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giovedì 31 marzo 2011

martedì 29 marzo 2011

Violenza sessuale di lieve entità...ecco gli autori...




Emendamento 1707 sulla "Violenza sessuale di lieve entità", ecco gli autori:

Gasparri, Bricolo, Quagliariello, Centaro, Berselli, Mazzatorta, Divina.

Uno dei firmatari dell'emendamento ha dichiarato che serve a non far arrestare i giovani di 17 anni che hanno rapporti con una quattordicenne(!), in quanto quello sarebbe una violenza di minore gravità.


Fonte: blog di Filippo BERSELLI (Sindaco di Montefiore Conca (Rimini))

venerdì 25 marzo 2011

Generazione revolution: da Benghazi a Lampedusa

A volte una chiacchierata aiuta a chiarirsi e a chiarire le idee. Soprattutto quando l'interlocutrice è una come Alma Allende, che è una che ha seguito tutta la rivoluzione in Tunisia per il sito Rebelion. Le domande sono le sue, e le risposte le mie, che da due settimane sto qui a Benghazi con i ragazzi della rivoluzione. Dove sta andando la Libia? Perché in giro tutti gridano al complotto americano o islamista? Quale è stato il ruolo dell'informazione? Si può essere imparziali in un posto come questo? E infine Lampedusa. La Libia c'entra davvero qualcosa il boom degli sbarchi delle ultime settimane?

Gabriele, adesso che si è deciso l'intervento dell'ONU e le bombe degli alleati cadono sulla Libia, ci sono delle voci antimperialiste che tentano di dimostrare che la rivolta era stata preparata dall'inizio dalle potenze occidentali. Tu cosa ne pensi? C'è stato un disegno esterno o sono state rivolte popolari spontanee come in Tunisia e Egitto?

Non sono assolutamente d'accordo con chi grida al complotto. In Libia, come in Tunisia, in Egitto, in Yemen, e adesso anche in Siria, le rivolte sono state spontanee e popolari e non sono il frutto di complotti americani, ma piuttosto la risposta più naturale che potevamo aspettarci dopo decenni di dittature sostenute dalle grandi potenze in nome della stabilità e dei buoni affari. Stupisce che certe teorie cospirazioniste arrivino dagli ambienti di sinistra. Ma forse è anche perché queste rivoluzioni trascendono e superano le categorie della sinistra. È un paradosso interessante da analizzare. In piazza al Cairo, come a Tunisi e a Benghazi, ci sono soprattutto i poveri. Ma i poveri non chiedono salari, non gridano contro i padroni, non si identificano come classe operaia. O almeno non ancora. Prima di tutto chiedono la libertà e prima di tutto si identificano come cittadini. E uno degli strumenti principali che gli permette di organizzarsi è un oggetto di consumo. Forse il simbolo dei beni più futili del consumismo: il computer con cui mettersi in rete, e i videofonini per registrare quello che succede per strada. Infine c'è un elemento generazionale. Sono paesi giovani, al contrario dell'Italia dove il cittadino medio è cresciuto nella guerra fredda. Qui la maggior parte della popolazione ha meno di 25 anni e spinge per il cambiamento. Un cambiamento che sulla riva nord non sappiamo capire, anche per un approccio razzista e coloniale di cui non riusciamo a liberarci. L'Europa si ritiene unica depositaria della democrazia. Come se fosse un concetto che potesse appartenere a qualcuno e non ad altri. E ritiene impossibile che un paese musulmano possa aspirare alla libertà anziché all'oscurantismo religioso. Ecco perché attecchiscono le tesi cospirazioniste. Non riusciamo a accettare che alla “nostra” decadenza corrisponda il “loro” risorgimento.


Perché credi che gli USA, l'UE e pure l'Italia abbiano deciso per un intervento "umanitario" contro un amico e alleato?

Credo fondamentalmente per un errore di calcolo. Mi spiego. In un primo momento sembrava che il regime di Gheddafi sarebbe imploso su se stesso nel giro di pochi giorni. In Tunisia e in Egitto era andata così. E in quei giorni c'è stato un rincorrersi delle potenze mondiali per condannare la dittatura libica e mandare segnali di apertura agli insorti, in modo da garantirsi la continuità dei contratti di petrolio e degli appalti miliardari che la Libia offre e offrirà nei prossimi anni. Poi è successo che Gheddafi si è dimostrato un osso più duro del previsto, e ha riguadagnato terreno grazie al temporeggiare delle Nazioni Unite e all'ingresso in Libia di mercenari professionisti della guerra, venuti da altri paesi africani, e impiegati in una campagna di guerra nelle città degli insorti. A quel punto le potenze internazionali hanno dovuto fare una scelta per proteggere i propri interessi in Libia. O scommettere sugli insorti, e preparare le armi. Oppure tornare sui propri passi, con il rischio molto alto che un personaggio come Gheddafi, risentito per l'affronto, cancellasse i contratti con le compagnie di quegli Stati, sulla base della sua nota gestione personale e lunatica del sistema Libia.


Chi fa parte del Consiglo Nazionale Libico? Sono agenti del imperialismo, bravi rivoluzionari, un mischio di tutto?


Sono personaggi di varia estrazione. Soprattutto avvocati, giudici, uomini d'affari e qualche faccia pulita del regime che ha abbandonato Gheddafi in tempo e che non ha le mani sporche di sangue. Alcuni sono rientrati in Libia dopo anni di esilio all'estero, soprattutto negli Stati Uniti. Dalle loro dichiarazioni è chiaro che ambiscono a una Libia unita, con capitale Tripoli, che sia retta su un sistema costituzionale, parlamentare e partitico, che rispetti i vecchi contratti del petrolio e che veda riconosciuta la libertà di espressione, di associazione, di impresa e di pensiero. Il lavoro che hanno davanti è lunghissimo, perché in Libia da 42 anni la società civile è stata azzerata. Non esistono associazioni. Non esistono sindacati. Non esistono partiti politici. Non esistono istituzioni. C'è soltanto la rete dei comitati popolari di Gheddafi, le sue forze speciali di sicurezza, un esercito che non conta niente, e la mano lunga del grande capo che decide su tutto in base al suo umore.


C'è una sinistra più o meno organizzata a Benghazi? Che ruolo hanno giocato i giovani?

La sinistra non c'è e se c'è non si vede. Di nuovo, non ci sono e non ci sono stati partiti negli ultimi quarant'anni. Ogni forma di dissenso è stata repressa. L'unica forma di opposizione interna negli ultimi decenni è stata quella dell'islam politico. Represso durissimamente dalla dittatura. Basti pensare ai 1.200 islamisti fucilati in una notte nel carcere di Abu Salim a Tripoli nel 1996. E anche la rivoluzione del 17 febbraio è esplosa sulla scintilla di una loro protesta, quando il 15 febbraio i familiari delle vittime sono scesi in piazza per chiedere giustizia. Per il resto è un movimento spontaneo, fatto soprattutto di giovani, anche ingenuo se volete, ma nel senso positivo del termine. Nel senso che c'è una generazione che senza farsi troppi sofismi ha deciso che per la libertà vale la pena lottare e che ha deciso di porre fine al regime di Gheddafi, anche a costo della vita.


Quale era la situazione sociale ed economica nella Cirenaica prima delle rivolte? La Libia, non è un paese ricco? Allora, perché protesta?

Questa è un'altra cosa interessante. A differenza della Tunisia e dell'Egitto, la Libia è un paese ricco. Anche in questi giorni si vedono in giro fuoristrada nuovi di pacca e le case dove sono entrato sono case di classe media. I poveri in città sono soprattutto gli stranieri. Egiziani, sudanesi, chadiani, tunisini, marocchini, nigeriani, emigrati in Libia a cercare fortuna e finiti a fare i lavori più umili e meno pagati. Diverso è il discorso della campagna e del mondo rurale, che vive molto al di sotto del tenore di vita delle città. Ma di nuovo, qui non si protesta per i salari. Non ho mai sentito nominare la parola “salario” in piazza. Certo si grida allo scandalo per la corruzione, ma il punto principale è la libertà e la fine della dittatura e del terrorismo di Stato. Poi è chiaro che tutti credono che una gestione del petrolio attenta al bene pubblico porterà grande ricchezza al paese, più istruzione e qualità della vita. Ma il punto principale, di nuovo, è la libertà.


Gli abitanti di Benghazi, hanno veramente richiesto l'intervento? Non hanno paura di perdere il controllo sulla loro rivoluzione? Di perdere di credibilità a livello internazionale?

Gli abitanti di Benghazi hanno le idee chiare su due punti. Vogliono la no fly zone e i bombardamenti degli alleati sull'aviazione di Gheddafi e sui suoi armamenti pesanti che minacciano i civili. E allo stesso tempo non vogliono l'ingresso delle truppe straniere né l'occupazione militare. Lo dice la piazza e lo ribadisce il consiglio transitorio nazionale.


Gli antimperialisti che parlano di cospirazione si chiedono come mai i manifestanti si sono armati subito dopo i primi giorni. Da dove hanno tirato fuori quelle armi? Chi ha rifornito i ribelli?

