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domenica 30 agosto 2009

Al via la campagna di Sinistra e Libertà per la scuola pubblica, di qualità, per tutti.

Mentre negli altri paesi i governi affrontano la crisi investendo sul sapere e sulla conoscenza, il governo italiano, il ministro dell’economia e la donna di denari Gelmini sanno solo tagliare: tagliare fondi, tagliare insegnanti, tagliare cattedre. Tagliare il futuro alle ragazze e ai ragazzi italiani.
Sinistra e Libertà, invece, ritiene che l’investimento sul futuro è l’investimento nella scuola, nell’istruzione, nella ricerca, nel sapere. Ed allora lancia una grande campagna di mobilitazione in sostegno della scuola pubblica, di qualità, per tutti.

Nell’ambito della campagna sulla scuola pubblica chiamata “Donna di denari” sul sito di SeL sono stati predisposti una serie di strumenti pronti per l’uso. Per poter dare corpo all’iniziativa è sufficiente scaricarsi i PDF che trovate QUI

Salento: incendiate tre auto al sindaco di Presicce

PRESICCE - Un incendio la cui origine non è stata ancora chiarita ha danneggiato la notte scorsa a Presicce tre automobili parcheggiate per strada e appartenenti al sindaco della cittadina, Leonardo La Puma, a sua moglie e alla figlia.Le fiamme, propagatesi da una vettura all’altra, hanno anche danneggiato lo stabile in cui abita la famiglia. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco che hanno spento l’incendio e stanno compiendo accertamenti per verificarne l’eventuale origine dolosa. Indagini sono condotte da polizia e carabinieri.

Torino, svastiche e minacce al campo rom: «Via o vi bruciamo» ·

TORINO 28/08/2009 - Non sarebbe un gruppo di balordi ma una vera e propria gang organizzata di naziskin quella che nella tarda serata di mercoledì ha affisso in strada dell’Aeroporto un lenzuolo-striscione di minacce xenofobe. “Adesso basta. Un’altra spaccata e vi bruciamo il campo”, una scritta condita da una serie inequivocabile di simboli: svastiche naziste. Ora, sulla vicenda sta indagando la Digos che, a quanto trapela, non sottovaluterebbe l’azione dimostrativa. Verosimilmente, si pensa che lo striscione se da un lato rappresenta un violento avvertimento, dall’altro è l’inequivocabile segno di una presenza eversiva che già in passato aveva dato i primi segni di preoccupante vivacità.

Dunque, sembra da escludere che l’azione dimostrativa sia opera di residenti o commercianti della zona esasperati dalla presenza ingombrante degli zingari. Ma l’opera, piuttosto, un piccolo gruppo di fanatici che cerca in ogni modo di cavalcare la protesta per ottenere consenso e magari arruolare qualche nuovo adepto. Difficile dire chi siano i naziskin, se la gang sia radicata nel quartiere o meno. Certo è che la loro presenza e le loro azioni minacciose altro non fanno che rendere ancor più incandescente la situazione.

«Se la sono andata a cercare, ma noi non c’entriamo niente» dicono oggi i commercianti di Barriera di Milano, in attesa di riunirsi per decidere quali iniziative attivare per proteggere bar e negozi dalle spaccate. Qualcuno, commentando l’ultima settimana di razzie, aveva timidamente citato un precedente abbastanza noto. Quello dell’assalto e del rogo al campo Rom di Ponticelli, Napoli, del maggio 2008: i residenti del quartiere sospettavano che dietro il rapimento di un bambino ci fosse una giovane nomade dell’accampamento, incendiato poche notti dopo.

«Potrebbe succedere tranquillamente anche qui - dicevano pochi giorni fa i commercianti di Barriera di Milano -. Prima o poi, se non faranno qualcosa le forze dell’ordine, ci penseranno i cittadini».

Che la rivolta di Ponticelli possa avere ispirato qualche testa calda non è solo un’ipotesi. «C’è chi non ha usato mezzi termini per rabbia o per esasperazione - dicono ancora dalle parti di via Mercadante -, non è una cosa da poco essere continuamente presi di mira per poche centinaia o migliaia di euro ogni volta. Siamo tutti a rischio chiusura, se continuano questi furti. Tra assicurazioni, danni che dobbiamo riparare in proprio e risarcimenti ci stanno mettendo sul lastrico».

da: www.cronacaqui.it e Antifa

Muore Virgilio Savona del Quartetto Cetra




È morto giovedì 27 agosto sera a Milano a 89 anni Virgilio Savona, uno dei componenti del celebre Quartetto Cetra. Era nato il 1 gennaio 1920 a Palermo, fu musicista e autore di un quartetto musicale molto popolare negli anni '50 e '60 anche grazie alle loro partecipazioni televisive. Oltre 1000 canzoni tra le più celebri "Aveva un bavero", "Nella vecchia fattoria". L'artista si è spento all'ospedale San Giuseppe di Milano dove era stato ricoverato, malato di Parkinson, per complicazioni dovute anche all'età.

Con lui, fino alla fine, Lucia Mannucci, compagna di una vita e voce femminile del Quartetto. Con Savona, si è spenta la terza voce dei Cetra: nel 1988 era scomparso Tata Giacobetti e nel 1990 Felice Chiusano. Tra le sue composizioni, merita un particolare ricordo l'album «Sex et politica» del 1970 con brani scritti per Giorgio Gaber che riprendevano versi di poesie ed elegie latine, tra cui opere di Ovidio e Catullo.

