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sabato 5 dicembre 2009

Vorrei che fosse davvero la festa dell’Italia civile...

1. Vorrei che fosse davvero la festa dell’Italia civile. La festa di chi vedrà la fine di un modello culturale e politico del secolo scorso, televisivo e monocratico.

2. Spero che dia una piccola grande scossa a questo paese, che guardi più al futuro che al passato, al quindicennio che sta finendo. E che sia una scossa d’amore per l’Italia civile, non di rabbia verso l’animale ferito del berlusconismo reso ancora più rabbioso (lui sì) dalle ferite recenti.

3. Vorrei che fossimo almeno centomila – anche «per la Questura» – ma più che altro perché i mass media misureranno la riuscita sui numeri. Per me la riuscita c’è già stata – se non altro per le dinamiche attraverso le quali si è diffuso l’evento. Del resto i “40 mila di Torino”, nell’80, segnarono una cesura storica anche se in realtà erano la metà.


4. Dopo le infinite acrobazie dei giorni scorsi alla fine, di fatto, il Pd ci sarà. A me fa piacere, anche perché senza il Pd – con tutti i suoi terrificanti difetti – non si costruisce una cosa diversa dal modello berlusconiano di cui sopra.

5. Chi non potrà venire a Roma potrà seguire la diretta su SkyTg24 e su Youdem (canale 813 di Sky ma anche in streaming sul sito). Non ho capito bene se alla fine i vertici di viale Mazzini daranno il via libera anche a Rainews 24. La manifestazione sarà seguita anche dal sito di Repubblica.it e, più modestamente, da noi de L’espresso, che abbiamo lanciato l’idea di farla raccontare “live” via sms da chi è in piazza: i messaggi mandati al 347 0104772 347 0104772 appariranno quindi sul nostro sito, insieme alla cronaca fotografica spedita via iPhone.

6. Per fatto personale. Stamattina sono riuscito a parlare del No-B Day in diretta da Magalli: una decina di secondi ma abbastanza per far sgranare gli occhi di panico ad Adriana Volpe che stava accanto a me. Per domani gli organizzatori del No-B Day mi hanno invitato a dire due cosette, spero di non fare brutta figura e comunque ci si vede là.

7. Non so che cosa accadrà da domenica in poi, ma sono un filo preoccupato e spero che di qua si tengano i nervi ben saldi e gli animi sereni, anche perché di là mi pare non lo siano per niente.

Buon week end, comunque: dopo un lungo e cupo diluvio, qui a Roma sta uscendo il sole.

Alessandro Gilioli

Fatti processare (l'inchiesta completa)

di Pietro Orsatti su left/Avvenimenti

Mentre appare evidente, rileggendo Spatuzza, che Cosa nostra scelse il terrorismo, fuori da una logica esclusivamente criminale, il premier cerca in tutti i modi di sottrarsi a qualsiasi giudizio legale.
Racconta Gaspare Spatuzza che sia l’attentato di Capaci che quello di via D’Amelio rientravano, se è possibile definirla così, all’interno di un’ottica “mafiosa”, ma che da quel momento in poi Cosa nostra si trovò a percorrere una via totalmente diversa. Utilizzare gli strumenti terroristici, e non mafiosi, all’interno di una strategia ben precisa. «Ci sono morti – racconta ai pm di Palermo nell’ottobre scorso – che non ci appartengono, perché noi abbiamo commesso delitti atroci, però terrorismo, sti cose di terrorismo non ne abbiamo mai fatte per quello che mi riguarda, quindi gli dissi a Giuseppe Graviano: ci stiamo portando un po’ di morti che non ci appartengono. Allora lui per cercare un po’ di incoraggiarci perché non era solo il mio pensiero, era un malessere che già si sentiva all’interno del gruppo, mi disse che era un bene che ci portassimo dietro un po’ di morti così chi si deve muovere si dà una smossa». E poi racconta di una trattativa, di Graviano che spiegava che «c’è in piedi un qualche cosa che se va a buon fine ne abbiamo tutti dei benefici a partire dai carcerati». Terrorismo. Ecco in che cosa si era trasformata Cosa nostra nel ’93, almeno in parte, in un gruppo che utilizzava tecniche e pressioni terroristiche per contrattare politicamente con alcuni poteri. Una nuova strategia della tensione. E non limitandosi ad agire sul proprio territorio, ma a livello nazionale. E secondo Spatuzza, terminale di questa trattativa, sarebbe stato il gruppo che faceva capo a Marcello Dell’Utri e a Silvio Berlusconi. Terrorismo, mafioso, ma sempre terrorismo. Questo l’ultimo capitolo delle tante dichiarazioni, testimonianze e inchieste che hanno riguardato i presunti rapporti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri con la mafia che avrebbe accompagnato l’ascesa alla politica dell’attuale premier negli ultimi 15 anni.

Esercizio di memoria
Palermo, ormai una vita fa. Per capire, allora, è necessario tornare indietro nel tempo, scomodando anche altre vicende, e ripercorrere questi anni. Nell’aula bunker ha inizio il processo Andreotti che l’eco del tritolo delle stragi del 1992/93 non si è ancora spento. Il senatore a vita, entrato per la prima volta in un governo nel 1947 e che per sette volte ha ricoperto l’incarico di presidente del Consiglio, entra in aula con i suoi legali, ignorando i flash dei fotografi e i microfoni dei giornalisti. Poi, prima di sedersi, si avvicina ai pm che lo accusano e va a salutarli. Una vita fa.
Mentre Bettino Craxi e mezzo Parlamento sfilavano nelle aule di Milano, il più longevo uomo di governo della Repubblica accettava, quindi, di farsi processare e mica per un reato di poco conto, ma per concorso esterno in associazione mafiosa a Palermo. Altri tempi. Tempi in cui la nascente Forza Italia giocava al “prendo tutto” facendo manbassa dei voti del pentapartito lasciati bradi dal crollo del sistema causato da Tangentopoli. Macchina del consenso, Forza Italia, organizzata da Marcello Dell’Utri sul modello a “cellule” di Publitalia e trascinata su fino al Gotha della politica nazionale, dal leader mediatico Silvio Berlusconi. Un successo prevedibile viste le forze che il proprietario dell’impero Fininvest mise in campo alla bisogna: tre canali televisivi, un network radiofonico, una casa editrice delle dimensioni della Mondadori, un quotidiano e una montagna di quattrini. Mai nella storia della Repubblica, e delle democrazie occidentali, una forza politica appena nata è riuscita nel giro di un anno a conquistare al primo colpo la maggioranza relativa. E invece è proprio questo quello che è accaduto, mentre la Prima repubblica andava a processo. Mentre Giulio Andreotti, il divo, si sedeva a seguire il proprio, da cui poi è uscito indenne solo grazie alla prescrizione. Ma si è seduto, Giulio. Ha accettato di andare davanti ai giudici, ha rispettato i magistrati che lo accusavano, si è difeso a denti stretti e con abilità, e nonostante le ombre lasciate da quella sentenza incompleta e contraddittoria, che ognuno può leggere e interpretare come vuole, innocentisti e colpevolisti non possono certo accusarlo di aver rifiutato il giudizio.