Strano che invece non si chiedano chi ha armato Gheddafi e da dove ha tirato fuori tutti quei carri armati e quei lanciamissili con cui sta terrorizzando i civili. Ma venendo alla domanda, la dinamica è molto semplice. Il 15 febbraio inizia la protesta a Benghazi. L'esercito, come a Tunisi e al Cairo, si rifiuta di sparare sul popolo. Ma lo fanno al suo posto le forze speciali di sicurezza di Gheddafi. In pochi giorni è un massacro, almeno 300 morti. A quel punto l'esercito sotto la pressione del popolo, apre le caserme e lascia che i ragazzi prendano i vecchi kalashnikov e i pochi lanciarazzi che si trovano nei depositi. Grazie a quelle armi riescono a cacciare dalla città le forze speciali di Gheddafi. E con quelle stesse armi difendono la città di Benghazi e liberano le città vicine di Ijdabiya, Brega e Ras Lanuf. Fin quando Gheddafi gli spedisce contro unità speciali e mercenari armati di carri armati e lanciamissili e appoggiati dall'aviazione militare che semina il panico tra le file degli insorti bombardando il fronte. Poi è vero che, nei giorni successivi alle prime disfatte militari contro l'armata di Gheddafi, sono arrivate in città nuove armi e nuove munizioni. Sempre vecchi kalashnikov e un po' di contraerea. Qualcuno ha rimesso in moto tre elicotteri e due aerei militari Mirage, entrambi poi abbattuti, uno dal fuoco amico e l'altro per un'esplosione del motore. Comunque se è un mistero da dove siano arrivate le nuovi armi, è invece certo che si tratti di armi leggere e di pessima qualità. In quanto ai presunti addestratori militari su cui tanto si è speculato, diciamo che a giudicare dal caos sul fronte si direbbe che non sono mai arrivati.


Come credi che l'intervento occidentale possa influenzare il corso della rivoluzione libia e araba?

Dipende tutto da quali decisioni saranno prese. Per ora il bombardamento dell'artiglieria pesante di Gheddafi ha semplicemente evitato un massacro. Certo sono stati uccisi decine e forse centinaia di soldati e mercenari libici. Certo si poteva evitare intervenendo prima con la diplomazia, magari dieci anni prima, anziché corteggiare il dittatore dai tempi della fine dell'embargo nel 2004. Ma stanti così le cose, quel bombardamento ha evitato che trenta carri armati e venti lanciamissili entrassero a Benghazi, quando erano già alle sue porte, e dopo che un solo giorno di battaglia in città aveva fatto 94 morti! Piaccia o non piaccia la guerra, e a me non piace, di questo stiamo parlando. Adesso però bisogna che l'intervento militare si fermi, e che il resto del lavoro lo facciano i libici. Perché il problema non è guerra sì o guerra no. La guerra c'è già. Ed è una guerra di liberazione. Di un popolo contro il regime, i suoi fantocci e suoi mercenari. E non deve diventare una guerra coloniale contro un governo nemico dei propri interessi particolari. Per quello che ho visto in questi giorni, io mi sento di appoggiare pienamente il popolo libico. Nella migliore delle ipotesi ne uscirà una repubblica costituzionale basata su un sistema economico liberista. Può non piacerci, ma è quello che piace ai libici e avranno pure il diritto di scegliere del proprio futuro! Sostenere Gheddafi in nome della sua maschera socialista e terzomondista è non solo da sciocchi ma da complici di un criminale di guerra.


"A Gheddafi non va torto un capello, le foto della sua casa bombardata mi fanno star male", dice Berlusconi. Dice anche di voler fare un blitz in prima persona a Tripoli, per negoziare con il Rais "un'uscita di scena onorevole". Per quale motivo?

Berlusconi dice così un po' per il suo delirio di onnipotenza e la sua continua ricerca di un posto tra i grandi statisti della storia italiana. E un po' per distrarre l'opinione pubblica italiana e internazionale dall'immagine di puttaniere che gli si è ormai incollata addosso dopo gli ultimi scandali sessuali così morbosamente indagati da magistratura e stampa italiana.


Parliamo di Lampedusa. Undicimila migranti sbarcati, di cui tremila oggi presenti ancora sull’isola, circa duemila trasferiti. All’appello ne mancano tra i cinquemila e gli ottomila che il ministero dell'Interno dice di aver già "distribuito" sul territorio, come se il numero di posti disponibili nei CIE e nei CARA non fosse un dato pubblico. La fabbrica della clandestinità insomma funziona a pieno regime. Anche se non sembra che ci siano libici tra i migranti, c'è un nesso con la Libia?

No, per ora il nesso con la Libia non c'è. Ci sarà presto, appena torneranno a partire da Zuwara, presumibilmente dopo la fine della rivoluzione. Ma per ora non lo vedo. Sull'isola non sta arrivando nessuno in fuga dalla Libia. Certo, di stranieri da qui se ne sono andati almeno 250.000, soprattutto egiziani e tunisini, e poi cinesi e bangladeshi e altri, ma ormai sono in buona parte rientrati a casa in attesa di tornare a lavorare in Libia. Mentre i profughi libici per adesso si spostano da una città all'altra del paese, cercando rifugio nelle zone liberate, a est. A Lampedusa invece sono arrivati finora esclusivamente tunisini. E perlopiù originari di Zarzis, Djerba e Tataouine. Di nuovo anche qui all'origine dell'impennata delle partenze non c'è il caos generato nel paese dalla rivoluzione, come molti hanno detto invocando l'asilo politico e parlando di profughi. Ci sono invece due fattori. Uno più contingente legato alla crisi economica della costa tunisina seguita al crollo del turismo crollato dopo le notizie dell'insurrezione. Il secondo é legato all'avventura collettiva. Di nuovo, ragionare soltanto in termini di crisi é riduttivo e razzista perché ci fa dimenticare che parliamo di ragazzi, uguali a noi, con i loro sogni e il loro gusto per le sfide. Migliaia di giovani con la rivoluzione hanno imparato che ribellarsi é giusto. E magari senza neanche averlo razionalizzato, hanno iniziato a ribellarsi all'ingiustizia della frontiera. Vogliono andare a Parigi dai parenti, vogliono lavorare qualche mese, vogliono vedere la riva nord, vogliono fidanzarsi con un'italiana. Vogliono viaggiare. Il perché sono fatti loro, dopotutto viaggiare non é un'esclusiva dei disperati, ma al contrario una parte imprescindibile della vita di ogni ragazzo nel mondo di oggi. E per farlo violano una legge che ritengono ingiusta. A me sembra un atto di ribellione che porta con sé uno straordinario potenziale. Per quello dico che in fondo non è un male che Lampedusa sia sovraffollata. Perché pone delle questioni serie in modo esplosivo. Il regime di criminalizzazione della libertà di circolazione deve cadere, esattamente come sono cadute le dittature del sud del Mediterraneo. I tempi sono ormai maturi.


Scrivendo da Benghazi non hai avuto l'impressione di essere di parte? Come giudichi le qualità dell'informazione sulla Libia in generale e quelle da Benghazi in particolare? Ci hanno manipolato? Chi? La sinistra - certa sinistra - dice, per esempio, che Gheddafi non ha mai bombardato i manifestanti e che questo dimostra che é tutto una bugia. Ma anche certi giornalisti di sinistra - come Matteuzzi de Il Manifesto o Telesur - hanno dato una informazione parziale o direttamente falsa.

Certo che sono di parte. Ne sono consapevole e fiero. Ogni racconto ha un punto di vista. E è importante scegliere il proprio. Così come scrivo di frontiera assumendo il punto di vista dei respinti e delle famiglie dei morti in mare anziché quello della borghesia europea o della polizia di frontiera, così ho raccontato le rivoluzioni in Tunisia e in Egitto stando in mezzo agli insorti e non tra gli scagnozzi dei dittatori. In Libia è lo stesso. Non voglio essere il portavoce di un criminale di guerra come Gheddafi. Vorrei invece essere a Tripoli, quello sì, e raccontare il dissenso della capitale, che è scomparso dalle notizie dopo che le prime timide manifestazioni sono state represse nel sangue e dopo che tutti i giornalisti embedded sono stati rinchiusi negli alberghi e costretti a coprire solo le notizie selezionate dal regime. Per cui sì sono di parte, e preferisco essere dalla parte di chi lotta per la libertà anziché da quella di chi impiega truppe mercenarie e lanciamissili per attaccare il proprio popolo, perché non vuole mollare il potere dopo 42 anni di dittatura. Poi la sinistra va in crisi perché Gheddafi è stato un simbolo per un certo socialismo e un certo terzomondismo. E ha ancora oggi molti amici. Tra cui Chavez e dunque Telesur, e Valentino Parlato e dunque il Manifesto. Quindi non citerei queste due testate come buoni esempi di giornalismo rispetto alla questione Libia. Come pure non citerei la tv Al Arabiya che ha messo in giro la cifra falsa dei 10.000 morti, e tutte le altre testate che hanno rilanciato senza prove la notizia dei bombardamenti sulle folle dei manifestanti e delle fosse comuni arrivando addirittura a usare a sproposito la parola genocidio. In questo emerge per l'ennesima volta la scarsa qualità del giornalismo odierno, soprattutto quello italiano. Soprattutto quando si tratta di raccontare fenomeni che escono dalle abituali categorie di pensiero. Il socialismo e la dittatura, la guerra e la pace, l'islam e la democrazia. Proprio per quello mi sembra importante essere qui e scrivere a partire dalle storie dei veri protagonisti di questa rivoluzione. I ragazzi della nuova generazione libica.

da FortressEurope

Ergastoli bianchi - Gli inferni legalizzati.