«Uno dei grandi protagonisti storici della musica e della cultura italiane», così il Club Tenco saluta Virgilio Savona al quale nel 1994 assegnò il Premio Tenco, come operatore culturale. «Ma la sua figura era talmente complessa e variegata che nel 2004 - ricorda il Club - gli fu dedicata l'intera 'Rassegna della canzone d'autore': tutti gli artisti partecipanti eseguirono sue canzoni e ne fu tratto un disco, significativamente intitolato 'Seguendo Virgilio'; mentre i vari aspetti della sua attività furono oggetto di un convegno di due giorni, dal quale venne ricavato un libro con lo stesso titolo».

da L'Unità

[1972]
Testo e musica di Anton Virgilio Savona
Album: E' lunga la strada
Paroles et musique: Anton Virgilio Savona
Album: E' lunga la strada

Dall'album intitolato “E' lunga la strada” del 1972.
Testo tratto dal libretto che accompagna il cd “Seguendo Virgilio – Dentro e fuori il Quartetto Cetra”, Ala Bianca Group/I dischi del Club Tenco, 2005. Nel disco di tributo ad A.V. Savona il brano è eseguito da Alessio Lega e Mariposa.

La canzone è preceduta da questa breve introduzione:

“Intorno al 1730, Giovanni Meslier*, parroco di un paese di Champagne, si lasciò morire di fame esaperato dal fatto di non essere riuscito ad ottenere giustizia in una lite contro un potente. Lasciò i suoi beni ai parrocchiani e scrisse in tre esemplari un testamento politico e religioso: il testamento del parroco Meslier.”

Il testamento del parroco Meslier

Avete sul collo fardelli pesanti
di prìncipi, preti, tiranni
e governanti;
di nobili, monaci, monache e frati,
di “guardie di sali e tabacchi”
e magistrati.
Avete sul collo i potenti e i guerrieri,
gli inetti, gli inutili e i furbi,
e i gabellieri,
i ricchi che rubano per ingrassare
lasciando che il popolo intanto
resti a crepare.

Abbatete
i ricchi condottieri
e i prìncipi!
Sono loro,
non quelli degli inferni,
i diavoli!

Vermi che lasciano al contadino
soltanto la paglia del grano
e la feccia del vino.
Teorizzano pace, bontà e fratellanza
e poi legalizzano i troni
e l'ineguaglianza.
Hanno inventato il Dio dei potenti
per addormentare e piegare
i corpi e le menti
Hanno inventato i demoni e gli inferni
per far tremare e tacere
poveri e inermi.

Abbattete
i ricchi condottieri
e i prìncipi!
Sono loro,
non quelli degli inferni,
i diavoli!

Non sono i demoni dell'intera corte
i vostri peggiori nemici,
dopo la morte,
ma sono coloro che alzano le dita
annientano e fanno marcire
la vostra vita!
E se vi unirete potrete fermarli
usando budella di prete
per impiccarli;
così non sarete più schiavi di loro
ma infine padroni dei frutti
del vostro lavoro!

Abbatete
i ricchi condottieri
e i prìncipi!
Sono loro,
non quelli degli inferni,
i diavoli!

Muore Elvira Sabbatini Paladini direttrice del Museo Storico della Liberazione


È deceduta a Roma all’età di 88 anni Elvira Sabbatini Paladini, a lungo direttrice del museo storico della Liberazione di via Tasso. Moglie di Arrigo Paladini, partigiano torturato in quella che fu la sede della Gestapo a Roma durante l’occupazione nazista. Elvira Sabbatini Paladini ha guidato per anni migliaia di persone nel museo, unico, insieme con la Risiera di San Saba rimasto com’era ai tempi del nazifascismo.
I funerali si svolgeranno lunedi’ alle 11 nella chiesa dei Santi Angeli Custodi, nella Capitale. Una donna “appassionata e testimone diretta degli orrori e delle speranze di cui e’ stato teatro l’ex carcere delle SS di via Tasso, uno dei simboli della nostra Resistenza”, ha voluto sottolineare in una nota il presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo. Esprimendo il suo cordoglio a familiari e parenti, Marrazzo ha ricordato come “grazie a Elvira Paladini intere generazioni, e soprattutto giovani cittadini, hanno potuto emozionarsi tra le mura del Museo storico della Liberazione di via Tasso”. Nel ricordare questa “donna straordinaria”, il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, ha sottolineato come Elvira Paladini abbia “rappresentato un esempio da seguire e permesso al Museo della Liberazione di diventare un luogo fondamentale per la nostra memoria e un patrimonio di Roma e dell’Italia”. Un “sentito grazie” alla memoria storica di Elvira Paladini e’ arrivato dall’assessore alle Politiche Culturali del Comune di Roma, Umberto Croppi: “La sua memoria storica -ha osservato in una nota- ha aiutato le nuove generazioni, non solo a non dimenticare ma ad impegnarsi per costruire un futuro di pace nel rispetto di culture ed etnie diverse”.

da Reset-Italia

La Rai rifiuta il trailer di Videocracy - "E' un film che critica il governo"

Anche da Mediaset no allo spot del film che racconta l'ascesa delle tv di Berlusconi
La tv di Stato esigeva un contraddittorio per rispettare il pluralismo