Il processo dei processi
Ben altro è successo, negli ultimi anni, all’altro premier “divo” Silvio Berlusconi, che grazie al lodo Schifani e poi a quello Alfano è riuscito a “estrarre” se stesso dal cosiddetto processo Mills, ovvero da un processo di “corruzione in atti giudiziari”. Finora. Il 4 dicembre, giorno di uscita di questo numero di left, si apre a Milano il processo relativo a Berlusconi ormai decaduti gli impedimenti opposti dalle due norme, entrambe respinte dalla Corte costituzionale. Non potrebbe essere altrimenti, visto i toni della sentenza che riguardano il “corrotto”, ovvero l’avvocato inglese Mills Mackenzie Donald David. Ecco cosa c’è scritto: «Egli ha certamente agito da falso testimone, da un lato, per consentire a Silvio Berlusconi e al Gruppo Fininvest l’impunità dalle accuse o, almeno, il mantenimento degli ingenti profitti realizzati attraverso il compimento delle operazioni societarie e finanziarie illecite compiute sino a quella data; dall’altro, ha contemporaneamente perseguito il proprio ingente vantaggio economico». Se non ci saranno altri colpi di scena, ovvero qualche escamotage del collegio (parlamentare) di difesa, Silvio dovrà sottoporsi a giudizio. Che risulti colpevole o innocente questo lo determinerà la corte e non Mediaset o Il Giornale. Come è successo per ben altri uomini politici italiani. Quello di Milano è “il processo dei processi”, il più importante. Paradossalmente, si potrebbe interrompere qualsiasi altro dibattimento in attesa che vada in scena questo stralcio. Perché, soprattutto, finora il processo Mills senza la presenza come imputato in aula di Berlusconi rappresenta una contraddizione giuridica unica. Il reato di corruzione prevede che ci siano due soggetti interagenti, un corrotto (Mills, che è stato già condannato) e un corruttore che finora non è stato possibile sottoporre a giudizio, ovvero il premier Silvio Berlusconi.

Il patto innominabile
Altri tempi, altri uomini. Può bastare? Certo che no. Anche perché mentre Andreotti attraverso il suo uomo Salvo Lima si muoveva sul filo del rasoio nella Sicilia dove si stava per scatenare la seconda guerra di mafia degli anni Settanta e Ottanta, l’imprenditore lombardo Silvio Berlusconi e il suo amico e, in alcune imprese, socio Marcello Dell’Utri stavano mettendo in piedi un progetto molto aggressivo per passare dal “mattone” all’editoria, alla televisione e da lì alla grande finanza. Passando anche per la Sicilia, perché no. Quindi è necessario anche capire, grazie a sentenze e testimonianze, quello che stava accadendo, diciamo nel periodo che intercorre fra il 1975 e il 1993, in Sicilia e in Italia. Partiamo da Giulio. Nella sentenza definitiva della Cassazione si legge che Giulio Andreotti con alcuni esponenti mafiosi intrattenne rapporti e fece accordi su temi specifici grazie ai suoi uomini in Sicilia. Leggiamo: «Pertanto la Corte palermitana non si è limitata ad affermare la generica e astratta disponibilità di Andreotti nei confronti di Cosa Nostra e di alcuni dei suoi vertici, ma ne ha sottolineato i rapporti con i suoi referenti siciliani (del resto in armonia con quanto ritenuto dal Tribunale), individuati in Salvo Lima, nei cugini Salvo e, sia pure con maggiori limitazioni temporali, in Vito Ciancimino, per poi ritenere (in ciò distaccandosi dal primo giudice) l’imputato compartecipe dei rapporti da costoro sicuramente intrattenuti con Cosa Nostra». Ma c’è la prescrizione, quindi non se ne fa nulla.

Non è solo Spatuzza
E andiamo, quindi, all’oggi. Alle dichiarazioni del dichiarante Gaspare Spatuzza che coinvolgerebbero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri in un intreccio di relazioni con esponenti di Cosa nostra e addirittura li indicherebbero come terminali di un’evoluzione della cosiddetta trattativa fra Stato e mafia. Una novità? Assolutamente no. Berlusconi e Dell’Utri sono stati indagati due volte per concorso in strage con l’accusa di essere stati i mandanti occulti delle stragi del 1992/93. Il primo procedimento è stato aperto dalla Procura di Firenze, competente sulle stragi mafiose del ’93 a Milano, Firenze e Roma. L’indagine si è conclusa nel novembre del 1998 con un decreto di archiviazione in cui si legge che «le indagini svolte hanno consentito l’acquisizione di risultati significativi solo in ordine all’avere Cosa Nostra agito a seguito di input esterni» e «all’avere i soggetti di cui si tratta intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il progetto stragista realizzato, all’essere tali rapporti compatibili con il fine perseguito dal progetto». Nonostante «l’ipotesi iniziale abbia mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità», gli inquirenti non hanno trovato le prove necessarie a «formulare in termini attendibili la proposizione secondo cui il soggetto politico in via di formazione (Forza Italia), avrebbe preventivamente divisato l’utilizzazione dei risultati del progetto stragista».