Inchiesta sugli OPG - Ospedali Psichiatrici Giudiziari
di Federica Pennelli

OPG - Ospedali Psichiatri Giudiziari - Cosa sono?
Sono strutture giudiziarie dipendenti dall’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia che, a metà degli anni ’70, hanno sostituito i precedenti manicomi criminali. Il ricovero in Ospedale Psichiatrico Giudiziario è trattato dall’articolo 222 del Codice Penale, su cui si è più volte espressa la Corte Costituzionale.
IL DPCM del 1 aprile 2008 (GU n. 126 del 30-5-2008), entrato in vigore il 14 giugno 2008, sancisce il passaggio della funzione sanitaria in tutti gli Istituti penitenziari (adulti e minori e OPG) dal ministero della Giustizia a quello della Salute.Nella “riforma” dell’attuale DPCM, con il relativo trasferimento della competenza sanitaria al Ministero della Salute (il Titolo V° della Costituzione), si individuano gli interventi clinico-riabilitativi delle funzioni sanitarie (che passano al SSN), e quelli di sicurezza che rimangono di competenza al DAP ed alla Magistratura. Inoltre, viene sottolineato che “l’ambito territoriale costituisce la sede privilegiata per affrontare i problemi della salute, della cura, della riabilitazione delle persone con disturbi mentali” analogamente a quanto aveva previsto, per la psichiatria civile la legge “180”, recepita dalla legge n. 833 del 12 dicembre 1978.
Marzo 2011 - La Commissione d’inchiesta SSN del Senato della Repubblica sta monitorando settimanalmente ciascuna struttura per avere notizie degli internati che dovrebbero essere stati dimessi già da mesi o anni: su 376 internati dichiarati dimissibili per ora solo 65 sono stati effettivamente dimessi, mentre per altri 115 è stata prevista una proroga della pena.
Di questi ultimi, solo 5 sono ancora internati perché ritenuti "socialmente pericolosi", tutti gli altri non hanno varcato i cancelli dell’ Opg perché non hanno ricevuto un progetto terapeutico, non hanno una comunità che li accolga o una Asl che li assista.
In questi luoghi l’internamento continua a prevalere sulla cura ed è questo che la Commissione ha fatto emergere tramite testimonianze video e audio girate - senza preavviso - all’interno degli OPG: questi lager vanno chiusi, subito.
Testimonianze dei Direttori Sanitari e Penitenziari degli OPG di Reggio Emilia e Aversa
Dott.ssa Valeria Calevro - Psichiatra, Direttore Sanitario OPG Reggio Emilia "[…] io spero che si possa lavorare per superare gli OPG. […] l’OPG prima del 2008 era sicuramente un paradosso, adesso secondo me lo è ancora di più perchè il paradosso - come dice lei di coniugare la custodia con la cura di una malattia psichiatrica dove quindi anche la possibilità di usufruire anche di un ambiente più sereno è molto importante - è stato ulteriormente aggravato. "Dott..ssa Carlotta Giaquinto - Direttore Penitenziario OPG di Aversa "L’indagine ha messo in evidenza una serie di problematiche esistenti purtroppo da molto tempo negli OPG […] il personale sanitario e parasanitario è scarso e non riesce a farci fare quel salto di qualità per farci passare da carcere ad ospedale."

Testimonanze:
On. Ignazio Marino - chirurgo, presidente della "Commissione Parlamentare d'inchiesta sul SSN del Senato della Repubblica"
“[…] nalla maggior parte di questi OPG i malati hanno meno di 30 minuti al mese di contatto con gli psichiatri. Nel primo luogo in cui siamo entrati l’estate scorsa - nell’OPG di Barcellona Pozzo di Gotto - abbiamo trovato un uomo nudo legato con delle garze ad un letto di ferro arrugginito con un buco al centro per la raccolta dell’urina e degli escrementi: condizioni non tollerabili in un paese civile e democratico.”.

Massimo Cirri - psicologo, conduttore di "Caterpillar" (Radio 2) e di "La terra è blu" - Solo “matti” in onda alla radio, un’ora di salute mentale radiodiffusa" (su Radio Popolare di Milano e Roma e Radio Fragola di Trieste).
A lui abbiamo chiesto un parere rispetto le immagini girate all’interno degli OPG italiani e un commento rispetto alle dichiarazioni di alcune Regioni in merito alla difficoltà economiche di reinserimento delle persone che dovrebbero al più presto uscire dagli OPG.
"Guardare le immagine trasmesse a "Presa Diretta" colpisce e ci riporta indietro ad una dimensione di reclusione, di tortura, di annichilimento, di sofferenza. L’idea che devi nostri concittadini siano tenuti in quelle condizioni, legati al letto, colpisce […] mi permetto di dire una cosa ma non in senso provocatorio: stiamo parlando di 1.500 persone all’interno degli OPG (quelle che indica la Commissione) di cui 300 che potrebbero essere dimesse immediatamente. Siamo la quinta, la sesta potenza economica mondiale? Il fatto che non si voglia trovare quella miseria -rispetto a tante altre spese - per cambiare la vita a questi sciagurati concittadini prima di essere una questione economica è una questione etica, politica, di scandalo."

Peppe dell’Acqua - psichiatra, Direttore del "Dipartimento di Salute Mentale" di Trieste
"Il commento a caldo è che era ora che se ne parlasse in maniera così diffusa. Malgrado questo impegno non è così recettiva quell’opinione pubblica ma anche quei Servizi e quegli apparati che su questo devono lavorare. […]e’ un punto programmatico del Forum di salute mentale quello della chiusura degli OPG"

Francesco Paolo Bisanti - ex internato Opg di “Madìa” di Barcellona Pozzo di Gotto
Francesco ci racconta la sua storia all’interno dell’OPG e di come - attraverso l’art. 21 prima e alla semilibertà poi - abbia ricominciato a vivere fuori dalle mura dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario.
Una storia da ascoltare tutta d’un fiato.
Francesco Cordio- regista ed attore che ha realizzato per conto della “Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficenza del Sistema Sanitario Nazionale del Senato della Repubblica” il documentario sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, presentato con degli estratti nel programma "Presa Diretta" di Riccardo Iacona nel 2011.
A lui abbiamo chiesto di raccontare le impressioni rispetto alla situazione che hai trovato all’interno degli OPG e cosa ha significato per lui girare questo documentario.
"Io ho lavorato in molte situazioni gravi e deprecabili - anche nelle Favelas Brasiliane - ma come questo posto mai…non ho mai provato quello che ho provato in questi luoghi orribili […] ho faticato a riprendere le cose che avevo davanti e preferivo guardarlo con gli occhi che attraverso la telecamera"

Palermo: scontri presentazione libro Casapound alla Mondadori a Palermo ·



23 Marzo 2011 -- Palermo : Ancora una volta, la stretta ed efficace cooperazione tra forze di polizia e fascisti si dimostra palese quanto consolidata.
La Mondadori, che in questa situazione ha avuto un ruolo fondamentale nonostante una settimana di campagna di boicottaggio cittadino nei loro confronti, ha fatto i suoi oscuri conti e ha deciso di chiudere al pubblico la libreria per un pomeriggio, rinunciando a tutti gli eventuali introiti e di dedicarla totalmente alla presentazione del libro dei fascisti di Casa Pound.Fascisti perchè così si dichiarano e da tali si comportano. Nella grande opera di revisionismo storico la cultura diventa un comodo cuscinetto che riporta l'opinione pubblica alla vecchia teoria degli opposti estremi ma questa non è una storia di "rossi" e "neri" perchè spesso si sminuisce il ruolo dei "blu".
Oggi sin dalle prime luci dell'alba la libreria Mondadori è stata militarizzata e con questo è stata garantita la presentazione del libro e il presidio di una cinquantina di militanti di estrema destra, protetti da due cordoni di polizia da un lato e guardia di finanza dall'altro in assetto antisommossa.
L'iniziativa è stata denunciata al prefetto in quanto, questa "semplice possibilità di espressione" è di chiaro stampo fascista e va in contrapposizione con la nostra costituzione ma questo poco importa a chi dovrebbe stare a tutela delle leggi.
Le forze dell'ordine hanno mantenuto la parola data: proteggere i neofascisti e caricare chi si è opposto a coloro i quali, fanno propaganda razzista, xenofoba e sessista, dietro la retorica della libertà di espressione. A differenza di ciò che è stato scritto da certa stampa compiacente, CasaPound non è nuova ad episodi di pestaggi, accoltellamenti e aggressioni.

In realtà oggi, un piccolo spazio lo hanno avuto in una libreria chiusa al pubblico blindati e scortati dalla polizia.