ROMA - Nelle televisioni italiane è vietato parlare di tv, vietato dire che c'è una connessione tra il capo del governo e quello che si vede sul piccolo schermo. La Rai ha rifiutato il trailer di Videocracy il film di Erik Gandini che ricostruisce i trent'anni di crescita dei canali Mediaset e del nostro sistema televisivo.
"Come sempre abbiamo mandato i trailer all'AnicaAgis che gestisce gli spazi che la Rai dedica alla promozione del cinema. La risposta è stata che la Rai non avrebbe mai trasmesso i nostri spot perché secondo loro, parrà surreale, si tratta di un messaggio politico, non di un film", dice Domenico Procacci della Fandango che distribuisce il film. Netto rifiuto anche da parte di Mediaset, in questo caso con una comunicazione verbale da Publitalia. "Ci hanno detto che secondo loro film e trailer sono un attacco al sistema tv commerciale, quindi non ritenevano opportuno mandarlo in onda proprio sulle reti Mediaset".

A lasciare perplessi i distributori di Fandango e il regista sono infatti proprio le motivazioni della Rai. Con una lettera in stile legal-burocratese, la tv di Stato spiega che, anche se non siamo in periodo di campagna elettorale, il pluralismo alla Rai è sacro e se nello spot di un film si ravvisa un critica ad una parte politica ci vuole un immediato contraddittorio e dunque deve essere seguito dal messaggio di un film di segno opposto.

"Una delle motivazioni che mi ha colpito di più è quella in cui si dice che lo spot veicola un "inequivocabile messaggio politico di critica al governo" perché proietta alcune scritte con i dati che riguardano il paese alternate ad immagini di Berlusconi", prosegue Procacci "ma quei dati sono statistiche ufficiali, che sò "l'Italia è al 67mo posto nelle pari opportunità"".

A preoccupare la Rai sembra essere questo dato mostrato nel film: "L'80% degli italiani utilizza la tv come principale fonte di informazione". Dice la lettera di censura dello spot: "Attraverso il collegamento tra la titolarità del capo del governo rispetto alla principale società radiotelevisiva privata", non solo viene riproposta la questione del conflitto di interessi, ma, guarda caso, si potrebbe pensare che "attraverso la tv il governo potrebbe orientare subliminalmente le convinzioni dei cittadini influenzandole a proprio favore ed assicurandosene il consenso". "Mi pare chiaro che in Rai Videocracy è visto come un attacco a Berlusconi. In realtà è il racconto di come il nostro paese sia cambiato in questi ultimi trent'anni e del ruolo delle tv commerciali nel cambiamento. Quello che Nanni Moretti definisce "la creazione di un sistema di disvalori"".

Le riprese del film, se pure Villa Certosa si vede, è stato completato prima dei casi "Noemi o D'Addario" e non c'è un collegamento con l'attualità. Ma per assurdo, sottolinea Procacci, il collegamento lo trova la Rai. Nella lettera di rifiuto si scrive che dato il proprietario delle reti e alcuni dei programmi "caratterizzati da immagini di donne prive di abiti e dal contenuto latamente voyeuristico delle medesime si determina un inequivocabile richiamo alle problematiche attualmente all'ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso e al suo rapporto con il sesso femminile formulando illazioni sul fatto che tali caratteristiche personali sarebbero emerse già in passato nel corso dell'attività di imprenditore televisivo".

"Siamo in uno di quei casi in cui si è più realisti del re - dice Procacci - Ci sono stati film assai più duri nei confronti di Berlusconi come "Viva Zapatero" o a "Il caimano", che però hanno avuto i loro spot sulle reti Rai. E il governo era dello stesso segno di oggi. Penso che se questo film è ritenuto così esplosivo vuol dire che davvero l'Italia è cambiata".

di Maria Pia Fusco da LaRepubblica

Riflessioni sulla sentenza della Corte Europea

Non è possibile una lettura “semplice” della sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani sull’omicidio di Carlo Giuliani. E’ necessario scegliere un punto di vista preciso che in questo caso, quello cioè dei fatti di Genova 2001, è diverso, antitetico, tra ciò che si può scorgere dall’angolazione di “movimento”, a quello che si sviluppa invece dalla prospettiva “democratica”. Dimostrare questa tesi significa quindi, innanzitutto, definire i punti di partenza. Iniziando ad esempio da ciò che rappresenta, nel nostro paese e in questo squarcio di tempo, la posizione “democratica”. La fine progettuale della sinistra ha prodotto uno strano essere da quelle parti: un mutante, una sorta di freak del pensiero politico, in cui il giacobinismo proprio di ogni sinistra, che serve ad alimentare la lotta politica, essenzialmente giudiziaria e moralistica, contro il nemico Berlusconi, ha rapidamente preso la scena, alleandosi con il giustizialismo di destra. Ne emerge un quadro in cui l’idea liberale di giustizia e del rapporto tra normazione e legittimità, ne escono massacrati. Per certi versi una sorta di fascismo culturale di sinistra che si gioca la partita all’ultimo sangue con il neo fascismo tecnocratico dell’altra parte, in lizza per il potere. Il sangue è quello ovviamente dei soggetti sociali “teoricamente” titolari di diritti, che stanno in mezzo e sono terra di conquista, o meglio, carne da macello. I democratici nostrani contemporanei sono un mostro, questa è la verità: pensano come Dalema, parlano come Di Pietro, amministrano come Bersani, si prostituiscono come Rutelli e usano il cilicio come la Binetti. Il loro unico progetto è convincerci che tolto Berlusconi, loro le stesse cose le fanno meglio. Non vi è alcuna alternativa, se non quella di dare più potere al carcere, ai magistrati, alla polizia, alle guerre, al controllo, alla pubblica morale teocratica a discapito dell’etica laica. Lo sfacelo è d'altronde sotto gli occhi di tutti, e la grande famiglia che si sta formano attorno al quotidiano “La Repubblica”, checchè ne dicano i “sinistri”, di fatto comprende anche le ultime falci e martello. I democratici hanno sempre pensato che bisognasse innanzitutto salvare lo Stato dopo Genova. Che bisognasse disinnescare rapidamente l’aria di rivoluzione che in quelle strade si era mescolata a quella asfissiante dei lacrimogeni. E’ per questo che quel “diritto di resistenza”, nato in Via Tolemaide, faceva paura soprattutto a loro. La destra probabilmente lo ha temuto meno, e lo ha affrontato con la guerra.