Ancora per strage
Mentre il gip di Firenze depositava queste conclusioni, a Caltanissetta i magistrati stavano indagando anche loro sui mandanti occulti delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Raccogliendo le dichiarazioni di pentiti come Brusca, Cancemi, Siino, Cucuzza e Cannella e le testimonianze di Ezio Cartotto e Francesco Cossiga. I magistrati nisseni arrivano a ritenere dimostrata «la sussistenza di varie possibilità di contatto fra uomini appartenenti a Cosa nostra ed esponenti di gruppi societari controllati in vario modo dagli odierni indagati. Ciò di per sé legittima l’ipotesi che, in considerazione del prestigio di Berlusconi e Dell’Utri, essi possano essere stati individuati dagli uomini dell’organizzazione come eventuali interlocutori». Anche quest’indagine è stata archiviata.

Dell’Utri lasciato solo a Palermo
Ma le testimonianze raccolte da Firenze e Caltanissetta sono state acquisite in un terzo processo, quello di concorso esterno a carico di Marcello Dell’Utri che lo ha visto condannato in primo grado a nove anni di reclusione e che si avvia oggi alla fase conclusiva dell’appello. Documenti a cui si è aggiunta la testimonianza di un altro collaboratore di giustizia, Antonino Giuffrè, che spiega ai pm che «nel ’93 in Cosa nostra si faceva il nome di Berlusconi». In particolare, spiega il pentito, che quegli anni furono «per Cosa nostra» un «periodo di travaglio, come ho detto, e di sofferenza». E poi conclude: «In modo particolare mi intendo riferire alle promesse di Salvatore Riina e in modo particolare, per quanto riguarda i processi, perché diceva sempre che la situazione si doveva risolvere nel migliore dei modi possibile, che male che andava doveva ritornare come prima. Invece, ci eravamo resi conto che si andava sempre più male, ripeto, signor Procuratore, con l’omicidio di Lima, si chiude un’epoca e si apre un’altra epoca, perché come le ho detto, si vede all’orizzonte una nuova formazione politica che dà delle garanzie che la Democrazia Cristiana o, per meglio dire, parte di questa non dava più. Questa formazione politica, per essere io preciso, è Forza Italia».

Il terremoto Ciancimino
A chiudere il cerchio, poi, arriva anche Massimo Ciancimino, sulla vicenda delle minacce della mafia a Silvio Berlusconi. Il 3 luglio scorso la stampa ha dato notizia del ritrovamento di una lettera scritta a mano in cui Cosa nostra minacciava Berlusconi e gli proponeva un sostegno reciproco. La lettera, sequestrata dai carabinieri nel 2005 in un magazzino di Ciancimino, è rimasta secretata per quattro anni nei cassetti della Procura. Poi il colpo di scena. Nella lettera viene offerto un appoggio «che non sarà di poco» a Berlusconi minacciato però di un «triste evento» se non metterà «a disposizione una delle sue reti televisive». Massimo Ciancimino credeva che quella lettera fosse andata dispersa. Quando i magistrati di Palermo gliel’hanno mostrata e hanno chiesto chiarimenti, dicono alcune fonti, è sembrato terrorizzato. «Si tratta di qualche cosa che è più grande di me», avrebbe detto. Poi ha spiegato ai pm che quella lettera, destinata a Marcello Dell’Utri, venne consegnata personalmente a “Massimino” da Bernardo Provenzano a San Vito Lo Capo in una villa del boss Pino Lipari. Poi Massimo la consegnò al padre, don Vito, in carcere, che avrebbe dovuto «fornire il proprio parere e farla avere a una terza persona». Che la lettera sia stata consegnata o no, quelle minacce sembrano essere arrivate comunque a Berlusconi, che nel 1998, al telefono con Renato Della Valle, disse: «Mi hanno detto che, se, entro una certa data, non faccio una roba, mi consegnano la testa di mio figlio a me ed espongono il corpo in piazza del Duomo».

«Silvio, fatti processare»
Solo dopo, molto dopo, arriva Gaspare Spatuzza e l’intreccio con i fratelli Graviano e Vittorio Mangano. Lo stesso Vittorio Mangano, di cui solo recentemente è emerso pienamente il ruolo che ricopriva all’interno dell’organigramma di Cosa nostra come capo del mandamento di Porta Nuova, uno dei più importanti di Palermo. Quel Vittorio Mangano che ormai, leggendo i vari verbali di interrogatori e le dichiarazioni dei testi, non sarebbe stato altro che una sorta di garante della sicurezza per Berlusconi: Cosa nostra verificava la “salute” del proprio investimento. La domanda, conseguente, è solo una: si può davvero governare autonomamente con un carico tale di sospetti e di possibili nodi di ricatto? E quindi, inevitabile, l’invito che sembra arrivare ormai non solo da parte dell’opposizione ma anche da alcuni autorevoli compagni di coalizione al premier: «Silvio, fatti processare». Come Giulio Andreotti ha fatto una vita fa.

Tratto da: orsatti.info

da AntimafiaDuemila

PIERPAOLO PASOLINI - IO SO

"Pagine corsare"
Saggistica
Io so i nomi dei responsabili...
di Susanna Cotugno
http://loriscosta.ilcannocchiale.it/post/2138360.html

«Io so i nomi dei responsabili delle stragi italiane», così scriveva Pier Paolo Pasolini il 14 novembre 1974 sul Corriere della Sera, in un articolo che sarebbe stato poi ricordato come il “Romanzo delle Stragi”. Un anno dopo, il 1 novembre 1975, rilascia un'intervista a Furio Colombo per "La Stampa", che per espressa volontà di Pasolini stesso, viene pubblicata con il titolo: "Siamo tutti in pericolo". Il giorno dopo, il 2 novembre 1975, giorno dei morti, il corpo dello scrittore viene trovato privo di vita all'Idroscalo di Ostia.

Pino Pelosi detto “la Rana”, un “ragazzo di vita” romano di 17 anni, fermato dai carabinieri a un posto di blocco, confessa immediatamente l’omicidio.