www.bandaradio.info

http://www.youtube.com/watch?v=DpA9f9HP_E0

da Antifa

LA BUFALA DELL'AFFAIRE VENDOLA-VERZÈ

Circola in rete da qualche giorno la notizia, per certi versi clamorosa, secondo la quale la regione Puglia avrebbe finanziato al 100% la costruzione a Taranto di un ospedale privato facente capo a Don Verzè, il dinamico e molto discusso sacerdote diventato negli anni un vero e proprio boss della sanità nazionale. Sbuca da ogni dove, dai social-network rimbalza nei blog e nelle mailing-list, in versione estesa o riassunta con toni sempre più esaltati e si fa strada soprattutto tra i delusi dalla politica, tra il popolo di sinistra, e tra quanti hanno fatto della condivisione delle notizie in rete il metodo principale per conoscere il mondo.
L'origine di questa bufala, un vero e proprio falso, sembra essere un articolo pubblicato sul sito Terra Nostra, dal titolo "Vendola regala 60 milioni a don Verzé, socio di Berlusconi" che dice diverse cose che ai potenziali elettori di Vendola possono risultare indigeste, ma che sono platealmente false. Lo stesso articolo è stato rimaneggiato e riproposto più volte da siti come nuovaresistenza.org, stopthecensure.blogspot.org ed altri ancora, per non parlare di pagine di Facebook seguite da decine di migliaia di persone, fino a dilagare quasi ovunque.
Secondo l'autore: "Il costo del nuovo ospedale polo tecnologico ammonta – per il momento – a 120 milioni di euro, interamente versati dalla Regione Puglia".
L'ospedale è stato presentato a inizio articolo con le parole: "Quattrini pubblici per il “San Raffaele del Mediterraneo”: il nuovo mega ospedale privato che sarà realizzato a Taranto dalla fondazione San Raffaele di Luigi Verzé".
Lo stesso autore cade però in contraddizione scrivendo "Terra Nostra ne aveva già scritto in passato: il 28 maggio scorso, a Taranto, si è costituita, in presenza di un notaio, la Fondazione San Raffaele del Mediterraneo, che gestirà il complesso ospedaliero" e qui i lettori attenti avrebbero potuto rilevare una differenza cruciale, anche se per loro ignoranza non si avessero realizzato subito che le leggi del nostro paese non permettono affatto un'operazione del genere. Il resto dell'articolo è fuffa retorica sull'inciucio con i berlusconiani e sulla mancanza di una gara d'appalto, che però non c'entra niente con questo stadio dell'impresa, interessando semmai la costruzione e le
forniture del futuro ospedale.
Così com'è chiaro che un'impresa del genere non sia e non sarà affatto "senza controlli" come affermato spensieratamente nell'articolo, i controlli contabili e di legittimità sono gli stessi previsti per imprese del genere dalla legge e sono obbligatori
Perché l'articolo prima dice che l'ospedale sarà realizzato dalla Fondazione San Raffaele e poi spunta una seconda fondazione, appena costituita? È bastato un motore di ricerca per reperire una fonte locale, approfondire e svelare il mistero, confermando l'impressione di partenza che l'articolo fosse un falso clamoroso. Perché Terra Nostra abbia prodotto un tale falso non si sa, il sospetto è che siano partiti in tromba sulle ali di una faciloneria fin troppo diffusa in certi ambienti, certi richiami retorici e certi stilemi (Berlusconi è un nostro dipendente) rimandano all'ingenuo approccio alla politica e al sensazionalismo tipico di tanti gruppi cresciuti all'ombra di Beppe Grillo,
sarà forse per questo che dal sito traspare un robusto astio verso Vendola,tre articoli "contro" Vendola su nove in home colpiscono su un sito che si occupa d'ecologia e ne restituiscono l'immagine di un mostro nemico dell'ambiente.
Forse Vendola è visto come concorrente politico "naturale" del movimento che a Grillo fa riferimento, ma sono supposizioni di scarsa importanza.
Con queste considerazioni non voglio dire che ci sia malafede manifesta, ma che questo modo di partire in quarta e sparare alto senza curarsi troppo di verificare quel che si dice, non è una novità. Molte delle persone che s'impegnano in queste iniziative (siti, gruppi, organizzazioni) sono tanto naif che spesso si capisce che non sono in grado di afferrare certe sottigliezze e di capire che certe azioni possono risultare controproducenti e pericolose per le stesse idee che vogliono promuovere. È appena il caso di ricodare che lo stesso Grillo; mentore ed esempio di tanti che ne hanno seguito le orme anche al di fuori del suo movimento; nel tempo ha sposato una discreta serie di bufale, portandosi dietro migliaia di persone e poi lasciando cadere tutto nel silenzio quando la verità è emersa incontestabile a provocargli imbarazzo.
C'è poi una robusta produzione di senzazionalismo a sfondo ecologico che indigna tanti puri, ma che rischia di indirizzare l'interesse e le proteste verso falsi bersagli, oltre che di procurare grosse grane a chi si abbandona senza fare attenzione a certi eccessi e ancora più fastidi ai poveri "colpevoli" di nefandezze mai compiute, che occasionalmente vengono additati
dagli improvvisati Savonarola.
Ma torniamo all'ospedale e alla "Fondazione Don Verzè per il Mediterraneo", che nella realtà è una fondazione mista pubblico-privata, i soci della quale sono Regione Puglia, Asl di Taranto e Fondazione San Raffaele del Monte Tabor.
Una società nella quale la fondazione di Don Verzè è in minoranza, come peraltro è facile intuire dai rispettivi investimenti. Pubblico-privata sarà anche la gestione dell'ospedale, che sarà inquadrato nel Servizio Sanitario Nazionale. I terreni sul quale sarà costruito, insieme a un Polo Tecnologico sono dell'immobiliare del Ministero dell'Economia (ovviamente pubblica), che li conferirà in cambio della concessione dell'edificabilità su altri terreni di sua proprietà, ma non edificabili.
Il finanziamento dell'ospedale non ricadrà affatto solo sulla Regione Puglia, il suo costo stimato è infatti di 210 milioni di euro e, secondo gli accordi, 120 li mette la Regione Puglia, 80 la Fondazione San Raffaele di Don Verzè e gli altri 10 lo stato centrale. Le differenze con la versione di Terra Nostra sono clamorose ed evidenti anche sui conti, che è difficile equivocare. Se non si tratta di malafede dev'essere incapacità di comprendere i testi più elementari unita all'ignoranza crassa delle leggi e delle situazioni che si condannano.
Secondo quanto annunciato, la prima pietrà sarà posata a novembre prossimo e in tre anni Taranto dovrebbe avere un polo ospedaliero d'eccellenza. Una realizzazione in tempo record per gli standard italiani e un tipo d'ospedale del quale al Sud si sente grande bisogno, la mancanza del quale costringe ogni anno molti pazienti a una vera e propria migrazione verso Nord in cerca di cure non disponibili in zona.
Ovviamente nessuno può giurare che tutto andrà per il verso giusto, ma è chiaro che le cose non stanno esattamente come è stato fatto credere a tanti che poi si sono scandalizzati, per quello che è stato presentato come il regalo di denaro pubblico a un berlusconiano di ferro. Tanto più che il PDL locale ha pubblicamente avversato l'accordo, insieme alla cd "sinistra radicale" ritenendo evidentemente che l'opposizione a Vendola paghi di più del sostegno a Don Verzè, che pure è notoriamente vicino al caro leader. Altrettanto ovviamente la questione non è nella scelta politica di uno strumento del genere o sull'opportunità di preferire altri investimenti a questo, qui si tratta di
un falso maldestro e calunnioso.
L'anziano boss della sanità privata non raccoglie certo le mie simpatie e non è nuovo al ricevimento di favori da parte della politica, ma l'operazione è plausibile sotto molti punti di vista, sia perché il socio privato porta un know-how di difficile reperimento, sia perchè in italia non è facile trovare partner privati con esperienza nella sanità che siano meno discussi della Fondazione San Raffaele, che dalla sua ha il conseguimento di risultati e standard elevati certificati non solo dagli amici degli amici. Se poi i tempi di realizzazione saranno rispettati, i tre anni previsti sono davvero un tempo brevissimo, ancora di più se confrontati con i tempi medi di realizzazione degli ospedali pubblici in Italia, alcuni dei quali hanno impegnato le amministrazioni per decine d'anni, e molti dei quali; nonostante i tempi biblici; non sono mai stati terminati o terminati solo parzialmente, vittime della pochezza e della volatilità di amministrazioni che nel loro susseguirsi nel tempo vedevano l'affare più nel cantiere perenne, che nel completamento delle opere.
Ora, che Terra Nostra abbia preso un granchio o che si sia lanciata in un'operazione in malafede è poco importante vista la marginalità del sito foggiano, molto più interessante è che da un lato la notizia sia stata diffusa acriticamente come un lampo, nonostante la palese inverosimiglianza, tra una folla fin troppo abituata a non approfondire temi e notizie e fin troppo abituata a rilanciare e diffonderle in rete senza verificarle, ancora di più se eclatanti. Dall'altro lato c'è l'evidenza per la quale, nonostante la notizia abbia sicuramente raggiunto un numero notevole di giornalisti, molti dei quali "di sinistra", nessuno di questi abbia trovato il tempo o la voglia di smentire una bufala tanto evidente e clamorosa.
Un'evidenza che la dice lunga su quanto si presenti in salita la candidatura di Vendola alla Presidenza del Consiglio e sul fatto che, se le cose non cambieranno e se non riuscirà a raccogliere l'accordo dei maggiorenti della sinistra, non può contare nemmeno sul sostegno di quella stampa che dovrebbe guardare con maggior favore alla sua candidatura.

giovedì 24 marzo 2011

24 marzo, una data più volte tragica


di Lorenzo Repetto

Il 24 marzo è una data tragica, che ricorre nelle nostre menti per, almeno, tre grossi avvenimenti storici.

Il 24 marzo 1944 si verificò il MASSACRO DELLE FOSSE ARDEATINE, in cui morirono 335 civili e militari italiani per mano dei nazisti tedeschi. Questa fu una rappresaglia per l’azione partigiana del giorno precedente in Via Rasella, che vide la morte di 33 soldati tedeschi.

Il 24 marzo 1976, in Argentina, una giunta di militari, guidata dal tenente-generale Jorge Rafael Videla, fece un COLPO DI STATO ai danni dell’allora presidentessa Isabelita Peròn.

La nazione sudamericana cadde preda di una dittatura dalla ferocia inaudita, cancellante ogni diritto umano.

Non fu, peraltro, l’unica nazione centro-sudamericana vittima di golpe militari in quel periodo.La dottrina dei servizi segreti statunitensi, infatti, attraverso l’OPERAZIONE CONDOR, mirava a destituire ogni possibile governo di sinistra o centro-sinistra (in maniera simile all’OPERAZIONE CHAOS e alla cosiddetta STRATEGIA DELLA TENSIONE), in parte per motivi ideologici, ma soprattutto perchè governi di quel tipo, attraverso l’emancipazione delle classi operaie e meno abbienti, avrebbero causato enormi danni economici alle aziende americane presenti sui quei territori.

In 5 anni questa dittatura di estrema destra causò il cosiddetto fenomeno dei DESAPARECIDOS. In pratica sparirono da ogni elenco cittadino, comunale, nazionale almeno 30.000 persone, sequestrate, torturate e poi uccise e fatte sparire in quanto “non allineate” al pensiero del regime, o anche solo per sospetti di non allineamento, quasi sempre infondati.

Il 24 marzo 1999 le truppe NATO iniziarono la cosiddetta GUERRA del KOSOVO.

Questo conflitto fu perpetrato contro la SERBIA e, in particolare, contro il suo primo ministro SLOBODAN MILOSEVIC, reo di una pulizia etnica di rara crudeltà contro la minoranza albanese residente nella nazione slava.