I democratici invece temono che proprio insito nel diritto a ribellarsi anche con violenza alla forza dello Stato, vi sia la loro fine in quanto garanti del rapporto, diseguale e violento, tra lo Stato stesso, tra il potere, e chi lo subisce. Per questo il loro rapporto con le “rivoluzioni” è diametralmente opposto a quello della destra. Quest’ultima le combatte con la guerra, i primi invece cercano sempre di renderle impossibili prima che partano. Le denigrano, le criminalizzano ed infine le occultano. In questo senso la sentenza di Strasburgo è certamente una sentenza “democratica”: “Placanica ha sparato per legittima difesa” ma vi sono stati a carico dello Stato “problemi procedurali e violazioni di articoli”. Si giunge fino al ridicolo risarcimento di 40mila euro per la famiglia Giuliani. Tutto in sostanza per dire che vi è un sistema che sostanzialmente funziona se gestito bene. Anzi, non serve nemmeno che effettivamente le norme vengano rispettate, perché il solo atto di riconoscere qualche violazione, è espressione di democrazia. La Corte di Strasburgo è un utile tribunato democratico in questo senso: lo fa valutando le deportazioni di massa dei migranti che continuano ad esserci, le torture e gli omicidi compiuti dalle polizie europee che continuano a ripetersi, i respingimenti illegali dei bambini afghani che scappano dalla guerra, che sono diventata prassi normale. Continua nel suo lavoro, la Corte europea, per permettere che il sistema continui a reggere, non perché esso sia messo radicalmente sotto accusa.

Ciò che è accaduto a Genova nel 2001 non ha paragoni in Europa. Solo il regime iraniano negli ultimi mesi ha ricordato come furono usati polizia e carabinieri quel luglio, in Italia. I democratici avevano preparato il dispositivo dell’ordine pubblico a Genova. Perché erano al Governo. Il Global forum di Napoli, la cui repressione fu gestita dal democratico ministro dell’Interno di allora, Enzo Bianco, aveva già dimostrato loro di che polizia stessero per servirsi, un’accozzaglia di fascisti di tutte le risme inquadrati in plotoni di picchiatori addestrati e legalmente giustificati, un po’ come li racconta Bonini in “Acab”, delegando la gestione del comando delle truppe, la guida della repressione, ad un “democratico” della statura di De Gennaro. Qual’era la strategia che volevano adottare per Genova dunque, sapendo che ci sarebbe stata una vera e propria sollevazione di popolo contro il G8? Quella di accettare la “soluzione politica”, cioè di trasferire in mezzo al mare il vertice, un po’ come fece il Canada dopo, piazzandolo in mezzo alle montagne? Non l’hanno nemmeno presa in considerazione. Tra il popolo che insorge, anche il loro popolo, e la riconferma del potere come entità assoluta e che si dimostri solida anche se in realtà non lo è, in grado di gestire qualsiasi evento di contestazione, insomma gli ingredienti fondamentali per potersi permettere di non mettersi mai seriamente in discussione, hanno optato senza indugio per la seconda ipotesi.

Anche perché, in fondo, non è questa la contemporanea maniera di “praticare” la democrazia? Non è così, dimostrando che il potere è assoluto tanto da poter concedere la testimonianza senza modificare nulla di sé stesso, che si definisce la sua moderna, e mostruosa, natura democratica? Avevano anche un’ulteriore carta da giocare, i democratici: in caso di perdita di elezioni, come era ampiamente prevedibile, la patata bollente sarebbe toccata agli avversari. I quali, consci del rischio di partire male e proseguire peggio (le proteste successive a quelle contro il G8 non potevano trarre forza da quell’evento, ma anzi dovevano essere depotenziate subito, dagli esiti di luglio), applicarono al modello di gestione dell’ordine pubblico deciso dai loro predecessori, alcuni “accorgimenti”. A scanso di trappole. Ad esempio il ruolo di primo piano frettolosamente affidato ai carabinieri del generale Leso, nonostante sulla carta la conduzione delle operazioni di piazza spettasse alla polizia. In un articolo di analisi molti mesi dopo il luglio del 2001, proprio il generale, a cui si deve la creazione delle MSU, le unità di intervento risolutivo dell’Arma, impiegate in Iraq come in Afganistan, definisce Genova come una situazione affrontata con “tecniche di controguerriglia forse un po’ troppo pesanti”, ma sostanzialmente dichiara raggiunto l’obiettivo. La polizia, e De Gennaro, rispondono “sul campo” con la Diaz: ordinano un intervento “un po’ troppo pesante”, proprio per riequilibrare il ruolo della PS nei confronti dell’Arma dei carabinieri. Proprio per dichiarare, de facto, l’assoluta obbedienza al nuovo governo, semmai qualcuno avesse potuto dubitarne. Ma è curioso che sia proprio Sgalla, un uomo della sinistra ai vertici della polizia, a gestire pubblicamente, in una conferenza stampa proprio quella notte, la brillante operazione cilena della Diaz. E, dulcis in fundo, è curioso, o forse solo apertamente vergognoso, che il primo atto del Governo Prodi con Rifondazione nell’esecutivo e Bertinotti presidente della Camera, sia stata la nomina di De Gennaro a capo di gabinetto del ministro degli interni Amato. Per la prima volta nella storia della Repubblica un “Prefetto di prima classe” viene automaticamente promosso a membro di un governo. Pure i Prefetti hanno protestato. Da una parte i “democratici” chiedevano pubblicamente la commissione d’inchiesta parlamentare, dall’altra promuovevano De Gennaro.