Pelosi racconta di come Pasolini quella sera l’abbia convinto a “farsi un giro” sulla sua auto,
un’Alfa GT. Arrivati all’Idroscalo, Pasolini ha tentato un approccio sessuale ma Pelosi si è rifiutato. Ne è sorta una lite di inaudita violenza, che si è conclusa con la morte del poeta. Picchiato a sangue, massacrato, e schiacciato con l’auto durante la fuga di Pelosi. Un delitto maturato nell’ambiente degradato delle borgate romane. E un delitto omosessuale. Niente di più chiaro e semplice. Se non fosse che tante, troppe cose non quadrano.

Errori della polizia
Una serie di errori ha inficiato lo svolgimento delle indagini, soprattutto nelle prime ore successive al delitto. La polizia, giunta all’Idroscalo di Ostia alle 6.30 di domenica mattina 2 novembre, trova una piccola folla intorno al corpo di Pasolini, e non pensa minimamente ad allontanarla, così come non si cura di recintare il luogo del delitto per impedire la cancellazione di tracce importanti. E infatti, non essendo stata circondata la zona, tutte le eventuali tracce sono andate perdute dal passaggio di auto e pedoni diretti alle baracche o all’adiacente campo di calcio, oppure da semplici curiosi. Nel campo di calcio lì vicino, inoltre, dei ragazzi giocano a pallone, che ogni tanto va a finire proprio vicino al cadavere di Pasolini.

Non viene neanche notato che sul sedile posteriore dell’Alfa GT di Pasolini c’è, bene in vista, un golf verde macchiato di sangue, e che lontano dal cadavere, tra le immondizie, c’è una camicia bianca, anch’essa sporca di sangue. Se ne accorgeranno solo tre giorni dopo. Inoltre, fino a giovedì mattina, l’Alfa GT viene lasciata aperta e senza sorveglianza nel cortile di un garage dove i carabinieri depositano le auto sequestrate. Chiunque avrebbe potuto mettere o togliere indizi, lasciare o cancellare impronte.

La polizia torna sul luogo del delitto solo nella tarda mattinata di lunedì 3 per tentare una ricostruzione del caso, ma senza nessuna misura precisa, e con le tracce ormai inesistenti.
Solo da giovedì gli investigatori iniziano a interrogare gli abitanti delle baracche e i frequentatori della Stazione Termini (luogo in cui Pelosi ha raccontato di essere stato “adescato” da Pasolini).

Infine - e questo ha davvero dell’incredibile - sul luogo del delitto non è mai stato convocato il medico legale. E il cadavere venne lavato prima di completare gli esami della scientifica. È chiaro che polizia e carabinieri, certi di poter archiviare il caso come omicidio omosessuale, oltretutto con l’assassino reo confesso già in carcere, hanno ritenuto superfluo ogni accertamento sul cadavere che poteva invece servire per le successive indagini.

È possibile che la polizia abbia commesso così tanti e clamorosi errori tutti insieme?

Dopo questa pessima conduzione delle indagini, ci si aspetterebbe che il massimo responsabile venisse sospeso dall’incarico. Invece, il dottor Ferdinando Masone, capo della squadra mobile di Roma durante le indagini, è diventato questore di Palermo e poi di Roma, e in seguito addirittura Capo della Polizia. Ruolo che ha ricoperto fino al 2000, quando è diventato segretario generale del CESIS: il Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza, cioè l’ente che coordina l’attività dei servizi segreti (SISMI e SISDE) in nome del presidente del consiglio.

Bugie di Pelosi
Gli interrogatori di Pino la Rana, a cominciare dal primo, la notte stessa del 2 novembre, sono pieni di bugie. Innanzitutto, il mistero dell’anello. Pelosi racconta agli inquirenti di aver perso, durante la colluttazione, un anello d’oro con una pietra rossa, due aquile e la scritta “United States Army”. Verrà poi accertato che quell’anello non poteva averlo perso in quel modo, ma poteva solo averlo lasciato di proposito sulla scena del delitto. Perché? Per farsi incastrare? O perché qualcuno aveva deciso di usare Pelosi prima come esca e poi come capro espiatorio, incastrandolo con l’anello?

Pasolini fu colpito violentemente non con un oggetto solo, ma con due bastoni, uno più lungo e uno più corto, e con due tavolette di legno. Pelosi descrive la colluttazione come una scena violentissima, in cui lui ha avuto infine la meglio. Risulta però difficile credere che un paletto di legno marcio abbia potuto provocare simili ferite e contusioni. Soprattutto risulta difficile capire come un ragazzo di 17 anni, magro e di corporatura esile, sia riuscito, da solo, a prevalere su un uomo alto, atletico, sportivo, esperto di arti marziali com’era Pasolini. Anche perché Pelosi non aveva sul corpo alcuna ferita di rilievo, e i suoi indumenti non presentavano alcuna traccia di sangue. Esame approfonditi di tutti i dati obiettivi (sopralluogo, interrogatori di Pelosi, reperti, bastone, tavola, vesti, lesioni di Pasolini), non solo smentiscono il racconto di Pelosi sulla dinamica di tutta l’aggressione, ma inducono soprattutto ad avanzare con fondatezza l’ipotesi che Pasolini sia stato vittima dell’aggressione di più persone. Pelosi non può aver fatto tutto da solo.

Rapidità del processo
Il caso Pasolini si risolve in pochissimi mesi. La sentenza di primo grado viene proclamata il 26 aprile 1976. Pino Pelosi viene dichiarato colpevole di omicidio volontario in concorso con ignoti e condannato a 9 anni, 7 mesi e 10 giorni di reclusione. Ma se il Tribunale dei Minori, presieduto dal giudice Alfredo Carlo Moro (fratello del presidente della DC Aldo Moro), ha contemplato il “concorso di ignoti”, nella sentenza di appello tale ipotesi verrà scartata e di fatto cancellata definitivamente dalla Cassazione nel 1979.

In ogni caso, l’impressione è che non solo gli inquirenti, ma anche i giudici avessero la stessa preoccupazione di chiudere in fretta il caso. Inoltre, sembra che il vero obiettivo del processo sia quello di fare di Pasolini un mostro, un omosessuale pervertito che corrompe e violenta i ragazzini. E per questo è stato usato Pelosi, che quindi pagherà per delle colpe non sue o almeno non del tutto; sarà il capro espiatorio utilizzato da dei mandanti e manovratori rimasti ignoti e impuniti.

