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giovedì 6 agosto 2009

I SOMMERSI E I SALVATI - 4° PARTE

Lunedì 27 luglio compare un articolo sul Quotidiano di Lecce (tralascio quello che è successo all’interno del gruppo in seguito a questa pubblicazione: minacce, attacchi frontali senza senso, componenti che si allontanano e continuano a lavorare da soli anzi con chi, in quel momento, la pensa come loro, ecc ecc ecc……………) che descrive e rende “pubblica”, come se prima non lo fosse, la condizione dei migranti suscitando così la sindrome della velina nel sen. Maritati che come una vera e propria star, con a seguito giornali e televisione, fa un incursione nel campo alla ricerca del tesoro nascosto.
Buon giorno senatore!!! Non è mai troppo tardi per interessarsi di fatti che erano già ben noti.
Dopo quest’incursione nella tendopoli il comune di Nardò ha stanziato 15.000 € per l’acquisto di sei gazebo, dieci docce e bagni chimici.
Ancora una volta devo ricordare al comune neretino che non ha fatto niente di particolare, ha semplicemente adempiuto ad un compito che si era promesso di fare nel momento in cui, grazie ai finanziamenti regionali messi a disposizione dal governatore Nichi Vendola, sono entrati nelle casse comunali ben 300.000€.
Al momento è impossibile prendere appuntamento con qualcuno per avere dei chiarimenti circa l’utilizzo fatto o da fare di questi finanziamenti, in quanto la giunta comunale non è definita; quello che posso dire, da informazioni prese sia sul comune che da chi lavora ogni giorno con i braccianti stagionali, che dei 300.00€, 205.00€ sono stati trattenuti dal comune per le spese di ristrutturazione della Masseria Boncuri che si aggiungono,a quanto pare, ai 300.00€ dello scorso anno, e 95.000€ sono stati assegnati all’assessorato ai servizi sociali, ass. Carlo Falangone, il quale ha incaricato due progettisti comunali che hanno presentato un progetto chiamato “Progetto Amici”, del quale vorrei essere informato più dettagliatamente.
La stranezza di tutto questo sta nel fatto che per progettarlo, i due progettisti, si son trattenuti ben 8.000€.
Se non è così, che qualcuno mi dica come stanno effettivamente le cose.
A questo punto vorrei chiedere cortesemente al comune di spendere i soldi prima che inizi la stagione delle angurie per non ritrovarsi come ogni anno con una situazione di emergenza, dire agli imprenditori agricoli che è un loro dovere garantire vitto, alloggio e trasporto alle cure mediche, (non ci deve essere solo il profitto in questo mondo di nuovi schiavi) e alle forze di polizia di intensificare al massimo i controlli non per cacciare o espellere lo sfortunato di turno, ma per capire quali sono le logiche (a volte mafiose) di reclutamento e di contratto lavorativo.
I fatti da raccontare e rendere noti sarebbero tanti. Tuttavia una cosa è certa che per il prossimo anno non staremo sicuramente a guardare e mi auguro che il problema degli stagionali non sia più tale e che questi braccianti vengano accolti dignitosamente iniziando a capire che il loro lavoro (che un tempo era il nostro, prima delle patatine, della televisione e del divano) è fondamentale per l’economia del nostro paese.
Non rubano niente a nessuno di noi, si spaccano solo la schiena nelle dodici ore di lavoro estenuante sotto il sole cocente della nostra bella estate.


“Ci pare invece degno di attenzione questo fatto: viene in luce che esistono tra gli uomini due categorie particolarmente ben distinte: i salvati e i sommersi […]. Questa divisione è molto meno evidente nella vita comune; in questa non accade spesso che un uomo si perde, perché normalmente quest’uomo non è solo, e, nel suo salire e nel suo discendere, è legato al destino dei suoi vicini; per cui è eccezionale che qualcuno cresca senza limiti in potenza o discenda con continuità di sconfitta in sconfitta fino alla rovina. Inoltre ognuno possiede riserve tali, spirituali fisiche e anche pecuniarie, che l’evento di un naufragio, di una insufficienza davanti alla vita, assume una anche minore probabilità. Si aggiunga ancora che una sensibile azione di smorzamento è esercitata dalla legge, e dal senso morale, che è legge interna; viene infatti considerato tanto più civile un paese, quanto più savie ed efficienti vi sono quelle leggi che impediscono al misero di essere troppo misero, e al potente di essere troppo potente[…]. Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona –a chi ha sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto”
Primo Levi
“Se questo è un uomo” Einaudi Editore 1958

