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domenica 3 gennaio 2010

Regionali: ecco il prezzo dell'Udc in termini programmatici e di poltrone

L'Udc chiede l'esclusione di sinistra, radicali e moderati + tre assessorati (compresa la vicepresidenza), tre posti nel listino e una carica all’interno dell’ufficio di presidenza del Consiglio regionale.
E' questo quanto richiesto dall'Udc al Partito Democratico del Piemonte per fermare l'avanzata a Nord della Lega.
Stessi ragionamenti sentiamo anche noi in Puglia.

Nonostante in Calabria, in Campania e in Lazio l'Udc si allei con il Pdl, in Puglia ci si ostina a contrapporre a Vendola l'alleanza per il Sud.
Oggi Antonio di Pietro ha sparpagliato le acque come suo solito ed ha svelato il gioco: il Pd non utilizzi l'Idv come alibi per contrapporre veti a Nichi Vendola.
I segretari nazionali dei partiti, i dirigenti regionali e i parlamentari pugliesi che lunedì 4 gennaio si debbono incontrare per decidere il futuro della nostra regione e della nostra gente adesso sono avvertiti di quale sia la richiesta dell'Udc.

Ci segnalano che all’incontro dovrebbero partecipare oltre Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, anche il segretario regionale Sergio Blasi, Michele Emiliano, il capogruppo regionale Antonio Maniglio e i parlamentari Ludovico Vico e Alberto Maritati. Molto probabile anche la presenza del senatore Nicola Latorre.

Non deve essere facile per quelli del Pd piemontese trattare con gli uomini di Pierferdinando Casini proprio nel giorno in cui il loro vicesegretario nazionale, Enrico Letta, spiega la necessità di un accordo ampio con l’Udc con il fatto che se «fossero andati dall’altra parte sarebbe stato serio il rischio di perdere». Una situazione che il segretario subalpino, Gianfranco Morgando, ha fatto di tutto per scongiurare conoscendo perfettamente la possibilità di pagare un prezzo in termini programmatici e di poltrone. E il 31 dicembre il conto è arrivato. Salato, salatissimo.
Il Letta/pensiero, infatti, è servito ad Alberto Goffi, segretario piemontese dei centristi, per chiedere ai dirigenti democratici e alla presidente della Regione, Mercedes Bresso, un adeguato riconoscimento politico.
Affermazione che tradotta nel linguaggio comune significa tre assessorati (compresa la vicepresidenza), tre posti nel listino e una carica all’interno dell’ufficio di presidenza del Consiglio regionale.

E poi ci sono le richieste sulla scelta dei futuri compagni di strada: rottura con la sinistra e forti perplessità su un’eventuale presenza dei radicali e anche dei Moderati all’interno della coalizione.

Centrale, comunque, resta la richiesta delle sette poltrone in grado di garantire spazio e potere anche a quelle che un tempo erano le Province bianche del Piemonte. Il problema di Goffi e del presidente vicario del gruppo alla Camera, Michele Vietti, infatti è di motivare i quadri del partito fuori dalla provincia di Torino. E se l’obiettivo politico - evitare di consegnare il Nord alla Lega - può essere condiviso da tutto il partito per ottenerlo è necessario che interessi dei cuneesi e delle altre realtà dove la scelta dell’Udc di correre da sola alle provinciali ha spinto i centristi all’opposizione, siano rappresentanti nel Palazzo.

MAURIZIO TROPEANO da LaStampa

ASCANIO CELESTINI - PONZIO PILATO

In Italia cresce la disuguaglianza sociale


La crisi ha accresciuto le disuguaglianze e ci consegna un Paese spaccato in due: i ricchi sono rimasti ricchi, ma i poveri sono ancora più poveri. Il ceto medio progressivamente si sta impoverendo avvicinandosi alle tante famiglie che hanno difficoltà ad arrivare a fine mese. È la fotografia che emerge dall'anticipazione del Rapporto Ires-Cgil su salari, fisco e produttività 2009, che sarà presentato entro gennaio, nel quale si conferma la crescita zero delle retribuzioni.