E anche sulla Commissione d’Inchiesta ci sarebbe molto da dire. I democratici, a differenza della destra che la temeva per danno d’immagine, hanno sempre specificato, da Violante a Di Pietro, che bisognava mettere sotto accusa manifestanti e polizia. La tesi da dimostrare, per loro, già scritta nella risoluzione di minoranza dopo la commissione d’indagine del settembre 2001, è che qualche mela marcia aveva sbagliato da entrambe le parti. Certo, il governo in carica si era dimostrato incapace, ma Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, intesi come vertici, non andavano toccati. Allo stesso modo solo una piccola parte di manifestanti violenti avevano provocato la reazione delle forze dell’ordine, poi degenerata. Vi è dunque un problema a monte di scelta di prospettive, per poter valutare ciò che oggi la Corte di Strasburgo dice su Genova. Se si sceglie la traiettoria degli attuali democratici, la decisione della Corte appare equilibrata e in qualche modo riparatrice. Solo se si considera l’attuale parabola “democratica” come parte integrante del sistema di potere che sopravviene, e questo in termini più generali potrebbe valere anche per lo stesso Obama, allora possiamo criticarla, in funzione di un’altra prospettiva.

Quella di un cambiamento radicale. Nessun democratico contemporaneo ammetterà mai, né indossando i panni del giudice, né del poliziotto, né del politico, che per avere ragione dei torti subiti a Genova, dal punto di vista della legge o della cultura dei diritti umani, bisogna riconoscere il diritto dei manifestanti a ribellarsi. Bisogna procedere per questo con un’amnistia per tutti coloro che sono stati condannati. Bisogna mettere sotto accusa, aprendo una pubblico iter di riforma, l’intero corpo di polizia e dei carabinieri. Che significherebbe ad esempio, per un democratico, vigilare sul loro operato, disarmarli quando hanno difronte gente disarmata, punirli severamente, più degli altri, quando commettono un omicidio. E far saltare teste ai loro capi, a chi comanda, quando ciò avviene. In qualche modo ha ragione qualche commentatore, come Imarisio sul corriere, che dice che questa sentenza è frutto di una “strategia sbagliata da parte dei no global” che dovevano puntare su un giudizio relativo a tutte le violazioni, le torture, i pestaggi, il massacro compiuto a Genova dalle forze dell’ordine, e non sul caso Placanica. Ma La Corte poteva, anche a partire dal caso dell’omicidio di Carlo Giuliani, esprimersi lo stesso sul resto. Non lo ha fatto con il dovuto rigore perché si sarebbe trattato di legittimare il “diritto di resistenza”, questa è la verità. Come difronte ai crimini commessi da questo governo nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo, si dovrebbe legittimare il sabotaggio e la disobbedienza alle leggi securitarie, come minimo.

Ma questa non è la prospettiva dei democratici contemporanei e dei loro tribunati nella costituzione imperiale. Uno dei sette giudici della Corte di Strasburgo si chiama Zagrebelsky. E’ italiano ed è uno dei tre che ha votato contro la condanna dell’Italia al risarcimento dei 40mila euro per violazioni gravi dei diritti e negligenza nell’accertare le responsabilità. Uno dei tre giuristi democratici che ha scritto la mozione contro Berlusconi e contro il suo attacco “alla libertà d’informazione” si chiama Zagrebelsky. Scommettiamo che non è un omonimo? Si può essere dalla parte dello Stato per Genova e allo stesso tempo “democratico” difensore della libertà di stampa? O paladino della lotta alla mafia come Caselli e poi far arrestare gli studenti dell’Onda? O scandalizzarsi difronte ai costumi sessuali del premier e girarsi dall’altra parte quando in Afghanistan ammazziamo civili a decine? O quando li lasciamo morire di sete in mezzo al mediterraneo? Forse dovremmo interrogarci tutti su quanti guasti, dentro la cultura democratica, abbia fatto l’antiberlusconismo. Che ai moderni democratici basta per lavarsi la coscienza.

di Luca Casarini da GlobalProject

La politica del linciaggio - Violenza, volgarità e barbarie nella maggioranza che scricchiola