Redazione

Hiroshima brucia ancora

Niente da fare. In Giappone di Hiroshima e Nagasaki non frega più nulla a nessuno. E bene ha fatto il coraggioso (è sempre in prima linea nel denunciare le esecuzioni capitali) ambasciatore danese a Tokyo, Franz Michael Skyold Mellbin che stamani all’alba, dalla cima del Monte Fuji, srotolerà un cartello contro la passata, presente e futura proliferazione nucleare. “Volevo fare qualcosa per il popolo giapponese, far sentire loro che il mondo non dimentica” ha dichiarato all’agenzia Kyodo, prima di iniziare l’ascesa, di notte. Pare che l’Ambasciatore abbia chiesto ad altri colleghi di accompagnarlo, magari anche solo simbolicamente, senza salire fino in cima. Ma non ha trovato nessun altro.
Anche il premier Taro Aso, che all’ultimo momento ha capito che non poteva non partecipare alla cerimonia ufficiale e ha sospeso di malavoglia la campagna elettorale, ha voluto fare qualcosa, prima di sparire, come oramai sostengono tutti i sondaggi, dalla scena politica. E nella speranza di raccattare qualche voto ha annunciato, proprio per oggi, una storica decisione. Basta con le vertenze, basta con la tirchieria di stato a spese dei sopravvissuti del bombardamento. Da oggi, tutti coloro (sono oltre 300) che sono in causa con il governo giapponese per ottenere il riconoscimento di “hibakusha”, di superstite del bombardamento nucleare possono stare tranquilli. Sia che abbiano vinto, sia che abbiano perso o che siano in attesa di sentenza definitiva, anche loro riceveranno il sussidio statale, pari a circa 1000 euro al mese. Unanime il commento della stampa locale, anche quella più conservatrice: era ora.
Al “condono nucleare” di Aso fa da contraltare, ahimè, la scelta di “basso profilo del suo sfidante, e probabile nuovo premier, Yukio Hatoyama, anche lui presente, salvo ripensamenti dell’ultim’ora, a Hiroshima. Hatoyama viaggia con il vento in poppa, ma rischia grosso quando incontrerà il sindaco Tadatoshi Akiba, un tipo tutt’altro che malleabile e decisamente non-allineato rispetto ai partiti. Akiba ha infatti già manifestato il suo disappunto per gli impegni assunti da Hatoyama come capo dell’opposizione e che evidentemente non potrà rispettare come capo di governo. Parliamo dei famosi tre principi: “non possesso, non produzione, non introduzione” di ordigni nucleari in Giappone. Un paio di anni fa era stato proprio il partito democratico a denunciare il tradimento di questi principi da parte del governo, e l’allora capo dell’opposizione, appunto l’attuale candidato premier Yukio Hatoyama, si era impegnato a farli rispettare, in caso di conquista del potere. Ma ora che il potere è alla portata di mano, ha già cambiato idea. Nel “manifesto” elettorale del partito non se ne parla, ed il linguaggio usato per le questioni più scottanti, soprattutto di politica estera, è decisamente annacquato, come il whisky locale che ti servono nei locali del “mondo fluttuante” di Tokyo. Il trattato si sicurezza nippo-americano non va più abolito è tantomeno “radicalmente revisionato”: il governo democratico si limiterà a “proporre modifiche”. Stesso dicasi per le spese di sostentamento delle truppe americane in Giappone, una servitù militare senza più alcun senso. Un tempo i democratici volevano sospendere i pagamenti “tout court”, ora auspicano un negoziato. Ma un conto è annacquare il linguaggio, altro è far sparire uno dei capisaldi della politica dell’opposizione. Nel “manifesto” del PD giapponese è sparita la richiesta agli Stati Uniti di impegnarsi a non sparare il “primo colpo” nucleare. E questo, il sindaco di Hiroshima, non avrebbe potuto evitare di rinfacciarlo al nuovo premier in pectore, Yukio Hatoyama.

di Pio D'Emilia da Il Manifesto

Costituzione, la Lega: ''Bandiere regionali accanto al Tricolore''.


Cambiare l'articolo 12 della Costituzione e affiancare al tricolore anche i simboli identitari di ciascuna regione. È la proposta di legge Costituzionale presentata dalla Lega Nord al Senato, primo firmatario il capogruppo Federico Bricolo. "L'articolo 12, comma 1 della Costituzione - si legge nella pdl presentata dalla Lega - riconosce quale simbolo della Repubblica italiana il tricolore. Nei principi fondamentali della Costituzione non e', viceversa, incluso alcun riconoscimento ufficiale dei simboli identitari che contraddistinguono le Regioni. Tale lacuna -spiegano i senatori della Lega nella loro proposta di legge- si rende, ad oggi, inammissibile, alla luce della sostanziale valorizzazione del ruolo politico ed istituzionale delle Regioni realizzata dalle piu' recenti riforme costituzionali. L'estensione dell'ambito materiale della competenza normativa regionale ha, infatti, trasformato la Regione in un ente territoriale dotato di una piena autonomia politica, favorendone cosi' in ultima istanza il rapporto diretto con i cittadini".

I parlamentari spiegano che ''in tale fase storica di ripensamento dell'assetto territoriale dello Stato in ambito interno ed a livello sovranazionale, è più che mai necessario recuperare i simboli identitari che, contraddistinguendo ciascuna realtà regionale, contribuiscono ad alimentare quel legame dei cittadini con il territorio che e' presupposto indispensabile di qualsiasi riforma federale dell'ordinamento''.

Tale consapevolezza trova un riconoscimento istituzionale nelle riforme degli Statuti regionali approvate dal 1999 ad oggi, che, si legge nella proposta legislativa, ''nei primi articoli hanno ufficialmente riconosciuto quei simboli che, per tradizione, storia e cultura contribuiscono ad identificare la Regione stessa''. In questa prospettiva di intervento, sostengono infine i senatori della Lega Nord, la proposta di legge costituzionale in esame ''intende inserire un secondo comma all'art. 12 Cost., finalizzato a riconoscere il rilievo costituzionale dei simboli identitari di ciascuna Regione, individuati nella bandiera e nell'inno''.

La proposta solleva però critiche a sinistra come a destra. "Il Tricolore costituisce un intangibile valore dell'unità del Paese, sulla proposta della Lega deciderà il Parlamento", afferma il presidente del Senato Renato Schifani.

Quelle della Lega sono ''tutte operazioni di propaganda, ma sono provocazioni da rigettare perché a lungo andare possono diventare pericolose''. afferma Gianclaudio Bressa, componente Pd della commissione Affari costituzionali della Camera. Bressa ricorda che gia' in passato, in occasione della polemica sulla lingua italiana, la Lega aveva avanzato una simile proposta, "anche se non in maniera cosi' scomposta". Bisogna respingere le tesi della Lega perche' c'e' il rischio, avverte, "che si crei assuefazione e si inneschi una escalation che tende a scomporre i valori fondanti di questo Paese, qual'è l'unita' nazionale", rimarca Bressa.