A preoccupare ulteriormente, la stima dell'istituto di una contrazione pari allo 0,5% del reddito disponibile delle famiglie in termini reali, che al sud si traduce in un -0,8%. Un quadro, questo, che porta la Cgil a proporre un'imposta di solidarietà sulle grandi ricchezze: un prelievo aggiuntivo su quel 10% di famiglie che detiene una ricchezza complessiva in media trenta volte superiore alla famiglia media italiana con un patrimonio mobiliare e immobiliare oltre 800 mila euro.

I nuovi dati sulla ricchezza netta delle famiglie di Bankitalia «su cui abbiamo svolto alcuni elaborazioni - spiega il segretario confederale, Agostino Megale - illustrano come, a fronte di un generale abbattimento del reddito, la vera ricchezza rimane nella mani di pochi: solo 2.380.000 famiglie italiane (il 10% del totale), infatti, posseggono il 44,5% della ricchezza netta complessiva, che ammonta a 3.686 miliardi (su un totale di 8.284 miliardi), che vuol dire 1.547.750 euro per ogni famiglia di quel 10% più ricco.

Mentre il 50% delle famiglie italiane (le più povere) che, sempre per Bankitalia, detengono appena il 9,8% della ricchezza netta complessiva, sono 11.908.000 e posseggono mediamente 68.171 euro». «La distanza (circa 1.480.000 euro) tra le famiglie più ricche e quelle più povere - aggiunge - è palese, soprattutto se consideriamo che questa distanza contribuisce ad alzare la media »di Trilussa«, che si attesta a 137.956 euro di ricchezza netta familiare. La distanza tra questa media e la ricchezza detenuta dalle famiglie più ricche (10%) è di circa 1.200.000 euro, mentre la forbice con le famiglie più povere è di quasi 280 mila euro.

Megale sottolinea le difficoltà di una famiglia su quattro ad arrivare a fine mese. «Il tutto - rileva - sapendo che quelle a rischio povertà sono 2 milioni 737 mila e rappresentano l'11,3% delle famiglie residenti (nel complesso sono 8 milioni i poveri, il 13,6%). «Nel 2008, la ricchezza delle famiglie italiane (evidentemente soprattutto quella delle più ricche) risulta complessivamente 7,6 volte superiore al reddito disponibile.

L'imposta di solidarietà sulle grandi ricchezze dovrebbe agire sul patrimonio mobiliare e immobiliare oltre gli 800mila euro. »
L'hanno già fatto in passato i Paesi scandinavi e il Regno Unito. Recentemente l'ha reintrodotta anche la Francia, con l'imposta di solidarietà sulle grandi fortune«, ricorda Megale, secondo il quale una misura di questo tipo in Italia potrebbe comportare entrate aggiuntive per oltre 6 miliardi di euro che, combinate con una vera ed efficace lotta all'evasione (ripristinando le norme sulla tracciabilità), all'armonizzazione della tassazione sulle rendite (20%), alla tassazione sulle transazioni finanziarie internazionali, possono far recuperare 19 miliardi di euro di gettito.