E poi se la prendono con Svastichella o con i ragazzotti che si dedicano imparzialmente a ronde-safari contro gay, zingari e migranti. Come se l’incitamento al linciaggio non provenisse dagli organi dello Stato, altro che dalla “pancia” del popolo. Ieri era l’apologia del “cattivismo” fatta niente meno che dal Ministro degli Interni Maroni a proposito del trattamento dei migranti in mare, oggi il giornale della famiglia-Stato Berlusconi, con il suo neo-assunto editorialista Feltri che infanga il direttore dell’Avvenire con una tattica obliqua ma non insolita: un’accusa diretta leggera e un sottinteso pesante, cioè un pretesto formale che farà sorridere i lettori di quel fogliaccio (molestie telefoniche) e un sottinteso che ne scatenerà le pulsioni selvagge (collegate a una “relazione omosessuale” –editoriale del 28 agosto–, meglio sghignazzata –replica del 29 agosto– come “vizietto“). Il tutto condito con l’inevitabile scusa che lui, Feltri, riguardoso com’è della proprietà anzi del proprietario Berluschino, non ha nulla contro l’omosessualità, magari ha tanti amici gay, ebrei, zingari (zingari no, non esageriamo). Però, come si permette di dare lezioni di moralità, un gay! Che ci vogliamo fare se poi quattro teppisti accoltellano passanti gay o presunti tali o ne incendiano i locali. Per dirla con Marcello Veneziani (sul medesimo Giornale del 29 agosto), «l'occasione delle recenti aggressioni ai gay è stata ghiotta per riprendere la celebrazione pubblica dell'omosessualità e la condanna di chi non si compiace per la pervasiva presenza di un immaginario gay che colonizza ormai la società». Mentre, perbacco, si tratta pur sempre di una «distorsione del disegno naturale» («sovrannaturale per chi ci crede»), ovvero della sessualità orientata alla procreazione. Come se in un disegno intelligente, naturale o sovrannaturale, potesse inserirsi l’esistenza di uno scapigliato “provocatore” intellettuale come Veneziani. Legittima, per carità, ma non proprio attestante l’intelligenza del disegno.
Se non esiste un ID (Intelligent Design) nell’universo, tanto meno esiste nel PdL. Visto che lo sconsiderato attacco alla Cei è stato effettuato su commissione di Berlusconi, come l’assalto legale di Ghedini a tutta la stampa nazionale e internazionale, c’è da chiedersi se questa sovraesposizione mediatica, con tutti i rischi di scollamento della maggioranza e delle istituzioni, sia un semplice errore, un tentativo di sviare l’attenzione dall’incombente autunno caldo o la risposta anticipata a qualche complotto mirante a far fuori il Papi, i suoi cammelli gheddafiani e i tubi del gasdotto South Stream. In ogni caso si produce un indebolimento oggettivo della tenuta politica della maggioranza (il cui fulcro è il disperato peronismo tremontiano) e una dispersione dell’alternativa Pd tra gossip e leccate alla Chiesa. Si apre dunque uno spazio per gestire politicamente, da parte di movimenti non subalterni alla “sinistra”, la crescente ondata di proteste, puntando tanto sugli effetti materiali della crisi quanto sulla degenerazione, accuratamente promossa dall’alto, di sentimenti e stili di vita. Su quel razzismo, cioè, che viene declinato in una scala di sfumature dal più brutale al più sofisticato: l’odio di razza vero e proprio verso lo straniero (povero) e verso il meridionale (concorrente), l’odio di genere verso il sessualmente diverso (dichiarato) e verso le donne (incontrollabili), l’odio per l’eguaglianza. Già, credete che i discorsi di Giavazzi sul merito o quelli di Sacconi contro il livellamento salariale differiscano tanto dalle sbrasate di Borghezio e Salvini o dagli editoriali di Feltri? Il discrimine fra cultura e barbarie è sottile, come ci ricordò Walter Benjamin, ma forse nel nostro caso parlare di cultura è un eufemismo.

di Augusto Illuminati da GlobalProject

Per noi la legge Alfano. Negli Usa il Freedom Information Act dal '66. Un'altra domanda a Berlusconi

Viviamo da tempo in un paese nel quale, grazie agli errori della sinistra e alla vittoria ultima (ma ormai tre volte ripetuta) di Berlusconi, la libertà di informazione è a tutti i livelli un genere optional, una sorta di piccola lampada che oggi è limitata a poche testate, a un piccolo angolo della Rai sul quale si preparano nuovi assalti, probabilmente vittoriosi, se non ci sarà una forte mobilitazione di una parte rilevante della società italiana.
Eppure oggi abbiamo conferme costanti della situazione drammatica in cui ormai versa l’articolo 21 della costituzione repubblicana e ogni altra legge che si conformi ad essa.

La ripresa parlamentare ormai imminente porterà con ogni probabilità l’approvazione del disegno di legge Alfano che ripercorre, senza differenze rilevanti, il cammino del regime fascista, con l’effetto di intimidire i magistrati, in particolare quelli che non hanno un minimo di sensibilità democratica, e i giornalisti.
Avrà l’effetto, come sanno da tempo i lettori del nostro sito, di seppellire la cronaca giudiziaria e di ostacolare in maniera determinante tutte quelle indagini in grado di mettere in difficoltà la corruzione e il malaffare che caratterizzano il nostro paese.

