Binetti "c'è un problema serio, ha votato con la destra su una legge" coerente con uno dei principi fondativi del Pd, la lotta alla discriminazioni. In generale, il segretario in carica è per il riconoscimento delle unioni civili sui modello dei Dico mai approvati dall'ultimo governo di centrosinistra ma è contrario all'adozione per le coppie gay. Sul testamento biologico, se il problema è "lasciarsi morire" la scelta, per Franceschini, spetta alla persona. Bersani ha commentato così il caso Binetti: "Se sei eletto devi accettare la disciplina di partito, salvo deroghe stabilite da un organismo statutario. E' ora di darci questa struttura". Lo stesso vale per le eventuali sanzioni. Sul testamento biologico l'ex ministro si è scaldato: "Come devo morire io non può decidere né Gasparri né Quagliariello". Marino ha richiamato la necessità, su questi temi, "di un metodo di lavoro laico, e se serve di un voto" a cui adeguarsi, come non ha fatto ad esempio Dorina Bianchi che si è schierata con la maggioranza facendo passare l'inchiesta conoscitiva sulla pillola abortiva. Per quanto riguarda il testamento biologico, il senatore chirurgo è per "il diritto di scelta", le unioni civili le vorrebbe sul modello dell'Inghilterra e quanto alla Binetti "il problema doveva essere risolto due anni fa quando proprio sull'omofobia votò contro la fiducia al governo Prodi".

Immigrazione. Secondo Bersani gli immigrati sono "una risorsa" che comporta dei problemi, che non vanno scaricati tutti, come è ora, sui ceti popolari. Sì a un "multiculturalismo" con dei paletti culturali, come il no al burqa, perché "l'integrazione bisogna farla guardandosi negli occhi". Marino ha denunciato il bluff del governo sui respingimenti, visto che dal mare arriva appena il dodici per cento delle entrate illegali nel nostro territorio. Perciò "più risorse alla polizia di frontiera" e sì al voto amministrativo per chi nasce sul suolo italiano. Franceschini ha ammesso l'errore fatto dal centrosinistra sui problemi dell'immigrazione, quando si sono sottovalutate le preoccupazioni dei cittadini per la sicurezza. Ha risposto a una frecciata di Marino che ha letto due sue dichiarazioni in apparente contrasto sul tema dei respingimenti: "Chi è in mare si salva", poi si controlla se ha i requisiti per rimanere.

Informazione. Si parla soprattutto di Rai, Marino e Franceschini vogliono la riforma che la liberi dal controllo dei partiti: il senatore chirurgo è per il modello fondazione, il segretario vuole un amministratore unico nominato dal Parlamento. Bersani ha fatto un discorso più generale e proposto che anche il mondo dell'informazione nel suo complesso (Internet compreso) sia sottoposto alle leggi anti - concentrazioni, per tutelare "il diritto del cittadino a un'informazione plurale".

Partito. Tutti e tre i candidati si sono detti a favore del mantenimento delle primarie, Bersani ha specificato di volerle "rafforzare un po'". Divergenza sul tema del cosiddetto lodo Scalfari, ovvero l'accordo precedente al voto che impegna i candidati a riconoscere la vittoria di chi ottiene la più voti rendendo l'eventuale secondo turno, che lo statuto impone nel caso nessuno ottenesse la maggioranza assoluta delle preferenze, un mero passaggio formale. Franceschini e Bersani sono a favore, Marino contrario: "Le regole sono regole, non si possono cambiare davanti a un caffé". Il partito che verrà Bersani lo vuole rivolto "ai ceti popolari" e strutturato come "una comunità di protagonisti". Franceschini manterrebbe la collegialità che ha rivendicato per questi ultimi mesi di gestione e progetta di aprire ai giovani: "Una parte della mia squadra sarà fatta in base al merito". Marino sogna un Pd senza correnti che "non vogliono il rinnovamento" e ha citato il caso di una diciannovenne che in un collegio di Torino ha battuto Fassino.

Alleanze. Il senatore chirurgo è per aprire "alle forze di sinistra che si sono allontanate: socialisti, ambientalisti, radicali". Considera l'Italia dei valori un "alleato naturale" e l'Udc incompatibile, visto che nel voto sull'omofobia ha dimostrato di essere "contro l'uguaglianza delle persone". Franceschini ha sottolineato di non voler metter in discussione il bipolarismo e l'alternanza, ha criticato chi (D'Alema) si batte per il ritorno del sistema elettorale proporzionale per "rafforzare il centro per poi scoprire che si allea con Berlusconi e noi restiamo all'opposizione per trent'anni". Il segretario in carica ha promesso alleanze solo "attorno a un programma per governare". Bersani rivuole "il cantiere dell'Ulivo", con l'attenzione alle forze civiche e all'associazionismo. L'ex ministro considera poi una priorità la riforma la legge elettorale in vigore, che manda in Parlamento i nominati dalle segreterie dei partiti ma è più vago sulle alleanze, parlando per ora solo della necessità di "un percorso comune" con le altre forze, "con l'obiettivo di superare i problemi che ci sono".

da aprileonline