"Finché si parlava di federalismo, cioè della capacità di gestire le proprie risorse, abbiamo accettato la sfida, ma ora la Lega sta proprio esagerando", afferma il presidente dei senatori dell'Italia dei valori, Felice Belisario, ricordando che dal Carroccio sono arrivati "rigurgiti razzisti con le proposte di destinare vetture della metro ai soli milanesi e la guerra all'extracomunitario a prescindere dalla sua fedina penale. Ora - prosegue Belisario - un pericoloso ritorno al secessionismo. Oltre all'autonomia finanziaria arrivano le proposte di gabbie salariali, la polizia privata locale, cioè le ronde, e oggi, da un autorevole esponente come il capogruppo al Senato Bricolo, la proposta di inserire addirittura nella Costituzione la possibilità di bandiere e inni regionali. Ma esisterà ancora la Costituzione dopo tutto ciò?".

Sdrammatizza invece il capogruppo del Pdl al Senato, Maurizio Gasparri: "Immagino già il clamore che i fessi della sinistra staranno mettendo in piedi, ma inviterei tutti a usare il buon senso e a sdrammatizzare. Io in questo momento mi trovo in Sicilia e da anni, nella spiaggia che frequento, sventola la bandiera della Trinacria. E' forse un problema? Per me no - dice Gasparri - non mi turba affatto e non credo che leda la dignità del Tricolore. Insomma, ribadisco, inviterei a sdrammatizzare anche perché ormai è prassi comune che a qualunque manifestazione civica sventolino insieme al Tricolore anche le bandiere delle Regioni e i gonfaloni dei Comuni".

Di "un pesce d'aprile fuori stagione" parla Daniele Capezzone, portavoce nazionale del Pdl, definisce l'annuncio del capogruppo leghista a palazzo Madama. "In un Parlamento composto da quasi mille persone -dice Capezzone - il 'festival' delle proposte di legge quantomeno stravaganti non chiude mai. Ma, andando alla sostanza, va ricordato che la Lega ha avuto in questi mesi un comportamento serio e responsabile, votando con noi quando si e' trattato di intervenire in aiuto di Roma, di Palermo, di Catania".

Ma la replica di Bricolo arriva a stretto giro di posta: "Questa non è una proposta di legge che va contro qualcosa o qualcuno ma chiede il riconoscimento delle bandiere e degli inni regionali per valorizzare simboli identitari che appartengono alle nostre comunità e sono un valore e una ricchezza per tutti''.

''Chi critica la nostra iniziativa sbaglia - prosegue - perche' le bandiere, cosi' come gli inni, sono un valore per tutti, sono una ricchezza per il nostro Paese, sono simboli in molti casi millenari che e' giusto riconoscere. E' un discorso che vale per la Regione Veneto ma anche per la Sicilia. Per questo le polemiche sono infondate e strumentali''. ''Ci sono numerosi Paesi europei, dalla Spagna alla Gran Bretagna, dove già c'è il riconoscimento dei loro simboli identitari. Noi - conclude Bricolo - si siamo semplicemente allineati, con la nostra proposta, a quelle legislazioni''.

La Corte Europea condanna l’Italia al risarcimento di un detenuto ristretto in 2,7 mq

A causa del sovraffollamento delle carceri, l'Italia dovrà risarcire un detenuto bosniaco per "trattamento inumano e degradante"

L'Italia dovrà risarcire il detenuto bosniaco Izet Sulejmanovic per i danni morali subiti a causa del sovraffollamento della cella in cui è stato recluso per alcuni mesi nel carcere di Rebibbia. Lo ha deciso la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo dopo il ricorso presentato dal detenuto appellando il trattamento riservatogli come “inumano e degradante”. L’Italia ora lo dovrà risarcire con una somma di 1.000 euro. Tra il novembre 2002 e l'aprile 2003, secondo quanto accertato dalla corte, Sulejmanovic ha condiviso una cella di 16,20 metri quadri con altre cinque persone disponendo, per sé, di una superficie di 2,7 metri quadri entro i quali ha trascorso oltre diciotto ore al giorno.
La corte, nella sua decisione, rileva come la superficie a disposizione del detenuto è stata molto inferiore agli standards stabiliti dal Comitato per la prevenzione della tortura che stabilisce in 7 metri quadri a persona lo spazio minimo sostenibile per una cella. La situazione per il detenuto e' poi migliorata essendo stato trasferito in altre celle occupate da un minor numero di detenuti, fino alla sua scarcerazione nell'ottobre del 2003. Ora l’Italia dovrà risarcire Sulejmanovic con una somma di 1.000 euro.

«Poiché in Italia i detenuti (circa 64 mila) che vivono in condizioni di sovraffollamento sono la quasi totalità, lo Stato, dopo la sentenza della Corte europea in favore del detenuto bosniaco, rischia di dover pagare 64 milioni di euro di indennizzi - ha affermato Patrizio Gonnella, presidente dell' associazione 'Antigone' che si batte per i diritti nelle carceri. Che ha poi aggiunto: «La condanna dell'Italia da parte della corte dei diritti dell'uomo impone al governo soluzioni definitive per le carceri e mette definitivamente fuori legge l'attuale gestione del sistema penitenziario». Secondo Gonnella, inoltre, «e' necessario cercare soluzioni a lungo termine, che non sono quelle presenti nel piano di edilizia penitenziaria pensato dal capo dipartimento Franco Ionta. Si deve prendere coscienza che i flussi di ingresso in carcere non sono più tollerabili dal sistema penitenziario ed e' dunque urgente mettere mano a leggi come quella sulla droga e l'immigrazione. L'associazione 'Antigone' è comunque a disposizione di quei detenuti che volessero una consulenza giuridica gratuita sul problema'».