Ritrattazione di Pelosi
Il 7 maggio 2005, però, c’è il colpo di scena: nel corso della trasmissione televisiva “Ombre sul giallo”, Pelosi rivela di non essere stato solo quella sera del 2 novembre 1975, come invece aveva sostenuto fin dal primo interrogatorio e sempre ribadito. Trent’anni dopo, confessa di non essere stato lui a uccidere Pasolini, ma tre uomini sulla quarantina che, con accento siciliano o calabrese, insultavano lo scrittore chiamandolo “sporco comunista”.

Perché, dunque, all’epoca ha mentito e si è accollato colpe non sue? Perché ha aspettato trent’anni per parlare? «Ero un ragazzino - dice Pelosi - avevo 17 anni. Avevo paura, perché quelli che hanno ucciso Pasolini mi hanno picchiato e hanno minacciato di morte me e la mia famiglia se avessi raccontato la verità». E allora perché raccontarla adesso la verità? Non ha più paura di fare la stessa fine del poeta? «Sono passati trent’anni, quelli che mi hanno minacciato e che hanno ammazzato Pasolini, saranno morti o comunque vecchi». Ma si tratta solo degli esecutori materiali del delitto. Chi è il mandante? Dopo le dichiarazioni di Pelosi nel 2005, l’inchiesta è stata riaperta, ma poi ancora una volta archiviata, in quanto secondo i giudici non vi erano nuovi elementi rilevanti per continuare.

Molte ipotesi sono state avanzate sul mandante o mandanti dell’omicidio di Pasolini. Da alcuni è stato ritenuto un omicidio politico, ma le motivazioni vere sono più complesse e pericolose. I mandanti sono plausibilmente molto in alto, e di essi si parla in un romanzo scritto da Pasolini stesso: Petrolio.

Possibili moventi: Petrolio, il caso Mattei e la pista Cefis
Nel 1972 Pasolini inizia a scrivere quello che può essere considerato il suo vero “romanzo delle stragi”: Petrolio, rimasto incompiuto e pubblicato postumo. E forse è proprio in Petrolio che si trova la chiave della sua morte, legata a un altro mistero italiano: la “strana” morte di Enrico Mattei. Pasolini era venuto in possesso di informazioni scottanti, riguardanti il coinvolgimento di Eugenio Cefis (morto nel 2004) nel caso Mattei. In Petrolio descrive la storia dell’Eni e in particolare quella del suo presidente Cefis, attraverso il personaggio inventato di Troya.

L’indagine del giudice Calia
Secondo il sostituto procuratore di Pavia, Vincenzo Calia, che ha indagato sul caso Mattei (depositando una sentenza di archiviazione nel 2003), le carte di Petrolio appaiono come fonti credibili di una storia vera del potere economico-politico e dei suoi legami con le varie fasi dello stragi italiane fasciste e di Stato. In particolare, nel 2002 Calia ha acquisito agli atti i frammenti su "L’Impero dei Troya" (da pagina 94 a pagina 118 di Petrolio) che dall’omicidio ipotizzato di Mattei guida al regime di Eugenio Cefis, ai “fondi neri”, alle stragi dal 1969 al 1980. Tra le altre cose, vi è anche una “profezia” della strage della stazione di Bologna.

Il giudice Calia ha messo agli atti anche il mancante “Lampi sull’Eni”, di cui ci rimane soltanto il titolo (sotto l’Appunto 21), essendo l’intero capitolo misteriosamente scomparso nel nulla, come altre 200 pagine del romanzo. Non è una mancanza da poco, se si considera che in “Lampi sull’Eni” doveva presumibilmente comparire il grosso della vicenda legata all’economia petrolifera italiana. Secondo la testimonianza di Guido Mazzon, cugino del poeta, il paragrafo mancante fu trafugato, e fu Graziella Chiarcossi, nipote ed erede di Pasolini, a dirglielo («sono venuti i ladri, hanno rubato della roba, gioielli e carte di Pier Paolo»). Di recente la Chiarcossi si è affrettata a smentire il tutto e ribadire, con singolare insistenza, che di Petrolio non manca una virgola. A chi credere?

Negli Appunti 20-30, “Storia del problema del petrolio e retroscena”, Pasolini arriva a fare direttamente i nomi di Mattei e di Cefis. Vi è, poi, un appunto del 1974, in cui Pasolini scrive che «in questo preciso momento storico, Troya (ovvero Cefis) sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti). Egli con la cricca politica ha bisogno di anticomunismo».

La fonte di Petrolio
Il giudice Calia ha scoperto un libro, che è la fonte di Pasolini, pubblicato nel 1972 da
un’agenzia giornalistica, Agenzia Milano Informazioni (Ami), a cura di un fittizio Giorgio Steimetz: Questo è Cefis. (L’altra faccia dell’onorato presidente). Si tratta di un pamphlet sulla vita, sul carattere e sulla carriera del successore di Mattei alla guida dell’Eni. Racconta alcuni passaggi biografici, da quando Cefis fu partigiano in Ossola (con alcuni risvolti poco chiari) alla rottura con Mattei nel 1962, mai perfettamente spiegata; dal rientro all’Eni al salto in Montedison. Pasolini ne riporta interi brani, ne fa la parafrasi, elenca le stesse società (petrolifere, metanifere, finanziarie, del legno, della plastica, della pubblicità e della comunicazione) più o meno collegate a Cefis, vi assegna acronimi o sigle d’invenzione, ad esempio la reale “Iniziative Partecipazioni Immobiliari” è trasfigurata in “Immobiliari e Partecipazioni”, “DA. MA” in “Am. Da”, “System-Italia” in “Pattern italiana”.

Non è facile individuare chi si celi dietro lo pseudonimo di Giorgio Steimetz, qualcuno ha supposto Corrado Ragozzino, titolare della stessa Agenzia Milano Informazioni, ma di certo si tratta di una persona ben inserita negli affari interni dell’Eni. Il suo libro è immediatamente sparito dalla circolazione e oggi non compare in nessuna biblioteca nazionale e in nessuna bibliografia.