Sicchè lo stato di diritto tramonterà in maniera ancora più ampia e generalizzata di quanto è già avvenuto finora e il populismo autoritario, che ha già in buona parte sostituito la democrazia parlamentare iscritta nel nostro dettato costituzionale, dispiegherà tutti i suoi effetti negativi sul piano culturale, politico e sociale.
Con buona pace della classe politica del centro-sinistra, occupata a litigare ogni giorno e tesa soprattutto ad isolare quelle forze, come l’Italia dei Valori, che vanno avanti nella loro opposizione netta e intransigente al governo attuale, al punto da mettere in discussione l’alleanza elettorale e parlare in continuazione di alleanza stabile con l’Unione di centro di Pier Ferdinando Casini o, secondo l’ultima uscita di Piero Fassino, addirittura con il PDL del Cavaliere-Caudillo che ci governa.

Ebbene, grazie al silenzio dei nostri giornali più diffusi, se si esclude qualche rara eccezione, poco o nulla sanno i lettori italiani di quel che succede negli altri paesi dell’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, nostro maggior alleato internazionale sempre osannato dal governo Berlusconi, che dice di ispirarsi alla politica di Washington. Grossolana menzogna, si intende, ma che le televisioni pubbliche e private cercano di accreditare, giorno dopo giorno.

Negli Stati Uniti, invece, il Freedom Information Act, una legge che è in vigore con modifiche migliorative dal 1966, epoca della presidenza Johnson, consente ai cittadini, a tutti i cittadini, di ottenere non solo la desecretazione di importanti documenti segreti di tutte le presidenze americane ma anche di ottenere, fra le tante altre informazioni, il registro delle telefonate fatte dagli uffici dei ministri in carica.

Ebbene un grande giornale come il New York Times ha chiesto e ottenuto le telefonate del ministro del Tesoro di G. W. Bush, Hank Paulson. Attraverso quelle telefonate ha potuto accertare che il ministro, fino a poco tempo prima dirigente della Lehman Brothers fallita per la crisi, ha venduto, all’atto di diventare ministro, le proprie azioni GS della società ma successivamente ha avvantaggiato con la sua politica proprio i possessori di azioni di quella società cui il ministro ha dimostrato di continuare ad essere legato, malgrado la vendita delle sue azioni.

Dopo questa indagine il quotidiano americano ha scritto un severo articolo di critica all’ex ministro rimproverandogli di non essersi liberato del suo conflitto di interessi e di aver fatto gli interessi del gruppo di affaristi di cui fa parte piuttosto che quelli generali della comunità nazionale.
Ora un episodio come questo, di cui ha parlato qualche giorno fa, il 13 agosto Salvatore Bragantini sul “Corriere della Sera”(ma nessun altro giornale ne ha dato notizia) appare particolarmente significativo se confrontato alla situazione italiana.

Noi non abbiamo una legge paragonabile a quella americana, o a quella inglese che ne ha ripercorso le orme, e siamo ancora addirittura alle prese con la persistenza di un segreto di stato esteso oltre ogni limite ma, soprattutto, abbiamo una formidabile disattenzione di tutti i mezzi di comunicazione rispetto a quel che fa l’esecutivo come i vari ministri.

E ci chiediamo se una democrazia repubblicana, come prevede ancora la nostra costituzione, è in grado i propri compiti essenziali in una situazione così lontana da quella americana, cui pure dice di ispirarsi.
E’ una domanda che sarebbe da aggiungere alle dieci domande che Repubblica ha già fatto al presidente del Consiglio sui suoi comportamenti, spingendolo addirittura, nei giorni scorsi, a querelare con particolare arroganza il giornale che ha esercitato una normale attività di critica democratica.

da Articolo21

Lega, campagna d’estate sulla pelle dei naufraghi

La campagna d'estate della Lega, contro gli sbarchi e per i "respingimenti" dei disperati che arrivano per mare sulle coste italiane, si sta dispiegando con almeno due risultati.

1. Il primo è quello di far assumere alla Lega la leadership di fatto, dentro il centrodestra e dentro il governo Berlusconi, delle politiche sull'immigrazione e sulla sicurezza, parte importante ed elettoralmente determinante della politica tout-court del centrodestra. Ma direi di più: le posizioni su clandestini e sbarchi fanno assumere alla Lega, più in generale, la leadership "culturale" del centrodestra. Sono Bossi, Calderoli e soci a dare il tono alla destra italiana, a connotarla con spietata precisione. Creando quello che l'ex ministro Giuseppe Fioroni chiama "cinismo di popolo", diffondendo cioè l'idea che gli immigrati si meritino tutto ciò che subiscono, compresi i processi dopo i naufragi e i naufragi senza salvataggio (mai in mare si era vista una cosa simile).
Il gioco estivo di Bossi jr, Renzo (detto dal padre la Trota: Delfino sembra troppo anche a papà), e cioè "Rimbalza il clandestino", lanciato su Facebook, non è soltanto una ragazzata: è coerente con la politica della Lega e più potente di cento editoriali.