Sulla vicenda è intervenuto anche l’assessore al Bilancio della Regione Lazio Luigi Nieri (Sinistra e Libertà) il quale ha annunciato che nei prossimi giorni visiterà le carceri del Lazio «per verificare se esistono altri casi simili a quello del detenuto bosniaco Izet Sulejmanovic». «Laddove dovessimo riscontrare situazioni analoghe inviteremo i detenuti a fare ricorso alla Corte Europea – ha poi aggiunto Nieri – Sono sicuro che sono in molti i detenuti delle carceri laziali che vivono in queste condizioni, visto l’alto tasso di sovraffollamento di istituti come quelli di Viterbo e Latina, che ho recentemente visitato».

da toscana.indymedia

Bolivia, Evo Morales contro le basi militari Usa in Latinoamerica

La Colombia sta negoziando con gli Stati Uniti per l'installazione delle basi militari Usa nel Paese

Il presidente della Bolivia, Evo Morales, dopo l'incontro con il suo omologo colombiano, Alvaro Uribe, ha annunciato che presenterà al prossimo vertice dell'Unione delle Nazione Sudamericane (Unasur) una proposta contro l'installazione di basi militari straniere in America Latina.
Dopo l'incontro, Morales ha confermato la sua posizione contro le basi militari degli Stati Uniti, non solo in Bolivia, ma in tutta l'America Latina. "Dobbiamo difendere la sovranità dell'America Latina. Nella riunione che si terrà a Quito tra i principali leader sudamericani dell'Unasur presenterò un progetto per non accettare alcuna base militare straniera in America del Sud ", ha dichiarato Morales alla stampa. A causa del negoziato con gli Stati Uniti riguardante alla installazione delle basi militari sul territorio colombiano, il governo del Venezuela ha deciso di congelare i rapporti bilaterali con la Colombia.

da PeaceReporter

Sri Lanka, primi rimpatri per i profughi Tamil

Il governo ha dato il via al rientro di 4 mila sfollati

Il governo dello Sri Lanka ha dato il via al rimpatrio di alcuni profughi Tamil rifugiatisi nei campi di Menik Farm, dove vivono quasi 300 mila sfollati.Più di 4 mila persone hanno ricevuto il permesso di tornare nelle loro case nelle regioni settentrionali e orientali del Paese. Si tratta di casi particolari: sono gli abitanti di aree - come il distretto di Jaffna - dove i combattimenti sono finiti diverso tempo fa. Il governo ha ribadito il proposito di fare in modo che entro la fine dell'anno la maggior parte dei profughi rientri in patria.

da PeaceReporter

Ad agosto l’elettore non va in vacanza

Il mese di agosto vede in Afghanistan e in Giappone gli appuntamenti elettorali di maggiore rilevanza. Si vota anche nelle isole Comore, in Niger, in Gabon e in Moldavia, oltre che per un interessante referendum in Nuova Zelanda.

Comore.
Il 2 agosto si è votato per le elezioni legislative nelle isole Comore, pochi mesi dopo il referendum costituzionale che ha abolito il limite di due mandati presidenziali consecutivi e modificato l’assetto istituzionale dello stato. I risultati non sono ancora noti.

Niger.
Ieri, invece, si è votato per un referendum costituzionale in Niger. L’obiettivo del referendum era dichiarare chiusa la quinta repubblica e approdare alla sesta, grazie a una nuova costituzione di stampo presidenziale che avrebbe, tra l’altro, abolito il limite di due mandati per la presidenza e concesso quindi al presidente Mamadou Tandja, già al potere da dieci anni, di ricoprire ancora la carica di capo dello stato. Non sono mancate le polemiche e le proteste, specie quando - in seguito a un parere della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il referendum - Tandja ha aperto una crisi istituzionale, congedato il parlamento e sciolto la stessa corte. “Anche se gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno condannato le azioni di Tandja”, sostiene il New York Times, “gli analisti sostengono che i suoi accordi petroliferi con la Cina e il sostegno del dittatore libico Gheddafi lo rendono praticamente invulnerabile alle minacce occidentali”. Le forze dell’opposizione, i sindacati e le ong hanno deciso di boicottare il voto, il cui risultato definitivo sarà noto tra qualche giorno. Il 20 agosto si dovrebbe votare per il nuovo parlamento, il cui assetto evidentemente dipenderà dall’esito dei referendum.

Afghanistan.
Il 20 agosto si vota per le elezioni presidenziali in Afghanistan. L’attuale presidente Hamid Karzai, vincitore delle prime elezioni democratiche della storia del paese, cerca la rielezione; i suoi principali sfidanti sono Abdullah Abdullah, medico, candidato indipendente, già ministro degli esteri, e Ashraf Ghani, già ministro delle finanze e apprezzato politologo, in passato in corsa per succedere a Kofi Annan alla guida dell’Onu. Secondo Time, “Abdullah si è presentato non come un anti-Karzai ma come un Karzai alternativo, offrendo le stesse promesse di pace, sicurezza e stabilità ma con una faccia pulita dalle accuse di corruzione che hanno logorato la figura dell’attuale presidente. Il vero anti-Karzai in realtà è Ashraf Ghani, la cui campagna è pragmatica e intelligente, perfino troppo intelligente, secondo alcuni”. Le elezioni arrivano in un momento di grande instabilità del paese e durante la più massiccia offensiva militare statunitense contro i taliban dal 2001. Si temono quindi violenze e intimidazioni prima, durante e dopo il voto.