Scrive lo stesso Steimetz: «Ridurre al silenzio, e con argomenti persuasivi, è uno dei tratti di ingegno più rimarchevoli del presidente dell’Eni». E Pasolini in Petrolio scriverà: «Non amava nessuna forma di pubblicità. Egli doveva, per la stessa natura del suo potere, restare in ombra. E infatti ci restava. Ogni possibile “fonte” d’informazione su di lui, era misteriosamente quanto sistematicamente fatta sparire».

Dietro l’agenzia Ami, che pubblicò solo quel titolo, c’era il senatore democristiano Graziano Verzotto, segretario regionale della Dc (corrente Rumor) ai tempi di Mattei, di cui fu amico personale, nonché presidente dell’Ente minerario siciliano, cui l’Eni di Cefis aveva impedito la costruzione di un metanodotto tra l’Africa e la Sicilia. Legami pericolosi, di cui Pasolini era ben conscio. Tetra coincidenza, Verzotto riuscì a sfuggire a un attentato nel 1975, e così affermò all’epoca il suo legale Ludovico Corrao: «Siamo convinti di trovarci al centro di una congiura spietata, con obiettivi di giustizia sommaria». Verzotto ha rilasciato a Calia una lunga deposizione, in cui per spiegare l’incidente aereo dell’ottobre 1962 esclude l’ipotesi delle “Sette Sorelle”, quella dei servizi segreti francesi e la pista algerina, arrivando ad asserire che colui al quale la morte di Mattei ha giovato di più, è il successore di Mattei stesso, Eugenio Cefis.

Come faceva lo scrittore, due anni dopo un' uscita così fulminante, a conoscere quel libro-fantasma, fino a farne la fonte del suo Petrolio? Si sa che Pasolini tanto fece che riuscì ad averlo, quel libro, come dimostra una lettera del 20 settembre 1974 inviatagli dallo psicoanalista Elvio Fachinelli, in cui si parla delle fotocopie del «libro (...) ritirato». Le fotocopie sono conservate tra le carte di Petrolio. Nell' archivio pasoliniano del Gabinetto Vieusseux, nella stessa cartella che contiene le fotocopie dello Steimetz, si trovano altri materiali preparatori del romanzo: articoli su Cefis pubblicati dalla rivista dello stesso Fachinelli, L' erba voglio; un «Discorso commentato di Eugenio Cefis all' Accademia militare di Modena», pronunciato il 23 febbraio 1972; i ciclostilati di altre conferenze dello stesso presidente, addirittura l' originale di una conferenza intitolata «Un caso interessante: la Montedison», tenuta l' 11 marzo ' 73, presso la Scuola di cultura cattolica di Vicenza, con annotazioni a margine (dello stesso Cefis) mai pronunciate. Infine, diversi ritagli di giornale sui «segreti dell' Eni». In uno degli appunti progettuali del romanzo (16 ottobre ' 74), Pasolini ci informa dell' intenzione di inserire nel libro il testo integrale dei discorsi di Cefis, che avrebbero dovuto fare da «cerniera» tra una prima e una seconda parte.

Pasolini era quindi venuto in possesso di documenti che provavano il coinvolgimento di Cefis nel caso Mattei e, prima di essere ucciso, stava per pubblicare il tutto nel romanzo Petrolio. Prima di lui, però, un giornalista del quotidiano L’Ora, che aveva iniziato a indagare sulla morte di Mattei, aveva fatto una brutta fine: Mauro De Mauro, che stava collaborando con il regista Francesco Rosi per il film Il caso Mattei. De Mauro venne eliminato quando ormai aveva scoperto la verità. Poco prima dell’incontro previsto con Rosi, infatti, il giornalista scomparve nel nulla il 16 settembre 1970. Stranamente, come Pelosi nel caso dell’omicidio di Pasolini, anche la figlia di De Mauro parlò di “due o tre uomini” che portarono via il padre nella loro macchina e che non lo vide mai più.

Si è spesso detto e ripetuto che Pasolini è stato ucciso perché era un intellettuale “scomodo”. Certo, e non solo per via delle sue critiche al sistema, bensì soprattutto per le sue accuse. Fondate, precise, documentate da prove reali di cui era venuto in possesso. Come scrisse sul Corriere della Sera un anno prima di morire, egli sapeva.

Pier Paolo Pasolini è stato ucciso per questo: perché probabilmente sapeva la verità sulla morte di Enrico Mattei. Sapeva chi erano i mandanti di quello che in seguito si rivelò non un incidente aereo ma un abbattimento in volo: venne certificato, infatti, che nell’aereo era stata inserita una bomba di 150 grammi di tritolo, che si attivò durante la fase iniziale di atterraggio, forse con l’apertura del carrello. Già all’epoca dei fatti, alcuni testimoni dichiararono di aver visto l’aereo esplodere in volo. Il testimone principale, il contadino Mario Ronchi, rilasciò alcune interviste agli organi di stampa e alla RAI (che ne censurò le affermazioni), ma in seguito ritrattò la sua testimonianza.

Ecco quanto scrisse Flavio Santi su Liberazione nella sua recensione al libro di Gianni D'Elia. Il petrolio delle Stragi. Postille a 'L'Eresia di Pasolini (Milano, Effigie, 2006): “Chi tocca Mattei muore. Perché scende nel cuore di tenebra dell’Italia, fatto di corruzioni, complicità politiche e industriali (da un appunto del Sismi, Cefis risulta il fondatore della Loggia P2), servizi segreti deviati, golpisti (Cefis fu indicato come finanziatore del fallito golpe Borghese del 1970), stragi di massa usate come strumento politico (in un discorso del 1986 a Salsomaggiore Amintore Fanfani, cui Cefis era legato profondamente, definì la morte di Mattei «il primo gesto terroristico nel nostro Paese»: ma da dove gli veniva tutta questa certezza, visto che solo dieci anni dopo, nel 1997, il pm Vincenzo Calia giunse alla conclusione dell’incidente doloso?). Se poi aggiungiamo che negli ultimi anni di vita Cefis si era interessato a società televisive (già in passato aveva tentato di scalare il Corriere della Sera, proprio negli anni in cui vi scriveva Pasolini...), e che una delle società accomandanti della Edilnord Centri Residenziali, già Edilnord s.a.s. del socio piduista Berlusconi, si chiamava Cefinvest... Semplici, per quanto inquietanti, casualità? [...] gli intellettuali, questo Paese che li detesta e li disprezza fino a ucciderli, a farsi carico della giustizia. Perché la porta della giustizia, come ricorda Walter Benjamin emblematicamente citato da D’Elia, è lo studio, la volontà di capire. E se i tribunali chiudono porte e indagini, non può e non deve tacere l’intelligenza dell’intellettuale e la sua ricerca della verità. Ma, come già sapevano gli antichi, la verità genera odio. Odio omicida, nel caso di Pasolini - come scrive D’Elia: «Pasolini con Petrolio ha scritto la critica dell’economia politica delle stragi in Italia, prefigurando il passaggio dal regime di Cefis (nell’ombra) al regime del Caf (Craxi- Andreotti- Forlani) e poi di Berlusconi.