2. Il secondo risultato ha a che fare con la laicità e i rapporti con la Chiesa cattolica. «I vescovi fanno il loro mestiere e noi facciamo il nostro», ha detto Bossi. Una frase che a sinistra si sognano. Sì, perché la Lega, sulla battaglia (sbagliata e razzista) dei respingimenti, coglie l'occasione per fare una battaglia (giusta) sulla laicità dello Stato e della politica. Ha ragione quando rivendica (seppur rozzamente) la libertà di dire e di fare ciò che ritiene politicamente più opportuno, senza interferenze del Vaticano e dei vescovi italiani. Semmai mostra tutta la strumentalità del suo agire quando invece alza la croce come vessillo politico della sua crociata anti-islam, o dice che a Milano non si devono costruire moschee perché in periferia mancano tante chiese. Ma è il mondo cattolico (o meglio: una parte di esso) a cadere nella trappola: quando accetta tutto della destra (dal razzismo di Bossi alle escort di Papi Silvio) pur di avere una legislazione in linea con la dottrina cattolica su famiglia, bioetica, finevita, scuola... Un baratto cinico come chi lo concede.
Così i ragazzi di Cl hanno applaudito al Meeting di Rimini le dichiarazioni "moderate" (in quel caso) di Roberto Calderoli. È la dimostrazione di un pregiudizio positivo nei confronti della Lega che tra i cattolici (o meglio: tra una parte di essi) fa valorizzare le aperture "ragionevoli" e dimenticare la sostanza: quel "cinismo di popolo" che la Lega diffonde ogni giorno con scelte e dichiarazioni, parole e fatti, oltre che giochini su Facebook, imbellettandolo appena con qualche furba dichiarazione d'occasione davanti a una platea cattolica, per rivendicare subito dopo una autonomia e una laicità che la sinistra si sogna.

di Gianni Barbacetto da Micromega

Di Pietro : IdV da sola alle regionali pugliesi

'L'Italia dei Valori crede che sia necessario in Puglia un cambio generazionale e non contesta a Vendola responsabilità personali, perchè crediamo che sia davvero una brava persona'. Lo ha detto a Bari il presidente dell'Italia dei valori, Antonio Di Pietro, parlando con i giornalisti delle prossime elezioni regionali. Di Pietro ha spiegato: Vendola lo 'contestiamo politicamente perchè non ha rinunciato ad affiancarsi a personaggi che doveva tenere lontano e non ha controllato a sufficienza; per questo con quella squadra, pur se c'è la foglia di fico di Vendola, noi non possiamo metterci insieme'. 'L'Italia dei valori - ha aggiunto - cercherà in tutti i modi di costruire un'alternativa che dia alla Puglia il riscatto morale di cui ha bisogno, dopo l'esperienza disfattista del centrodestra e dopo questa cattiva esperienza della giunta di centrosinistra nei cui meandri si è inserito il malaffare di cui, purtroppo, il presidente della Regione non si è ancora scrollato in modo adeguato'. 'Ecco perchè - ha concluso - noi ne facciamo una questione di cambio generazionale di classe dirigente perchè, se non cambiano le facce, la politica è sempre quella'.

Dario Franceschini a Gallipoli motiva la riconferma di Vendola: “Perché governa bene”

C’è una bella differenza tra la difesa d’ufficio del senatore Nicola Latorre, per la ricandidatura alla presidenza della Regione Puglia di Nichi Vendola (“E’ un fatto naturale che il dibattito riparta dall’uscente”), e la valutazione più specifica e tutta politica di Dario Franceschini, che a Gallipoli motiva la riconferma di Vendola: “Perché governa bene” (notare l’uso attento del presente indicativo). Spostare l’ago della discussione sulle considerazioni di merito, relative ai fatti amministrativi dei cinque anni di governo regionale, anziché sulle ipotesi di schieramenti, strategie e tattiche di corto respiro elettorale, non può che far bene a quel cosiddetto “laboratorio Puglia”, che si vorrebbe modello innovativo per i futuri progetti sugli assetti politici nazionali e sponda cruciale per l’auspicato riscatto dell’intero Mezzogiorno.

Un merito certo da attribuire al duo Emiliano-Vendola è la loro capacità di mantenere la vicenda pugliese al centro dell’agenda politica generale. Continuando a gestire il pallino, dovrebbero riuscire ad evitare che le sorti di questa regione possano essere condizionate da giocate politiche fatte altrove. Che per una volta, almeno, la Puglia non diventi merce di scambio, per la salvaguardia di equilibri politici più lontani. Questa volta il punto fermo non potrà che essere quel laboratorio. Provassero altri, ogni tanto, ad essere funzionali a ragioni superiori di alleanza.

Ma il laboratorio non è tale solo se destinato alle alchimie catalizzatrici della difficile emulsione con l’Udc, almeno così fa intendere il segretario del partito più grande del centrosinistra. Dopotutto, proprio in Puglia, oltre all’esperimento Brindisi, è ancora fresca la controversa vicenda barese di Russo Frattasi (buono per attirare voti, ma non per far parte della giunta, a favore del segretario provinciale del partito). Il laboratorio pugliese ha prodotto anche altro, per cui sono in molti a sollecitare la battuta di ogni strada, per la riaffermazione prioritaria del presidente in carica. E non innanzitutto della cosiddetta “intesa”.

E’ chiaro che le vicende congressuali del PD, prima, e le primarie, poi, determineranno la piega del percorso elettorale immediatamente successivo. Ma, in un inevitabile gioco di specchi, le stesse elezioni regionali condizioneranno inevitabilmente i lavori di un congresso già abbastanza delicato e destinato ad essere decisivo sul futuro del Partito Democratico.

La sua evoluzione e la stessa partita delle alleanze dipenderà anche dalla consapevolezza di dover passare tutti alla pratica di un tempo indicativo meno precario. Dalla tendenza spontanea nell’uso nostalgico del passato prossimo o da quello decisamente più ambizioso del futuro. Dato che, per il momento, è inutile sperare nella temerarietà declinata in altro modo: quello di un più coraggioso e corretto uso del congiuntivo.