Nuova Zelanda.
Il 21 agosto, invece, si chiudono le urne neozelandesi. Il voto era iniziato il 31 luglio e vede all’ordine del giorno un quesito referendario piuttosto interessante, sull’utilizzo delle punizioni corporali in famiglia: “Deve o no essere reato dare uno schiaffo ai propri figli durante un rimprovero?”. L’opinione pubblica si è divisa tra sì e no, e anche se tutte le organizzazioni a tutela dell’infanzia sono favorevoli all’introduzione del reato, secondo i sondaggi il fronte del no è destinato a stravincere. La questione è molto dibattuta anche in Europa. Al momento, in Spagna e in Germania le punizioni corporali sono proibite, in Italia e in Regno Unito sono proibite a scuola ma consentite in casa, mentre in Francia e Slovacchia sono consentite anche a scuola.

Gabon.
Il 30 agosto si vota per le elezioni presidenziali in Gabon. Al presidente Omar Bongo, morto lo scorso giugno e al governo dal 1967, succederà con ogni probabilità suo figlio Ali Bongo. Poche le possibilità dei candidati indipendenti, secondo Afrik. “Correre come indipendenti equivale a non correre affatto. Il partito di governo, unico partito presente in Gabon, ha il totale controllo delle istituzioni e dei mezzi di comunicazione. Una situazione che certo non favorisce chi ha la necessità di farsi conoscere in così poco tempo. Inoltre gli sfidanti di Bongo hanno lasciato i loro incarichi governativi, compreso l’ex primo ministro Jean Eyeghe Ndong, mentre Bongo non ha lasciato l’incarico di ministro della difesa”, che gli garantisce il controllo dell’esercito.

Giappone.
Sempre il 30 agosto, elezioni politiche in Giappone. Il primo ministro liberaldemocratico Taro Aso sembra essere atteso da una sonora sconfitta a opera dei democratici di Yukio Hatoyama, che con ogni probabilità sarà il prossimo capo del governo. “I liberaldemocratici si sono resi protagonisti di rimonte miracolose in passato”, racconta l’Economist, “ma stavolta le loro possibilità di vittoria sono compromesse dallafortissima contrazione dell’economia e dall’assoluta mancanza di leadership, ben rappresentata dai quattro premier che si sono succeduti negli ultimi quattro anni. Non che i democratici siano garanzia di efficienza: ne fanno parte socialisti, socialdemocratici ed ex liberaldemocratici. Dovessero vincere, far andare tutti d’accordo sarà già una bella impresa”.

Moldova.
Durante il mese di agosto, poi, il neo eletto parlamento moldavo dovrà eleggere un nuovo presidente. I comunisti sono stati sconfitti ma oggi l’opposizione non può contare sul numero di seggi necessario a raggiungere il quorum richiesto. La situazione di stallo cominciata lo scorso aprile potrebbe quindi proseguire.

da Internazionale

Giuseppe Fava, fondatore dei Siciliani, ucciso a Catania il 5 gennaio del 1984. Il giornalismo di Giuseppe Fava nella palude catanese