RICORDARE AIUTA A NON DIMENTICARE. NON DIMENTICARE AIUTA A NON RIFARE.

da Reset-Italia

G8 a Genova, Strasburgo assolve l'Italia "Non ha colpe per la morte di Giuliani"


La Corte europea dei diritti dell'uomo scagiona il nostro Paese: non è responsabile per l'uccisione del giovane durante gli scontri per il vertice dei grandi nel 2001. La sentenza è definitiva. Il padre del ragazzo: "Non ci arrendiamo e andiamo avanti"

BRUXELLES - La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, con sentenza definitiva, ha assolto oggi l'Italia dalle accuse di aver responsabilità nella morte di Carlo Giuliani avvenuta durante gli scontro tra manifestanti e forze dell'ordine nel corso del G8 di Genova. Con una decisione presa a maggioranza la Corte ha dato torto ai Giuliani su tutti i punti del loro ricorso e anche sulla parte che riguarda la conduzione dell'inchiesta sulla morte del figlio. I giudici della Grande Chambre non hanno rilevato lacune nell'indagine e su questo punto hanno, quindi, rovesciato il giudizio espresso in primo grado.

Con tredici voti a favore e quattro contrari i giudici della Grande Camera hanno stabilito la piena assoluzione di Mario Placanica, il carabiniere che sparò a Giuliani in piazza Alimonda, confermando così la sentenza di primo grado emessa il 25 agosto 2009. Inoltre la Grande Camera ha assolto l'Italia dall'accusa di non aver condotto un'inchiesta sufficientemente approfondita sulla morte di Giuliani: in questo caso la Corte si è espressa con 10 voti a favore e 7 contrari. La stessa maggioranza si è pronunciata anche per l'assoluzione dell'Italia dall'accusa di non aver organizzato e pianificato in modo adeguato le operazioni di polizia durante il summit del G8 a Genova.

Palcanica fu incriminato per omicidio volontario ma il procedimento venne archiviato dal gup Elena Daloiso il 5 maggio 2003. Nella sua ordinanza Daloiso, oltre ad accogliere la richiesta di archiviazione per legittima difesa avanzata dal pm Silvio Franz il 2 dicembre 2002, aveva sostenuto come l'uso dell'arma fosse stato "legittimo" e "assolutamente indispensabile e graduato in modo da risultare il meno offensivo possibile".

Scaduti i termini per il ricorso in Cassazione, gli avvocati Pisapia e Vinci avevano deciso di fare appello alla Corte Europea dei diritti dell'uomo. La famiglia Giuliani, nel ricorso a Strasburgo, ha invocato, in particolare, l'articolo 2 della Convenzione dei diritti dell'uomo (diritto alla vita), sostenendo che la morte di Carlo "è dovuta ad un uso eccessivo della forza" e considerando che "l'organizzazione delle operazioni per ristabilire l'ordine pubblico non siano state adeguate".

Nell'agosto del 2009 la Corte Europea dei diritti dell'uomo, cui i familiari di Giuliani erano ricorsi, ha stabilito che Placanica agì per legittima difesa. La stessa Corte ha tuttavia rilevato alcune carenze nel rispetto degli obblighi procedurali previsti dallo stesso articolo, condannando lo Stato italiano a pagare 40.000 euro ai familiari di Carlo Giuliani, 15.000 euro a ciascuno dei genitori e 10.000 euro alla sorella, in quanto "le autorità italiane non hanno condotto un'inchiesta adeguata sulle circostanze della morte del giovane manifestante" e che non fu avviata un'inchiesta per identificare "le eventuali mancanze nella pianificazione e gestione delle operazioni di ordine pubblico". E si arriva così ad oggi ed ha una sentenza che ribalta, in gran parte, la precedente pronuncia.

"Non è la prima brutta notizia che abbiamo. In ogni caso non ci arrendiamo, continuiamo la nostra battaglia per la verità - dice Giuliano Giuliani, il padre di Carlo - Dal punto di vista legale c'è un'ultima possibilità che sarà una causa civile contro chi ha sparato.Non c'è altra possibilità. Mi auguro che nessuno ci venga a dire che vogliamo rifarci su un povero carabiniere. Lo scopo della causa civile è avere un dibattimento processuale. L'unica cosa che non hanno ritenuto degna di un processo è stata l'omicidio di Carlo. E' vergognoso".

da La Repupubblica

mercoledì 23 marzo 2011

Ministero di giustizia e di morte

di Carmelo Musumeci
“ Si è sempre responsabili di quello che non si è saputo evitare” ( Jean Paul Sartre )

Il Ministro di giustizia e di morte è impegnato a difendere il Presidente del Consiglio e a urlare che ha firmato nuovi decreti di sottoposizione al regime di tortura del 41 bis, ma mai che in questi provvedimenti ci sia un politico, un corruttore, un notabile, un colletto bianco mafioso.
In carcere si continua a morire e tutto tace.
Pescara: detenuto di 35 anni si impicca in cella, è il 33esimo morto “di carcere” dall’inizio dell’anno (Il Messaggero, 21 marzo 2011).
Nell’anno 2010 si sono tolti la vita in Italia 66 detenuti.
Perché in Italia, sono molti i detenuti che si tolgono la vita?
Credo perché il prigioniero in Italia sta tutto il giorno attorno al nulla sdraiato in una branda, se è fortunato ad averne una tutta per se, a guardare un mondo che non vede e non sente. Probabilmente perché da noi il carcere ha solo una funzione: quella punitiva, diseducativa e criminogena.
Non ci si può opporre al male con altro male, con altra violenza.
Il carcere, così com’è oggi, non solo ci punisce, ma ci fa soffrire, ci odia, ci isola, ci istiga e spesso ci convince a ucciderci.
E i più deboli, o i più forti, a seconda dei punti di vista, scelgono di fuggire, di andarsene da questo mondo d’illegalità istituzionale.
Il carcere così com’è, quando va bene, ti convince a ucciderti e quando invece va male distrugge i corpi e le menti, perché sempre e solo galera invece di risolvere i problemi li peggiora. Non solo quelli dei detenuti, ma anche quelli della società.
In carcere in Italia non c’è solo il rischio che ti venga voglia di ucciderti, ma se non lo fai hai buone probabilità di diventare più criminale e più cattivo di quando sei entrato.
Purtroppo l’uomo in gabbia o diventa violento o si lascia morire.
E chi non ha il coraggio di farlo, come me, sente spesso il desiderio di farlo.
Voglio ricordare ai funzionari del Ministero di giustizia e di morte che molti detenuti scelgono di morire perché non hanno scelta.
Loro invece la scelta per fare smettere queste morti l’avrebbero: umanizzare i carceri e renderli luoghi di legalità e di diritto istituzionale.
In questo modo molti detenuti preferirebbero vivere che morire.

Carmelo Musumeci
Carcere Spoleto
Marzo 2011

lunedì 21 marzo 2011

PIERPAOLO PASOLINI





Libia: ogni luogo di guerra è uno spazio sottratto alla libertà

Quel che sta avvenendo in queste ore in Libia ci pone di fronte a una contraddizione drammatica che sembra lasciarci, semplicemente, senza parole. Nei media ufficiali e nel dibattito politico, infatti, sono due le uniche prospettive che si scontrano: l’intervento militare internazionale o la vittoria di Gheddafi. Prospettive, entrambe, inconciliabili con l’idea di mondo che abbiamo costruito in questi anni.

Da una parte, infatti, sono inaccettabili la guerra e l’interventismo militare dei paesi europei e degli Stati Uniti, con il suo portato di bombe e distruzione sul suolo libico; così come è impensabile l’idea che qualunque mezzo sia lecito pur di raggiungere un fine umanitario. E, del resto, è evidente che di umanitario nei missili cruise e nelle bombe ad alto potenziale ci sia ben poco: non solo per la scia di morte che questi strumenti lasciano dietro di se, ma soprattutto per gli obiettivi politici che si nascondono dietro questi mezzi di distruzione. Non serve essere studiosi di geopolitica o storici, infatti, per ricordare che, fino a un mese fa, Gheddafi era un solido alleato di chi oggi lo bombarda.Quest’ultima affermazione ci evidenzia anche la diversità di questa guerra rispetto a quelle contro le quali ci siamo mobilitati negli anni passati: siamo di fronte a un intervento non pianificato, ma nato sulla scia di avvenimenti sociali e politici che hanno attraversato tutto il nord Africa e il Medio Oriente, dalla Tunisia all’Egitto passando per lo Yemen e fino alla Libia.

D’altra parte, però, la domanda su come si ferma la follia del dittatore libico resta drammaticamente senza risposta e le poche notizie provenienti da Bengasi raccontano di una popolazione civile messa sotto assedio, con i carriarmati che sparano indiscriminatamente contro abitazioni e civili.

In realtà, la risposta sta nelle mobilitazioni che abbiamo attraversato in questi anni. Perché è evidente che un’area militare è un territorio sottratto alla libertà, qualunque sia la bandiera che sventola sulla cima del pennone; e che mobilitarsi per un territorio senza basi militari significa battersi per un mondo senza guerre. Così come, opporsi al nucleare per promuovere le energie alternative significa rompere il meccanismo economico che gravita intorno alle fonti di approvvigionamento energetico, ma soprattutto parlare di un mondo diverso da quello rappresentato da Fukushima e dal disastro nucleare.

Per chi da anni si batte contro la militarizzazione del territorio e le sue conseguenze nel mondo, la dicotomia che ci viene proposta in queste ore rappresenta una gabbia da spezzare. E’ inaccettabile pensare ai bombardamenti come uno strumento legittimo, così come è impensabile guardare a quanto sta avvenendo in Libia senza proporre alcuna forma di sostegno alle donne e agli uomini, ai tanti giovani che cercano libertà. A partire dall’accoglienza di quante e quanti da quella guerra sono fuggiti, fuggono e fuggiranno nei prossimi giorni.