da Indymedia

Contro la mafia. Nonostante il governo

di Pietro Orsatti su Terra
Un anno particolare per la lotta alla mafia quello appena trascorso. Un anno di grandi successi della magistratura e delle forze di polizia e dei carabinieri che hanno condotto, in particolare in Sicilia negli ultimi mesi, a un numero impressionante di arresti “eccellenti” di latitanti di rango quali Baglisi, Raccuglia, Nicchi e Fidanzati.
Alcuni di loro boss locali di peso, altri capi in ascesa ai vertici di Cosa nostra come Domenico Raccuglia, detto il “veterinario”.
«La migliore stagione di contrasto alla mafia che sia stata vissuta in Italia – ha dichiarato prima di Natale il ministro dell’Interno Maroni -. A indicarlo sono in numeri: in questi ultimi 14 mesi sono state svolte 309 operazioni di polizia giudiziaria contro i clan (+35% rispetto ai 14 mesi precedenti), sono state arrestate 3.315 persone (+32%) e 235 latitanti (+78%)». Successi, però, non tanto per l’azione del governo, quanto per la cocciutaggine di magistrati e forze di polizia che hanno proseguito l’azione di contrasto alla criminalità nonostante le difficoltà. Anche se poi il governo ha rivendicato un proprio ruolo di «guida e indirizzo», di «antimafia dei fatti» in contrapposizione all’«antimafia delle parole ». «Non scherziamo, siamo davanti a successi ottenuti nonostante i tagli sulle risorse alle forze di polizia, gli straordinari non pagati da anni, i continui attacchi mirati a criminalizzare i magistrati, e nonostante i tanti provvedimenti che ne hanno limitato gravemente l’efficienza come nel caso delle intercettazioni telefoniche, delle nuove regole per lo scioglimento dei Comuni, e non ultimo il provvedimento inserito in Finanziaria sulla vendita dei beni confiscati», dichiara a Terra Anna Garavini, capogruppo del Pd nella commissione parlamentare Antimafia.
«Il nostro giudizio politico è molto severo – prosegue la parlamentare -. Perché questo governo, al di là di quelle che sono state le dichiarazioni propagandistiche, sotto il piano legislativo sta facendo dei grossissimi favori alla mafia. Sta cercando di smantellare da un lato le forze dell’ordine e dall’altro la magistratura che sono invece i veri protagonisti degli ultimi successi. Sappiamo molto bene che la lotta alla mafia non si può fare solo con la repressione del fenomeno, ed è un errore clamoroso limitarsi a questo. E per di più gli attacchi continui alla magistratura a lungo andare ne depotenzieranno la capacità di far fronte anche soltanto all’ala cosiddetta militare della criminalità organizzata. Ormai le mafie si sono infiltrate e hanno investito in ambiti paralegali e legali dell’economia e della finanza, condizionano politiche e appalti, determino spesso la
sopravvivenza o meno di un’azienda».

E mentre si festeggiano i 95 miliardi di euro rientrati grazie allo scudo fiscale, pochi dicono che fra quell’enorme quantità di denaro probabilmente ci sono molti miliardi di soldi appartenenti alle mafie che rientrano “ripuliti” con un costo ben inferiore di quello usuale per riciclarli (il 5% invece che il solito 15-20%). Insomma, anche lo scudo è stato un bell’aiuto all’impresa mafia che, nonostante un’evidente crisi militare, continua a rappresentare un terzo del Pil grazie alle imprese infiltrate o direttamente collegate alla crimine spa e che detiene circa il 30 cento della liquidità nel nostro Paese.

Ma torniamo agli ultimi successi nella lotta all’ala militare, in questo caso di Cosa nostra. La cattura di Bernardo Provenzano a Montagna dei Cavalli, condotta dalla squadra Catturandi della mobile di Palermo, ha rappresentato uno spartiacque. Sia per la rilevanza del personaggio criminale sia per il numero e l’importanza dei documenti (i famosi “pizzini”) che furono trovati in seguito al suo arresto. Ma questa cattura non è, ovviamente, uno spartiacque solo per Cosa nostra. Succede qualcosa anche all’interno delle forze dello Stato che in pochi mesi, fra l’operazione “Gotha”, la cattura dei Lo Piccolo e quella di Provenzano, avevano messo a segno un’impressionante serie di successi, impedendo di fatto anche l’esplosione di una guerra di mafia causata dalle ambizioni egemoniche del clan Lo Piccolo. Succede che si interrompe l’azione in particolare della Catturandi, che a partire dall’arresto di Giovanni Brusca dieci anni prima, aveva avuto un ruolo fondamentale nella lotta alla mafia e nella cattura dei latitanti. Il modello Catturandi, ormai, era rodato. Veniva perfino esportato in altre regioni d’Italia, in particolare in Calabria e Campania, ma la Catturandi originale veniva messa da parte, le indagini sugli altri latitanti di peso nel palermitano affidate ai carabinieri. Per tre anni. Perché l’azione di indagine viene delegata ad altri, perché non vi sono più soldi. Se si pensa che un latitante “medio” spende alcune decine di migliaia di euro a settimana per garantirsi la latitanza, è ovvio che per prenderlo bisogna quantomeno mettere in campo risorse uguali se non maggiori. Agli uomini della Catturandi, invece, non sono stati pagati, se non parzialmente, gli straordinari e le missioni della cattura dei Lo Piccolo del 2006. Da questa constatazione è facile capire che le catture dei tre latitanti di spicco nel palermitano negli ultimi mesi, Domenico Raccuglia, Gianni Nicchi e Gaetano Fidanzati, non sono state il frutto di uno sforzo estremo del governo, ma di una sorta di scatto morale di alcuni magistrati e di alcuni reparti della polizia, Catturandi in primis.