"Io ho un concetto etico di giornalismo. Un giornalismo fatto di verità, impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, sollecita la costante attuazione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo si fa carico di vite umane. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori che avrebbe potuto evitare, le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze, che non è stato capace di combattere". Giuseppe Fava, fondatore dei Siciliani, ucciso a Catania il 5 gennaio del 1984. Il giornalismo di Giuseppe Fava nella palude catanese
Giuseppe "Pippo" Fava
di Sebastiano Gulisano
Fonte: Da Polizia e Democrazia - 2002
5 aprile 2005
"Io ho un concetto etico di giornalismo. Un giornalismo fatto di verità, impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, sollecita la costante attuazione della giustizia, impone ai politici il buon governo. Se un giornale non è capace di questo si fa carico di vite umane. Un giornalista incapace, per vigliaccheria o per calcolo, della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori che avrebbe potuto evitare, le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze, che non è stato capace di combattere".
Con queste parole, nel 1981, in un editoriale del Giornale del Sud, Giuseppe Fava spiega cosa intende per giornalismo. Parole che, lo scorso 13 maggio, abbiamo ascoltato dalla voce della figlia Elena, lette in occasione della giornata di studi dedicata al padre dalla facoltà di Lingue straniere dell'Università di Catania, dalla Fondazione Fava e dall'Imes (Istituto meridionale di storia e scienze sociali). Il merito dell'iniziativa va in gran parte a Marzia Finocchiaro, la giovane ricercatrice che ha voluto il convegno sul Fava "giornalista attento, appassionato, coraggioso, valido romanziere, saggista puntuale, fertile drammaturgo, attualissimo sceneggiatore cinematografico e sorprendente pittore".
Ci sono voluti diciotto anni - tanti ne sono trascorsi dall'omicidio mafioso del 1984 - perché l'opera di Fava, "la grande attualità che ha la complessità di questa figura", cominciasse a essere analizzata nel "tentativo di rintracciare un filo conduttore, unitario, di respiro europeo", chiarisce il preside di Lingue, Antonio Pioletti, aprendo i lavori. "Fili che riguardano un periodo cruciale della nostra storia, dal dopoguerra al 1984: anni - precisa Pioletti - in cui inizia a svelarsi il rapporto tra mafia, politica e affari. Un rapporto di cui Fava, con le sue inchieste e, soprattutto, attraverso la rivista I Siciliani, ha squarciato gli intrecci". Il professore Pietro Barcellona, dal canto suo, descrive Fava come "un grande siciliano" e ne sottolinea le "molte affinità con il Pasolini che ha fatto il processo al Palazzo: denunciavano le stesse cose".
Giuseppe Fava nasce a Palazzolo Acreide (Siracusa), nel 1925, figlio di due insegnanti elementari, Elena e Giuseppe, di origini contadine; nel '43 si trasferisce a Catania, dove si laurea in giurisprudenza e si stabilisce definitivamente. Qui comincia a fare il giornalista, collabora con diverse testate regionali ma anche con periodici nazionali - La Domenica del Corriere, Tempo Illustrato -, scrive di cinema e di calcio, di teatro e di costume, realizza interviste memorabili come quelle a Calogero Vizzini e a Genco Russo, storici capi della mafia siciliana. Per anni è capocronista del quotidiano del pomeriggio, Espresso Sera, e quando, alla fine degli anni Settanta, tutti danno per scontato che diventi il direttore, l'editore gli preferisce un altro. Troppo libero, troppo incontrollabile per potergli affidare la direzione. Anche se si tratta di un piccolo giornale, pubblicato dal monopolista dell'informazione etnea, Mario Ciancio Sanfilippo, editore-direttore del quotidiano La Sicilia.
Quello che Fava instaura con la sua città adottiva è un rapporto d'amore-odio, intenso, passionale: "Io - scrive nel libro-inchiesta I Siciliani, pubblicato nell'80 - sono diventato profondamente catanese, i miei figli sono nati e cresciuti a Catania, qui ho i miei pochissimi amici ed i molti nemici, in questa città ho patito tutti i miei dolori di uomo, le ansie, i dubbi, ed anche goduto la mia parte di felicità umana. Io amo questa città con un rapporto sentimentale preciso: quello che può avere un uomo che si è innamorato perdutamente di una puttana, e non può farci niente, è volgare, sporca, traditrice, si concede per denaro a chicchessia, è oscena, menzognera, volgare, prepotente, e però è anche ridente, allegra, violenta, conosce tutti i trucchi e i vizi dell'amore e glieli fa assaporare, poi scappa subito via con un altro; egli dovrebbe prenderla mille volte a calci in faccia, sputarle addosso "al diavolo, zoccola!", ma il solo pensiero di abbandonarla gli riempie l'animo di oscurità".
Fava decide di affrontare quella "oscurità", di combatterla, di affrancarsi da quella dipendenza. Si trasferisce a Roma, diventa conduttore di una trasmissione radiofonica Rai, Voi e io, scrive per Il Tempo e per il Corriere della Sera, segue la messa in scena di alcune sue opere teatrali, mentre Palermo oder Wolfsburg, film tratto dal suo romanzo Passione di Michele, riceve l'Orso d'oro al Festival di Berlino. Fava è autore della sceneggiatura, la regia è del tedesco Werner Schroeter. Un film sull'emigrazione e sulla Sicilia contadina che in Italia non è mai stato proiettato.
È la primavera del 1980 quando Giuseppe Fava torna a Catania. E ci torna per dirigere un quotidiano, il Giornale del Sud, che fa con una nidiata di giovani cronisti - età media, 23 anni - tra i quali il figlio Claudio, Riccardo Orioles, Michele Gambino, Antonio Roccuzzo, Elena Brancati, Rosario Lanza. Gli editori? "I loro nomi - ricorda Claudio Fava, nel libro La mafia comanda a Catania -, allora, dicevano poco: Salvatore Lo Turco, Gaetano Graci, Giuseppe Aleppo, Salvatore Costa. Tipi ambiziosi, astuti, pragmatici. Nient'altro". Poi si scopre che Lo Turco frequenta il boss Nitto Santapaola, e che Graci ci va a caccia, con Santapaola.
In una città dove La Sicilia racconta la guerra in atto - cento morti l'anno - come una serie di "regolamenti di conti" non meglio specificati, il Giornale del Sud parla di mafia, di guerra tra clan contrapposti (Santapaola-Ferlito), di traffico di droga e di rapporti tra mafia e politica. Con tanto di nomi e cognomi. Non solo. Fava si schiera contro l'installazione dei missili Cruise a Comiso, provocando l'irritazione degli editori, che gli scrivono: "Non dimentichi che il nostro quotidiano si muove nell'ambito del Patto Atlantico". "Il giorno dopo - racconta Claudio Fava - il Giornale del Sud usciva con otto cartelle di editoriale ironico, sprezzante, beffardo. Contro gli americani, i loro missili, i loro lacchè politici". Insomma, il rapporto tra Fava e gli editori s'incrina presto, fino a diventare conflitto. E il giornalista è licenziato.