Una gabbia che, oggi, ci viene proposta come intoccabile, imprigionando il nostro ragionamento intorno alla legittimità o meno dell’intervento internazionale. Dobbiamo, invece, andare oltre questa discussione, che è superata nel momento stesso in cui si afferma che la guerra è comunque un crimine, senza se e senza ma, per provare a costruire un pensiero comune sul significato dell’altro mondo possibile, partendo dalla costatazione che è questo mondo a non aver più gli equilibri che hanno caratterizzato i decenni passati. La parola crisi attraversa oggi in maniera trasversale gli aspetti sociali, ambientali, economici, militari del globo, imponendo domande a cui rispondere è possibile soltanto con un’alternativa complessiva, generale, globale.

Su questo, ci sentiamo di dire che è quanto mai urgente aprire una discussione, a partire dagli spazi di movimento che in questi mesi abbiamo attraversato e visto crescere nel nostro paese. Siamo contro la guerra e con quanti nel mondo lottano per la libertà e la nostra risposta non può che essere quella di continuare a cercare l’altro mondo possibile. Per questo, nel nostro piccolo, continueremo a batterci per sottrarre terreno alla militarizzazione attraverso il Parco della Pace; e per questo, vogliamo accogliere con piena dignità quanti dalla guerra fuggono e fuggiranno.
domenica 20 marzo 2011

http://www.nodalmolin.it/spip.php?article1243

da Indymedia

Vendola come un Robin Hood al contrario: toglie ai poveri per dare ai ricchi!

Michele Rizzi coord. reg. di Alternativa Comunista ci invia un comunicato nel quale dibatte dello scottante tema della sanità pugliese.
Commentate


Le ultime dichiarazioni dell'assessore alla sanità Fiore sull'aumento del buco nella sanità (fatto dal primo governo Vendola) e quelle dell'assessore al bilancio Pelillo sul possibile aumento dell'irpef dei lavoratori pugliesi, sono totalmente inaccettabili per Alternativa comunista. Infatti Vendola, che nei talk show televisivi parla di lotta per i diritti dei lavoratori, nella nostra regione, da novello Robin Hood al contrario, toglie ai lavoratori pugliesi, mettendo il ticket di un euro sulle ricette, chiudendo ospedali e posti letto, aumentando le tasse sui lavoratori dipendenti, aumentando l'accise sulla benzina; nel mentre arricchisce il padronato con un piano per il lavoro che aumenta i contributi pubblici agli imprenditori, regala fondi pubblici per la costruzione di ospedali privati, tipo il San Raffaele di Don Verzè, arricchisce le lobby dell'energia.Si prepara una nuova triste primavera per i lavoratori pugliesi sotto la duplice tenaglia del governo nazionale e di quello regionale.
Alternativa comunista, attraverso gazebo in piazza, comizi ed assemblee, continuerà la opposizione a queste misure antipopolari.
Michele Rizzi

venerdì 18 marzo 2011

FAUSTO E IAIO 18 MARZO 1978 - 18 MARZO 2011



Faceva freddo a Milano il 18 marzo 1978, e il centro era intasato di auto della polizia e dei carabinieri: lampeggianti accesi, posti di blocco, mitra spianati. Due giorni prima a Roma era stato rapito Aldo Moro, e la macchina dello Stato sembrava impegnata in una buffa parodia di efficienza e "pronta risposta alla sfida brigatista", come promesso dal ministro dell'Interno Francesco Cossiga. Ma non c'erano sirene e poliziotti al Casoretto, quartiere di periferia. Solo persiane sbarrate a tener fuori lo smog e televisori accesi, in attesa del tg delle 20.

A quell'ora Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci camminano lungo via Mancinelli, stretti nei paltò. Chiacchierano, e il freddo forma nuvolette di vapore davanti alle loro bocche. Hanno trascorso un pomeriggio tranquillo: Lorenzo in piazza Duomo insieme alla sua ragazza, Fausto al Parco Lambro con gli amici. Mezz'ora prima si sono incontrati alla "Crota Piemunteisa", un bar-trattoria di fronte al centro sociale Leoncavallo, e ora si dirigono verso casa di Fausto, in via Montenevoso 9, per l'appuntamento del sabato col risotto di mamma Danila. L'edicolante all'angolo tra via Casoretto e via Mancinelli li vede fermarsi davanti alle edizioni straordinarie dei giornali, a commentare i titoli sul sequestro Moro. Sono ragazzi come oggi ce ne sono sempre meno, Fausto e Iaio: attenti al mondo intorno a loro, impegnati nel quartiere. Negli ultimi mesi hanno lavorato ad un dossier sullo spaccio di droga al Casoretto.

All'altezza dell'Anderson School di via Mancinelli ci sono tre persone infagottate in trench bianchi. Una signora, Marisa Biffi, vede Fausto e Iaio fermi alla loro altezza. Ecco il suo racconto, tratto dal libro Fausto e Iaio, di Daniele Biacchessi, uno dei tanti giornalisti che hanno tentato di ricostruire il delitto: "Tre ragazzi sono in piedi sul marciapiede, a 5-6 metri da me. Contemporaneamente un altro giovane è leggermente piegato e si comprime lo stomaco con entrambe le mani. Odo tre colpi attutiti che lì per lì sembrano petardi. I tre giovani sul marciapiede scappano velocemente mentre quello che è piegato su se stesso cade a terra. Mi avvicino al giovane caduto... Subito oltre il suo corpo, a un paio di metri, il corpo di questo ragazzo che prima non avevo visto né in piedi né a terra. Nessuno dei due ragazzi pronuncia un parola... Altrettanto fanno gli assassini che fuggono nel silenzio, avviandosi verso via Leoncavallo. Noto che il giovane con l'impermeabile ha un sacchetto che sembra di cellophane bianco in mano".

Dalla testimonianza si deduce che gli assassini sono professionisti: agiscono rapidamente, non dicono un parola, raccolgono i bossoli nel sacchetto di plastica che la signora Biffi ha visto nelle mani di uno dei killer. A sparare otto o nove volte è stata una Beretta 80 calibro 7,65, arma leggera e agile, ideale per colpire da vicino. Prima è caduto Fausto, colpito all'addome, al torace, al braccio destro e ai lombi. Poi è toccato a Lorenzo: torace, ascella destra, inguine, fianco destro.

Dopo l'omicidio, il gruppetto di tre sparisce nel nulla. L'indomani un funzionario della Questura parla con i cronisti: "E' chiaro, si tratta di una faida tra gruppi della nuova sinistra, o inerente al traffico di stupefacenti". La scientifica fa circolare la voce che l'assassino abbia sparato con una pistola calibro 32. "E' un'ipotesi tirata per i capelli, come del resto quasi tutte quelle formulate - scrive L'Unità -. C'è almeno un elemento certo nelle indagini sulla barbara uccisione di Lorenzo Iannucci e Fausto Tinelli. I killer per uccidere hanno usato pistole automatiche avvolte in sacchetti di plastica".

L'articolo è firmato da Mauro Brutto. Non ancora trentenne, Brutto è il prototipo di una specie oggi in estinzione, il cronista di nera. La Milano di quegli anni, splendidamente raccontata da Scerbanenco, gli offre mille spunti di lavoro. Ma Brutto è anche un uomo di sinistra, e nella morte di Fausto e Iaio vede chiaramente la mano della destra milanese. Ne parla mesi dopo il delitto con Danila, la mamma di Fausto: "Mauro venne a casa mia - ha raccontato la donna - si stava occupando del connubio tra trafficanti di eroina, fascisti milanesi e romani, apparati dello Stato; mi disse che la verità su Fausto e Iaio non era chiara".

Per mesi Mauro Brutto raccoglie elementi sul delitto di Via Mancinelli. In novembre qualcuno gli spara tre colpi di pistola senza colpirlo. Pochi giorni dopo il giornalista mostra una parte del suo lavoro ad un colonnello dei carabinieri. Il 25 novembre, dopo cena, Brutto ha appuntamento con una sua fonte. Lo vedono entrare in un bar di via Murat, comprare due pacchi di Gauloise, uscire, attraversare la strada. A metà della carreggiata si ferma per far passare una 127 rossa. In senso inverso arriva una Simca 1100 bianca, lo investe e scappa.

"La Simca sembrava puntare sul pedone", dirà nel corso della rapida inchiesta l'uomo a bordo dell'altra auto, la 127. Sparisce il borsello di Brutto, pieno di carte, forse trascinato dalle auto in corsa. Lo ritrovano qualche ora dopo in una via vicina, vuoto.

Ci sono elementi sufficienti per fare ipotesi, ma non per evitare che la morte di quel bravo cronista sia archiviata come incidente, mentre prosegue l'inchiesta su Fausto e Iaio. Dopo il delitto sono arrivate alcune rivendicazioni di ambienti di estrema destra. La più credibile appartiene all'Esercito nazionale rivoluzionario - brigata combattente Franco Anselmi. Anselmi era un neofascista romano, morto dodici giorni prima dell'omicidio di Fausto e Iaio, mentre tentava di rapinare un'armeria della capitale. Tra i camerati del gruppo di Anselmi c'è Massimo Carminati, il guascone senza paura che svolge i lavori sporchi per conto della banda della Magliana, la più potente organizzazione criminale romana, e ha rapporti con i servizi deviati. Tra le molte cose, Carminati è stato accusato di aver ucciso Carmine Pecorelli ed ha lavorato con due ufficiali del Sismi a un tentativo di depistaggio dell'inchiesta sulla strage di Bologna...

Dopo anni d'indagine, Carminati sarà prosciolto per l'omicidio di Fausto e Iaio insieme ai camerati Claudio Bracci e Mario Corsi. Nei loro confronti ci sono alcuni indizi e le dichiarazioni dei pentiti, ma niente che si tramuti in prove certe. Del gruppo, oggi il più famoso è Corsi. Lo chiamano Marione, ed è il conduttore di una popolare trasmissione calcistica sulla Roma, in onda su "Radio Incontro". Cliccando sul suo sito internet ci si trova davanti ad un volto aperto e sorridente che incornicia due occhi gelidi. Ma è davvero un esercizio inutile, a distanza di tanti anni, cercare di rintracciare su quel viso i segni dell'uomo che Mario Corsi è stato, e di quello che ha fatto o non ha fatto.