Odio censorio e repressivo nel caso del libro di D’Elia, la cui recensione è stata “sconsigliata” nelle redazioni dei principali quotidiani nazionali (e sappiamo che ci sono mille modi, uno più subdolo dell’altro, per mettere a tacere una notizia). Come dire: Mattei, e quanto ne consegue, fa paura ancora oggi.

da Pasolini.net

Mai più soli


La Dichiarazione finale della II Conferenza mondiale di revisione della Convenzione di Ottawa si pone due obiettivi: più attenzione alle vittime delle mine e un mondo libero dal micidiale ordigno

Più attenzione e appoggio alle vittime delle mine antiuomo. Questo il cuore della Dichiarazione di Cartagena de Indias, dal nome della splendida cittadina colombiana affacciata sui Caraibi, che ha ospitato la II Conferenza mondiale di revisione del Trattato di Ottawa. Ognuno dei 156 stati firmatari dell'accordo, che mette al bando i micidiali ordigni, ha siglato il documento finale dopo 4 giorni di un summit che ha visto mea culpa, buone nuove, nuovi propositi e proposte shock.Al centro dei lavori, dunque, le storie di chi ha subito il dramma delle mine sulla propria pelle, e il grande difficile proposito di universalizzare quel Trattato nato nel 1997 e in vigore dal '99, ma che ancora vede fuori 39 paesi, tra cui Stati Uniti, Russia, Cina e Cuba. Di qui il mea culpa che ha serpeggiato in ogni dichiarazione uffiaciale. Nessuno si è tirato indietro nell'ammettere che la Convenzione non è stata capace di aiutare chi vive ogni giorno con questa minaccia di morte.
"Ribadiamo il nostro compromesso a porre fine alle sofferenze provocate dalle mine antiuomo e a fare del mondo un luogo libero da mine. Siamo convinti che ci riusciremo", recita il documento ufficiale. Buoni propositi, dunque, ma anche traguardi già raggiunti. Negli ultimi dieci anni sono state distrutti 42 milioni di ordigni, che equivalgono a 42 milioni di minacce di morte o mutilazioni in meno. Esempio concreto il Ruanda, primo Stato al mondo a essere stato liberato dalle mine. Dopo le centinaia di vittime cadute su questi micidiali ordigni nella guerra civile che lo ha martoriato tra il 1990 e il 1994, l'esercito di Kigali, settemila uomini addestrati a dovere e guidati da esperti sminatori, sembra aver compiuto la missione. A confermarlo è Ben Remfrey, del Mines Awareness Trust, che ha verificato il lavoro e conferito il primato.

Ma non ci sono solo successi. Oltre ai 39 Stati che ufficialmente intendono continuare a produrre, vendere e usare le mine, ci sono anche i gruppi guerriglieri. Guardando al 2008, a usare mine sono stati infatti l'esercito nazionale russo, quello birmano, le Tigri Tamil e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc). I guerriglieri, pur riconoscendo la pericolosità di bombe che colpiscono indistintamente militari e civili perché restano sotto terra e in balia del fato, rivendicano la necessità di usarle perché armi a basso costo.
"In guerra ci tocca applicare tutto quello che ci permette di difenderci. Quindi usiamo anche le mine. Le costruiamo da soli. Sono economiche. Sono l'arma dei poveri. Ed è anche vero che ogni tanto capita che qualche civile venga ferito. Ma si tratta sempre di incidenti. Certo non è molto etico, ma sbagliano le bombe intelligenti del ricco impero della guerra, può sbagliare un contadino-guerrigliero che deve difendersi per sopravvivere. E comunque, non si può generalizzare. Si devono analizzare i singoli contesti prima di giudicare. Noi raccogliamo sempre i nostri ordigni inesplosi. La nostra casa è la selva. Se ogni volta che abbiamo teso una trappola al nemico minando una zona avessimo lasciato le bombe inesplose, adesso saremmo in gabbia. E poi l'esplosivo costa, non possiamo permetterci di sprecarlo", aveva raccontato a PeaceReporter il capo Farc Pastor Alape.

E le mine continuano a uccidere. La Colombia ha ormai il record per maggior numero di vittime da mina antiuomo al mondo. E per questo è stata scelta per ospitare la Conferenza, la quale ha riservato la giornata di chiusura a toccare con mano cosa significhi trascorrere una vita minata, accompagnando i rappresentanti dei 156 paesi firmatari in una delle zone colombiane più colpite, il Bolivar, ma che vanta una zona che è appena stata completamente sminata.
Ma se le Farc non intendono cedere, un messaggio di speranza è arrivato dall'Esercito di liberazione nazionale, il secondo gruppo guerrigliero del paese, che si è impegnato a ridurne drasticamente l'uso.


Ad attirare l'attenzione, in mezzo a tanti interventi, è stata la proposta schok di Junaes, il popolare cantante ideatore del concertone Pace senza frontiere che da due anni si tiene nelle zone più calde del continente americano: prima al confine colombo-venezuelano e quest'anno a Cuba. "Chiedo alla guerriglia di deporre le armi e al governo di legalizzare la droga", ha gridato senza mezzi termini, spiegando lo stretto legame tra guerra e narcotraffico e sottolineando l'inutilità dell'uso della forza tra le parti.