"Fava decide di stare dentro il conflitto - sottolinea al convegno Adriana Laudani, legale della famiglia nel processo agli assassini - e si dà gli strumenti per starci". Insieme a un gruppo di giovani che lo segue dal Giornale del Sud fonda la cooperativa Radar, con l'intenzione di fare un giornale di cui loro stessi siano gli editori. "Quel giornalista - scrive il sociologo Nando dalla Chiesa, nell'introduzione al saggio di Rosalba Cannavò Giuseppe Fava. Cronaca di un uomo - in realtà, creò altri giornalisti, diede vita a un collettivo, fondò una testata tirandola fuori con tenacia dal mondo dell'immaginazione. Fu un maestro. Un maestro che ha insegnato a battersi, con l'arma della parola, a un gruppo di giovani". Quei giornalisti, quella rivista - secondo dalla Chiesa - sono fautori di "un modello di giornalismo in grado di veleggiare da nave corsara nella grande palude della pacificazione". E Fava - ci rammenta dalla Chiesa - è "uno dei maggiori intellettuali siciliani di questo secolo".
Il mensile I Siciliani arriva nelle edicole dell'isola nei giorni di Natale del 1982. Il primo numero è un volume di 164 pagine che in copertina "strilla" i tre servizi portanti: I cavalieri di Catania e la mafia, È difficile essere giudici in Sicilia, La donna e l'amore nel Sud. L'inchiesta principale, che accenderà i riflettori nazionali sulla città, s'intitola I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa, un autentico atto d'accusa nei confronti di quattro tra i maggiori imprenditori del Sud: Mario Rendo, Carmelo Costanzo, Francesco Finocchiaro e Gaetano Graci (quest'ultimo, uno degli editori del Giornale del Sud), titolari di quattro gruppi imprenditoriali da diecimila posti di lavoro complessivi.
Quattro mesi prima, a Palermo, la mafia ha ammazzato il generale-prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa. È proprio dalla Chiesa, nell'agosto dell'82, a puntare il dito verso Catania: "Con il consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo", rivela a Giorgio Bocca. Dalla Chiesa arriva in Sicilia dopo un'agghiacciante sequenza di omicidi eccellenti senza eguali nel mondo occidentale che, tra il '79 e l'82, insanguina Palermo: cadono il giornalista Mario Francese, il segretario provinciale della Dc Michele Reina, il capo della Squadra Mobile Boris Giuliano, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, i capitani dei Carabinieri Emanuele Basile e Mario D'Aleo, il procuratore capo Gaetano Costa, il segretario regionale del Pci Pio La Torre. Una carneficina da fare impallidire persino la Colombia dei narcos.
Fava lo ammazzano la sera del 5 gennaio 1984, a Catania, dopo undici numeri della rivista, dopo che i potenti della città provano a comprarsi lui e il suo giornale. Ricevendo sempre rifiuti. "Io c'ero in redazione - racconta al convegno Antonio Roccuzzo, uno dei "carusi" di Fava - nel gennaio 1983, il giorno in cui, un mese dopo l'uscita del primo numero del mensile, arrivò l'offerta di Rendo: "Vi compro la rotativa". Rifiutata. E c'ero nove mesi e nove numeri dopo, quando - era l'ottobre 1983, tre mesi prima del 5 gennaio 1984 - arrivò il ministro Salvo Andò a offrire a Fava e a noi la gestione di una nuova emittente. Offerta rifiutata". Infine arriva l'offerta di Graci: 200 milioni per entrare nella proprietà del giornale. Rifiutati.
Nell'ultimo editoriale scritto per I Siciliani, nel novembre del 1983, Fava racconta le impressioni maturate dopo la messa in scena della sua più recente opera teatrale, che parla di scandali e corruzioni tra i potenti: "Anteprima dell'Ultima violenza, nella sala ci sono tutti i rappresentanti del potere nel territorio, i buoni e i cattivi, i giusti e gli iniqui, i galantuomini e i mascalzoni. Sulla scena per tre ore sfilano i personaggi equivalenti". Alla fine è un'ovazione collettiva, tutti applaudono, tutti si complimentano. E Fava commenta così: "Il clima morale della società è questo. Il potere si è isolato da tutto, si è collocato in una dimensione nella quale tutto quello che accade fuori, nella nazione reale, non lo tocca più e nemmeno lo offende, né accuse, né denunce, dolori, disperazioni, rivolte. Egli sta là, giornali, spettacoli cinema, requisitorie passano senza far male: politici, cavalieri, imprenditori, giudici applaudono. I giusti e gli iniqui. Tutto sommato questi ultimi sono probabilmente convinti d'essere ormai invulnerabili".
Questo senso d'invulnerabilità è documentato da una serie di fotografie. Al centro di ogni foto c'è Nitto Santapaola, assieme a lui, di volta in volta, c'è il sindaco, il presidente della provincia, il questore, il prefetto, un deputato regionale dell'Antimafia, un segretario di partito, qualche giornalista, il rampollo di uno dei quattro cavalieri, il genero di un altro cavaliere... Quelle foto sono la prova più evidente delle collusioni denunciate da Fava. Lui non sa della loro esistenza. In Procura, invece, lo sanno benissimo: le trovano durante una perquisizione, a casa di un mafioso ammazzato. E le tengono nascoste. Finché uno scrupoloso capitano dei Carabinieri non le spedisce a Palermo, al giudice Giovanni Falcone. Stanno agli atti del maxiprocesso, quelle foto.
Dopo il delitto, invece di partire dalle cose scritte da Fava, invece di partire da quelle foto insabbiate, la Procura di Catania "indaga a 360 gradi" e, secondo La Sicilia, si ipotizzano "questioni di natura privata"; i padroni della città, per voce del proconsole andreottiano Nino Drago, invitano i magistrati a "chiudere presto le indagini altrimenti i cavalieri se ne andranno". Dopo due anni dall'entrata in vigore, a Catania viene applicata per la prima volta la legge La Torre che consente le indagini bancarie nelle inchieste di mafia: sono setacciati i poveri conti di Fava, dei suoi familiari e dei suoi collaboratori. Questa è la Procura di Catania, nel 1984. Questa è Catania.