Resta invece una domanda: perché Fausto e Iaio? Due ragazzi come tanti, di sinistra ma senza strette appartenenze. Più politicamente in vista di loro, a Milano, vi sono migliaia di persone. Si è parlato molto del dossier sulla droga cui i due ragazzi avevano collaborato, ma quel lavoro, una rigorosa analisi dello spaccio milanese, non contiene rivelazioni di alcun tipo. E allora bisogna fermarsi su una coincidenza, come ha fatto recentemente Aldo Giannuli, consulente della commissione Stragi: i due ragazzi vengono ammazzati cinquantasei ore dopo il sequestro Moro, e Fausto Tinelli abita in via Montenevoso 9, dirimpetto al covo dei misteri brigatisti, quello in cui sarà custodito il memoriale di Moro. Dalla stanza di Fausto alla finestra del covo brigatista ci sono meno di dieci metri, e in quell'ambiente il ragazzo del Casoretto passa buona parte delle sue giornate, a leggere e ascoltare musica. Se esiste un misterioso legame tra il sequestro Moro e il duplice delitto di Milano, bisogna dare atto ai registi della trama di aver fornito anche la controprova: nel 1981 in provincia di Roma venne ucciso il capitano di polizia Francesco Straullu, e il delitto fu rivendicato dal nucleo fascista che si rifaceva a Franco Anselmi. Il fatto è che anche il nome di Straullu riporta al caso Moro: il capitano aveva indagato sul famoso borsello trovato nel 1979 in un taxi romano, e carico di "simboli" riferiti a Moro e al giornalista Pecorelli. Coincidenza per coincidenza, Carminati è stato indagato e prosciolto anche per l'omicidio Pecorelli. L'autore di quel delitto, chiunque fosse, indossava un trench bianco. Come i carnefici di Fausto e Iaio.

***

da una intervista a Danila Angeli, mamma di Fausto:

"Quel sabato avevo preparato il risotto e lo strudel perché li aspettavo tutti e due a cena. Era anche l'anniversario del mio matrimonio.
Alle 19.45 Fausto era sempre a casa per la cena, era sempre puntuale ma quel giorno non si vedeva. Alle 20.30 cominciai a preoccuparmi e dopo aver messo il piccolino a letto , decisi di telefonare a qualche amico di Fausto ma nessuno sapeva nulla. Il bambino quella sera non voleva dormire, era agitatissimo.
Poi ho sentito bussare alla porta e dalla finestra ho visto dei poliziotti. Sono saliti e mi hanno chiesto dove abitava Fausto Tinelli. Io ho risposto che era mio figlio. Poi hanno rovistato in giro per la casa e mi hanno chiesto dov'erano le armi. Fausto era onesto, non aveva armi. In camera sua c'erano solo libri e giornali. I libri erano le sue armi.
I poliziotti mi hanno poi detto che aveva avuto un incidente in manifestazione. Impossibile, perché quel giorno non c'erano manifestazioni in programma. Un incidente in auto. Ma Fausto non aveva neanche la patente. Infine mi hanno detto che aveva preso una bastonata in testa, consigliandomi di recarmi in ospedale.
Allora sono andata all'ospedale "Bassini" e ho chiesto notizie di Fausto. Mi ha risposto un poliziotto dicendomi che era morto già da un pezzo.
A quel punto sono scappata a casa e ho acceso RadioPopolare per sapere cos'era accaduto.
Ho sentito che avevano ucciso anche Iaio per un regolamento di conti riguardante l'eroina.
Io ho subito chiamato la radio smentendo questa cosa perché Fausto e Iaio lavoravano contro lo spaccio e per la prevenzione.
Il giorno dopo quelli di Democrazia Proletaria mi hanno detto di far eseguire l'autopsia sui corpi, per dimostrare che i ragazzi non assumevano nessuna sostanza.
L'autopsia è stata fatta e non è risultato nulla. Fausto non fumava nemmeno le sigarette.
Il Giudice ha ammesso che i ragazzi erano assolutamente puliti e che con la droga non c'entravano nulla ma fino ad ora non c'è stato giustizia e io voglio la verità."

***

Messaggio di DANILA ANGELI, madre di Fausto Tinelli, in occasione del convegno "I comitati civili contro silenzi e impunità", tenuto a Genova il 12 luglio 2003.

Sono la madre di Fausto Tinelli e voglio esprimere quello che provo, oltre alla mia sincera solidarietà verso i parenti delle vittime delle stragi e di quelle cadute sotto un gioco perverso. So quello che si prova in quei momenti, l'ho sperimentato sulla mia pelle.

All'inizio non capisci, non ti rendi conto di quello che è accaduto. Vivi come un brutto sogno, stupito e incredulo. Vivi nel frastuono: un bel funerale di stato, belle parole e con questi gesti tutti se ne lavano le mani. Subito dopo ritorni alla realtà. Il dolore ti fa impazzire, entra in te come l'aria che respiri. E allora cerchi aiuto e conforto.

Chiedi una mano e riponi tutte le tue speranze nella giustizia, che ti aiuti a capire. Ma ti si chiudono le porte in faccia perché tu non sei di serie A anche se sei una persona onesta, come lo erano Fausto e Iaio, due ragazzi che frequentavano il Leoncavallo e perciò "carne da macello". Il privilegio di sperare giustizia, di avere un processo, di essere risarciti del sangue dei nostri cari non è un nostro diritto.

Anche se sono vittime innocenti della strategia di quel periodo e nessuno si azzardi a dire il contrario.

Da ben 22 anni mi sono costituita parte civile in un procedimento contro 3 individui di estrema destra, ma questi vivono tranquilli e fanno carriera.
Perché nessuno li tocca?
Eppure ci sono 6 pentiti che li accusano.
Perché i pentiti dei nostri processi non sono attendibili?
Forse lo sono solo quelli che vogliono loro e i nostri non sono tra questi.
Dove sono tutte quelle belle frasi che da bambina ti hanno insegnato a scuola, come ama la patria, difendila e rispettala. Io l'ho fatto questo, ma lei non mi ha ricambiato.

Noi per lo stato siamo vittime invisibili, che non vuole proprio vedere. E io mi sento come una madre argentina e Fausto e Iaio dei desaparecidos.

Danila Angeli

FAUSTO E IAIO, 28 ANNI DOPO - intervista con Maria Iannucci, sorella di Iaio e intervento di Danila Angeli, madre di Fausto
Francesco "baro" Barilli
Fonte: http://www.ecomancina.com/
18 febbraio 2006
18 marzo 1978. Mentre la situazione politica in Italia è tesissima (due giorni prima è stato rapito a Roma Aldo Moro) a Milano vengono uccisi due giovani simpatizzanti della sinistra alternativa. Si chiamavano Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, ma nell'immaginario collettivo di chi ancora attende giustizia per il loro omicidio i loro nomi resteranno scolpiti come Fausto e Iaio.
Nel dicembre 2000 il GUP di Milano Clementina Forleo dispone l'archiviazione del fascicolo. Pur riconoscendo di essere in presenza di indizi concreti a carico di esponenti della destra eversiva, al giudice "... appare evidente allo stato la non superabilità in giudizio del limite appunto indiziario di questi elementi...". (la citazione della disposizione del GUP è tratta, come le successive, da "Fausto e Iaio. La speranza muore a 18 anni", di Daniele Biacchessi; libro disponibile on line a questo indirizzo: http://www.retedigreen.com/index-35.htm).
Questi due passaggi racchiudono l'inizio e (per il momento...) la fine della vicenda. Ma in mezzo ci sono anni di inchieste, ufficiali e "alternative" (riassunte molto bene nel succitato libro di Biacchessi); inchieste purtroppo viziate dai "consueti" depistaggi.
Infatti, fin dall'immediatezza, la versione della Questura di Milano parlerà di una "faida fra i gruppi della nuova sinistra, o inerente il traffico di stupefacenti". In realtà la dinamica dell'omicidio, nonché il numero, la freddezza e l'esperienza dimostrata dagli esecutori, parlano chiaro. L'omicidio viene consumato in modo rapido e professionale: un commando di tre persone (cui sono da aggiungere almeno altri due elementi, come supporto logistico) avvicina i due giovani in via Mancinelli, e li uccide con otto colpi sparati a distanza ravvicinata, per poi darsi alla fuga.
E' vero che Fausto e Iaio stavano svolgendo indagini sullo spaccio di droga nel quartiere Casoretto e sui rapporti tra spacciatori e fascisti, nell'ambito di un dossier che verrà pubblicato a cura del Centro Sociale Leoncavallo e dei Collettivi Autonomi, ma saranno le indagini della Magistratura a liquidare la prima teoria della Questura come infondata. Il giudice Armando Spataro, a proposito degli assassini, disse: "Non potevano essere solo spacciatori di eroina. C'era dell'altro. Le prime indagini si erano mosse proprio in questa direzione ma ben presto mi accorsi che era un omicidio politico, dove la costruzione del libro bianco del Leoncavallo c'entrava poco o nulla". Un omicidio politico, dunque; un messaggio lanciato alla sinistra extraparlamentare, per scatenare la tensione a Milano (a cominciare da un quartiere storicamente fertile per la sinistra), magari per innescare una spirale di ritorsioni.
Mauro Brutto, un giovane cronista dell'Unità, sarà tra i primi a cercare di fare luce sulla morte di Fausto e Iaio. Finirà ucciso il 25 novembre 1978, investito da un'auto pirata. Un incidente la cui strana dinamica fa pensare all'incidente "costruito". E anche in questo caso, come per l'omicidio dei due ragazzi, possiamo parlare di uno schema che può essere messo in atto solo da organizzazioni che vantino spietatezza e struttura professionale.