"Riaffermiamo - conclude la Dichiarazione di Cartagena - che il nostro obiettivo è impedire, attraverso la bonifica di tutti i campi minati e la distruzione di ogni singola mina, che si debba contare un'altra sola vittima". Parole sante, già pronunciate però dieci anni fa, quando venne fissato appunto il 2009 come il limite massimo in cui varcare il traguardo finale, che è ancora così tanto lontano.

IL DOSSIER DI PEACEREPORTER. Verso un mondo senza mine
di Stella Spinelli da PeaceReporter

GUATEMALA - Un colpevole per i massacri dei maya


L’assassinio di donne, bambini e uomini indigeni disarmati, la distruzione di case, coltivazioni e allevamenti e i bombardamenti indiscriminati sui campi di rifugiati, avvenuti in Guatemala all’inizio degli anni ottanta, furono ordinati direttamente dal presidente de facto Ríos Montt. È quanto emerge dai documenti militari resi pubblici dall’istituto di ricerca indipendente National security archive (Nsa), della George Washington University.Il documento, che finora era stato tenuto segreto dal governo guatemalteco, è stato presentato il 2 dicembre da Kate Doyle, la direttrice del Proyecto Guatemala dell’Nsa, di fronte all’Audiencia nacional, il tribunale spagnolo che ha messo sotto processo Montt e altri ex funzionari governativi con l’accusa di genocidio.

Tra il 1960 e il 1996, più di 200mila guatemaltechi furono assassinati e molti altri fatti sparire nell’ambito dell’Operación Sofía, l’operazione antiguerriglia portata avanti dall’esercito. Il periodo di maggiore violenza è stato quello del biennio 1982-83, quando i militari sterminarono circa 440 comunità maya.

I documenti pubblicati, che includono mappe, piani operativi, comunicazioni tra gli ufficiali e rapporti sugli esiti delle operazioni, disegnano, secondo Doyle, “un quadro molto chiaro. Emerge chiaramente la volontà di causare danno e sofferenza alle comunità indigene, così come il fatto che gli ordini provenivano dai vertici militari e politici. L’esercito considerava le comunità indigene come nemici da annientare nell’ambito della lotta al comunismo”.

da Internazionale

Obama mette l'elmetto

di Pietro Ancona
Fa impressione e paura lo spettacolo del Presidente degli USA, la nazione che si proclama custode della libertà e della democrazia, annunziare non al Congresso ma ad una platea di militari plaudenti della famosa accademia di West Point, l'invio di altri trentamila soldati in Afghanistan. Mi ha ricordato Cesare che parla alle sue legioni ignorando e disprezzando il Senato. Fa anche impressione la naturalezza con la quale la notizia viene accolta in tutto l'Occidente anche dai più riottosi ad inviare nuovi militari come la Francia e laGermania e da chi si dichiara subito disponibile a contribuire all'armata come il pavido cinico e cortigiano governo italiano. Le anime belle della "sinistra" che, dopo Berlinguer, si sentono al sicuro sotto l'ombrello Nato, magari troveranno in questa decisione di rinfocolamento della guerra una via con la quale il loro Obama che adorano troverà la pace!!! Il Congresso USA si limiterà a prendere atto della decisione presidenziale ed a riguardare la questione sotto l'aspetto finanziario.Occorrono trenta miliardi di dollari per il 2010 ma questo non è un problema per il paese che fornisce la moneta delle transazioni internazionali. Inoltre potrà vendere alla Cina o ad altri i suoi buoni del tesoro ed accrescere a dismisura il suo indebitamento estero che cresce assieme alla espansione delle sue basi militari e delle sue armate navali che si pavoneggiano in tutti i mari ed oceani del mondo.

Non esistono motivazioni accettabili per questa decisione di Obama o piuttosto dei suoi militari e delle multinazionali delle armi. InAfghanistan sono presenti attualmente 68 mila soldati americani e 40 mila soldati Nato. Non sappiamo quanti ma certamente sono moltissimi i contractors con funzioni di killeraggio. Non sappiamo quanti civili con funzioni di spionaggio. Una massa militare e paramilitare enorme contro una popolazione armata soltanto di mine rudimentali e vecchi fucili kalascikov. Otto anni di stragi che hanno prodotto centinaia di migliaia di morti e non si sa quante diecine di migliaia di mutilati, intossicati, malati e tutto il terribile corteo di sventure di malattie che accompagna sempre la guerra. Milioni di sfollati vagano come pazzi da un posto all'altro inseguiti dai bombardamenti.

La ricerca di BinLaden e dei covi di AlQaeda non sembra abbia dato risultati nonostante il supertecnologico apparato di aerei e di mezzi. Magari perchè Bin Laden non esiste ed AlQaeda ed il terrorismo sono soltanto una invenzione degli invasori. I talebani sono patrioti che si battono contro un nemico invasore ed il suo giuda corrotto insediato al governo con brogli universalmente riconosciuti da che non costituiscono remora agli ipocriti cavalieri dei "diritti umani" e della democrazia pronti a fare incendiare l'Iran per una presunta questione di falsi elettorali. Dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi gli USA sono sempre stati in guerra con qualcuno.

Non riescono a stare in pace con nessuno tranne con coloro che si omologono completamente al loro stile di vita o subiscono le loro prepotenze economiche. Sono un pericolo per l'umanità dal momento che non riescono a fermarsi ed a essere una forza di giustizia e di pace mondiale. Tutti i loro piani sono di destabilizzazione delle culture diverse da quella americana. Fomentano il mondo contro la Cina per staccare da questa il Tibet. Hanno avvelenato le Olimpiadi con una massiccia campagna propagandistica a favore del Dalai Lama. Sono riusciti con la tecnica delle "rivoluzioni colorate" a creare situazioni di provocazione attorno alla Russia ed a criminalizzare i regimi dove non sono riusciti nel loro scopo.

Mi auguro la rinascita del movimento per la pace, qualcosa che ci possa cancellare da dosso
agli occhi dei popoli aggrediti l'immagine di assassini a sangue freddo, di massacratori. Se non succederà niente, se non ci saranno manifestazioni e proteste contro la Guerra, saremo tutti complici di Obama e dei suoi generali nazisti e criminali.

Fonte: http://andreainforma.blogspot.com/2009/12/obama-mette-lelmetto.html