Il quotidiano locale, nel corso degli anni, non perde occasione per intralciare le indagini e disorientare l'opinione pubblica, fino a tentare di screditare Maurizio Avola, il pentito che alla fine del 1993 confessa di avere partecipato all'omicidio e accusa il boss Nitto Santapaola e altri mafiosi di avere ammazzato Fava "per fare un favore ai cavalieri". Se nel frattempo non fossero morti, anche Costanzo e Graci sarebbero stati indagati per il delitto. I giornalisti dei Siciliani, in occasione del tentativo di screditare Avola, denunciano Tony Zermo, inviato e editorialista di punta del quotidiano di Ciancio. Lo denunciano per favoreggiamento degli assassini di Fava, ucciso dieci anni prima. Una denuncia senza seguito, smarrita nei meandri del Tribunale etneo.
Il 10 luglio del 2001 la Corte d'Assise d'Appello di Catania conferma gli ergastoli inflitti in primo grado ai "mandanti", Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, mentre assolve i sicari Marcello D'Agata, Vincenzo Santapaola e Franco Giammuso, condannati in primo grado. È definitiva, invece, la condanna a 7 anni di reclusione di Avola. "Aspetto di vedere le motivazioni - dice l'avvocato Fabio Tita, legale di parte civile dei Siciliani - voglio vedere come la Corte concilia la condanna già passata in giudicato di Avola con le assoluzioni. Forse che Avola stava su un'altra auto con altri killer?".
"Prima (e purtroppo anche dopo) che uccidessero Fava, e proprio per questo, non c'era libertà di informazione a Catania. Né c'è stato mai un vero mercato dei giornali. Non c'è mercato - sottolinea Roccuzzo - in una città da mezzo milione di abitanti nella quale c'è un solo giornale. "Non c'è spazio per due giornali", dicono. Dove lavoro io oggi, a Reggio Emilia (certo non voglio fare paragoni, almeno in termini di ricchezza sul territorio), ci sono tre giornali locali per centomila abitanti. E a Catania, come è a tutti noto, si producono ben più e più gravi fatti da raccontare". A Catania il monopolio dell'informazione scritta, radiofonica e televisiva è nelle mani di Mario Ciancio Sanfilippo, ex presidente della Fieg. Pensate che l'edizione siciliana della Repubblica si stampa qui, nella tipografia di Ciancio, ma le cronache regionali possono leggerle nelle altre otto province dell'isola non a Catania: nei comuni etnei viene distribuita l'edizione nazionale, purgata delle pagine siciliane.
Così, mentre in Procura, dopo gli anni di Tangentopoli e di Mafiopoli, torna a spirare vento di normalizzazione, un galantuomo come il presidente del Tribunale per i minorenni, Giambattista Scidà, va in pensione col marchio infamante, impresso dal Csm, di "magistrato aduso a formulare nei confronti dei colleghi accuse del tutto gratuite". Ha denunciato scandali, Scidà. Viene fatto passare per viosionario, pazzo, calunniatore. La città si stringe attorno all'anziano giudice, la cui rettitudine morale è nota a tutti; in pochi giorni vengono raccolte più di quattromila firme di persone che gli esprimono solidarietà. Firme inviate al presidente Ciampi e al Csm. Durante un'affollata assemblea, un docente universitario afferma: "C'erano due rompiscatole in questa città: uno lo hanno ammazzato, Fava; l'altro, Scidà, lo stanno infamando". Persino la Commissione parlamentare antimafia si schiera con Scidà, tessendone le lodi in due fitte pagine della relazione su Catania. Per l'organo di autogoverno dei magistrati, invece, Scidà è solo un uomo da bruciare.
Intanto La Sicilia, pochi giorni prima del convegno su Fava, rimpiange "la grande imprenditoria dei cavalieri del lavoro spazzati dall'ondata giustizialista seguita al delitto Dalla Chiesa". Il pezzo è firmato da Tony Zermo. Nel 1998, sempre Zermo, sceglie il giorno successivo all'anniversario del delitto per recriminare sulla scomparsa dei cavalieri, così bravi e potenti "da attirare non solo ammirazione, ma anche invidia, tanto che qualcuno, negli anni bui li soprannominò i "quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa" come se i mali della città dipendessero da loro". Giuseppe Fava derubricato a "qualcuno", "invidioso".
Solo la voce di Claudio Fava si leva contro le mistificazioni del quotidiano di Ciancio: "Quell'onda giustizialista a cui si riferisce Zermo non è mai esistita nei confronti di Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro. C'è stata semmai, e per lungo tempo, una risacca di impunità". Il giornalista, oggi europarlamentare dei Ds, nella lettera inviata al quotidiano aggiunge che, quella di Zermo, gli sembra "un'affermazione tragicamente ingenua: pensare cioè che quel modello d'affari, fabbricati a tavolino sulle esigenze e gli appetiti di un manipolo di imprenditori, sia stato davvero una ragione di sviluppo per Catania e per la Sicilia. È vero esattamente il contrario. Pochi signori definivano il destino della spesa pubblica mentre decine di altri imprenditori restavano ai margini, soverchiati, soffocati o risucchiati. Lei - scrive Fava, rivolgendosi al direttore del quotidiano - ricorderà, come tanti, quell'inimitabile intervista di uno dei cavalieri che a un giornale nazionale spiegava: ci siamo seduti e abbiamo deciso: a me le dighe, a te gli aeroporti e così via. Un ragionare degno di un'economia sudamericana. Basata su rapporti di forza e privilegi consolidati: non certo su meriti imprenditoriali. Che erano assai scadenti. Tant'è che, appena il mercato ritrovò il rigore delle regole, quei cavalieri furono spazzati via".
Dalle parole di Claudio Fava emerge chiaramente come La Sicilia non coltivi quella "memoria storica" che Nando dalla Chiesa attribuisce a Giuseppe Fava. "Il giornalismo di Fava - sostiene il sociologo, oggi senatore dell'Ulivo -, favorito dal suo rapporto fortissimo con la dimensione della storia, costruisce e ricostruisce i fatti, rielabora le informazioni, non si stanca di raccontarle. In questo senso ho detto altrove che Fava non era stato ucciso perché avesse capito di più, ma perché aveva dimostrato il coraggio di riproporre, di ricordare, laddove gli altri correvano a dimenticare, a seppellire. Con lui viene ucciso il giornalismo che sta nella storia Con Fava è stato ucciso un intellettuale, uno specifico modo di intendere la funzione dell'intellettuale nella Sicilia degli anni Ottanta".
Un giornalismo e un modo d'essere intellettuale che, con ogni probabilità, non piace nemmeno a Ferdinando Latteri, rettore dell'Ateneo di Catania, esponente di Forza Italia, che nel suo breve saluto ai convegnisti riesce a non citare nemmeno una volta Giuseppe Fava. Resta la promessa del preside di Lingue, Antonio Pioletti, il quale, parafrasando Francesco Saverio Borrelli, s'impegna a "continuare, continuare, continuare".

Vedi anche:
Giuseppe “Pippo” Fava: Gli invulnerabili di Catania

da Polizia e Democrazia - 2002