Successivamente, proprio alla vigilia del nuovo anno e dopo la battuta del premier Silvio Berlusconi su una promessa di sconfiggere la mafia entro la fine del suo mandato, arriva la dichiarazione di guerra di Roberto Maroni, con tanto di un programma speciale di lotta ala crimine organizzato per «debellarlo» definitivamente dal nostro Paese e dalla nostra società. Con tanto di benedizione di Roberto Saviano che ha dichiarato: «Roberto Maroni? Sul fronte antimafia è uno dei migliori ministri dell’Interno di sempre». Dimenticando, Saviano, dei tagli ai fondi della polizia, dimenticando lo spostamento (centinaia di milioni di euro) di risorse alle cosiddette “ronde”, dimenticando anche la devastante politica di gestione sia dei testimoni di giustizia che, oggi, anche dei pentiti da parte del suo sottosegretario Alfredo Mantovano. Ormai le vicende dei testimoni quali Ulisse, Pino Masciari e Piera Aiello, in pratica abbandonati dallo Stato o in fuga da esso vista l’assenza di una politica di protezione coerente con le necessità umane, affettive e lavorative dei teste a rischio, sono sulla bocca di tutti.

Ma Mantovano, che gestisce da anni il settore testimoni e pentiti (praticamente in tutti i governi Berlusconi) e presiede la commissione che gestisce i programmi di protezione, ha raggiunto l’apice durante e dopo le dichiarazioni del collaboratore Gaspare Spatuzza nel processo Dell’Utri, mettendo in dubbio pubblicamente la sua testimonianza e la correttezza della magistratura (entrambi giudizi che non spettano a lui e soprattutto che paventano un suo parere negativo alla richiesta dell’applicazione di un programma di protezione per il pentito). «Una posizione e dichiarazioni gravissime – spiega Anna Garavini -. Per questo in commissione Antimafia abbiamo chiesto e ottenuto con urgenza una sua audizione a gennaio. Sia per i toni sia per le implicazioni che avrebbero, e forse hanno già avuto, le sue dichiarazioni». Saviano dimentica molto e cerca la battuta a effetto anche in questo caso. Mantovano è uomo (e di fiducia) di Maroni, sul contrasto alle mafie ha un ruolo determinante. E quindi Saviano, alla luce dei fatti e non delle ipotesi, ha di nuovo sottovalutato il peso che, dopo il grande successo mediatico del suo libro e della sua figura, ottiene ogni sua battuta. Anche per le molte cose dette con leggerezza e superficialità quest’anno di lotta alla mafia è stato un anno particolare.

da AntimafiaDuemila

Italia, farsa o tragedia?

Quest’anno Berlusconi ha dato molto lavoro ai giornalisti, dai suoi battibecchi con la moglie a quelli con i giudici. È possibile che stia in realtà cercando di far tacere i giornalisti? Se lo chiede il mensile Foreign Policy, che ricostruisce anche un anno di gaffes del premier italiano.

“Il presidente del consiglio italiano ha da tempo una reputazione di politico carismatico e irriverente, noto per il suo gusto per l’eccesso, le sue gaffes e l’amore per la dolce vita. Ma nel 2009 il suo comportamento si è tramutato in farsa”, scrive Foreign Policy.

“Berlusconi è stato coinvolto in storie di sesso e corruzione, diventando ridicolo anche per i suoi standard da opera buffa. Ci sono un mafioso, delle prostitute e delle ragazzine, foto imbarazzanti e forse delle orge. Ma molti segnali lasciano prevedere un peggioramento del rapporto simbiotico con i mezzi d’informazione, suggerendo che la farsa potrebbe diventare una tragedia”.

da Internazionale