Siamo ormai prossimi al ventottesimo anniversario della morte di Fausto e Iaio. Abbiamo incontrato Maria Iannucci (sorella di Iaio) e Danila Angeli (madre di Fausto), per parlare delle iniziative programmate per l'anniversario, della situazione del Leoncavallo, ma soprattutto del senso della memoria e del loro mai cessato impegno.

***

Intervista con Maria Ianucci - Milano, 18 febbraio 2006

In passato ho scritto alcuni articoli circa le tesi revisioniste sulla resistenza italiana e sul ventennio fascista. Purtroppo la "moda" di rivisitare la storia con interpretazioni di comodo non incide solo sull'epoca fascista, ma pure sugli anni 60/70, con atteggiamenti che vorrebbero spacciare per "pacificazione" una rilettura annacquata di quegli anni, nel tentativo di sostenere che tutti (a destra e a sinistra) furono "ugualmente" violenti, tutti hanno "ugualmente" sbagliato... In questa ottica, a mio avviso sbagliatissima, per te cosa vuol dire ricordare oggi il 18 marzo 1978?

Maria Iannucci:
Io non ho la pretesa di fare analisi politiche approfondite, ma so di aver vissuto un periodo intensissimo, da studentessa prima e da disoccupata poi: gli anni '70 e i primissimi anni '80. So cosa e come hanno vissuto i giovani in quel periodo; per questo mi sforzo di fare un paragone con i giovani d'oggi. La gente della nostra età riesce, seppur con fatica, a distinguere tra verità, verità di comodo e mistificazioni della verità; e riesce pure a fare valutazioni non solo sui fatti, ma a giudicare il modo in cui questi vengono utilizzati. Secondo me ricordare ciò che è accaduto ha come primo obbiettivo il fare chiarezza in questa confusione mistificante; e questo serve proprio per dare ai giovani gli strumenti per capire. Si dice che i giovani d'oggi hanno le idee confuse su quegli anni, che ritengono le stragi di piazza Fontana o piazza Della Loggia opera delle BR: la confusione esiste, è vero, ma esiste perché nei giovani mancano gli strumenti per formarsi un'autonoma e completa visione di quei fatti, per capire anni che loro non hanno vissuto e vedono già come "episodi di storia".
Per gente come noi (e non parlo solo di me o di Danila, ma in generale della nostra generazione) vedere questa confusione, questa scarsa informazione nelle nuove leve, genera un peso ulteriore: il dovere di fare chiarezza di fronte a tentativi di mistificazione che vanno a deformare e appiattire la realtà di quegli anni. Tempo fa si è parlato molto di una puntata di Blu Notte, programma di Lucarelli, imperniata sugli anni '70. Anche in quel programma, che pure aveva aspetti positivi, è passato un messaggio che potremmo riassumere così: "negli anni '70 abbiamo vissuto una specie di guerra civile in cui morire da una parte o dall'altra era uguale, perché uguale era la violenza". Ecco perché dico che con messaggi del genere, più che di pacificazione possiamo parlare di appiattimento della realtà. E' una cosa, oltre che difficile da sradicare, molto pericolosa. Io sono convinta che l'odio non aiuterà mai ad arrivare alla verità, e non mi sono mai mossa sotto questa spinta. Se sono ancora qui a chiedere verità e giustizia per quegli anni non è certo per rivangare l'odio, ma perché verità e giustizia servono a creare le condizioni affinchè queste cose non succedano più: come vedi si tratta di una spinta ideale molto distante dall'odio. Per questo dico che una pacificazione basata sulla menzogna non è "vera" pacificazione, non serve a nulla.
A questo proposito vorrei fare un inciso. Se parliamo di verità storica noi, come familiari di Fausto e Iaio, abbiamo ottenuto un piccolo ma importante riconoscimento: Fausto e Iaio, un anno dopo l'archiviazione del novembre 2000, sono stati dichiarati vittime del terrorismo, rientrando nella Legge 480 (una disposizione che riconosce un risarcimento ai familiari delle vittime delle stragi o di episodi di terrorismo). Ma il punto non sta certo nel risarcimento, quanto nel riconoscimento storico. "Vittime del terrorismo" vuol dire far cadere tutti quei discorsi (omicidio per "opposti estremismi", per delinquenza comune ecc) che erano nati in quegli anni: vuol dire riscattare perlomeno la loro figura da chi tentò di infangarne la memoria. E per questo riconoscimento devo ringraziare Paolo Bolognesi (Presidente della "Unione familiari vittime per stragi") e Paolo Cento, autore di un'interpellanza parlamentare.

Volevo spingerti a sviluppare la riflessione sul rapporto con l'attuale generazione. Tu hai preso contatto con questi giovani e hai visto che la differenza non sta nella voglia di apprendere (ed in questo concordo con te), ma negli strumenti a loro disposizione per sviluppare questa conoscenza. Anch'io penso che il problema stia nel sapere già "acquisito e sedimentato": mi sembra che una volta questa stratificazione del sapere fosse più solida, mentre oggi questi ragazzi spesso hanno le migliori intenzioni, ma partono da zero (e non per colpa loro).

M.I.:
Sono d'accordo: io non credo che i giovani oggi siano disinteressati a queste tematiche; semplicemente gli mancano gli strumenti per formarsi una coscienza su quei fatti. Io l'anno scorso ho partecipato alle iniziative organizzate dal Liceo Artistico Brera (dove andava Fausto): il reading di Daniele Biacchessi, la musica degli anni '70... Ho visto molta partecipazione e molta voglia di capire, da parte di quei giovani. Ed è stato bello vedere questi ragazzi, della stessa età che avevano Fausto e Iaio 28 anni fa) assieme a noi (oggi loro genitori, un tempo familiari o amici di mio fratello e di Fausto): una sorta di ideale passaggio del testimone.
Insomma, non è assolutamente vero che i giovani d'oggi hanno meno voglia di impegnarsi; è invece vero che hanno meno coscienza di "quel che è stato", rispetto alla nostra generazione, e questo crea molto disorientamento. Anche perché loro (giustamente!) vogliono costruire un loro modo di essere e un proprio bagaglio di esperienze, e non attingere semplicemente al patrimonio di una generazione passata. Sicuramente su questa lacuna incide anche il vuoto lasciato dalla mancanza di ideologie strutturate: gli studenti politicizzati sono sempre meno, e generalmente se lo sono è perché hanno alle spalle genitori che li hanno sensibilizzati. In generale penso di poter dire che la voglia di esserci e di partecipare c'è, ma all'interno di un orizzonte più limitato. Per intenderci, contro la riforma Moratti la mobilitazione c'è stata, vasta e organizzata...

Tu pensi che tutto questo sia dovuto (perlomeno in parte) anche a mancanze nostre? Intendo dire che prima parlavo di una cultura "sedimentata" in noi, ma noi avevamo alle spalle la generazione della resistenza partigiana, che ci aveva trasmesso un patrimonio di idee. Anche noi, poi, abbiamo visto e vissuto pagine fondamentali della storia, ma non abbiamo saputo trasmettere il nostro vissuto.

M.I.:
Credo di sì; è difficile addentrarsi in analisi sociologiche, ma è indubbio che è stata anche "colpa" nostra. A nostra discolpa, però, qualcosa da dire c'è: è indubbio che abbiamo vissuto anni intensi, ma poi sono arrivati gli '80, con il riflusso e quel che segue. E noi, a fatica, ci siamo dovuti inserire nella società proprio quando si rimetteva in discussione quel patrimonio culturale che per noi aveva significato tanto... Oggi la situazione è ancora diversa. Tu parlavi di "sedimentazione" del sapere, ed è correttissimo, ma per restare al tuo esempio possiamo dire che in seguito è arrivata un'ondata che ha fatto tabula rasa di quei valori. A quel punto, cosa è rimasto? I giovani d'oggi su quale base potevano costruire una propria identità collettiva?
Io posso dirti che a me l'ideologia politica è servita anche per affrontare le difficoltà della vita, e sento che i ragazzi di oggi non hanno questa base. Per questo bisogna faticare per trovare gli strumenti giusti per stabilire un contatto. Come ti dicevo, io ho vissuto una bella esperienza l'anno scorso, nell'ambito delle iniziative organizzate per ricordare Fausto e Iaio al Liceo Brera: Biacchessi, col suo reading teatrale è riuscito proprio a trovare uno dei modi "giusti" per azzerare le distanze, a livello di comunicazione, tra la nostra generazione e quei ragazzi, che vidi interessatissimi allo spettacolo.

Nelle vicende che ho trattato mi sono spesso trovato a parlare di "due livelli" di verità (giudiziaria e storica). La verità storica l'abbiamo parzialmente affrontata nelle prime domande; sul piano giudiziario, sono possibili nuove iniziative per riportare la vicenda nell'aula di un tribunale (nuovi processi ecc.)?

M.I.:
E' giusto sottolineare la differenza tra verità storica e verità giudiziaria. Così come è corretto sottolineare la differenza tra memoria e semplice commemorazione. Direi che Reti-Invisibili (nota: http://www.reti-invisibili.net) è importante proprio sotto questo aspetto, nel senso che ci ha aiutato ad andare al di là della semplice commemorazione, oltre che a non farci sentire soli. Dico questo proprio per collegarmi alla tua domanda: noi, come "Associazione familiari ed amici di Fausto e Iaio" e come "mamme antifasciste del Leoncavallo", abbiamo vissuto periodi davvero duri, sotto questo punto di vista. Parlo degli anni in cui andavamo ad elemosinare giustizia al tribunale ogni 18 marzo. Ogni anno, la stessa storia: prima in via Mancinelli, poi a Palazzo di Giustizia a dire "ci siamo ancora"... Oggi è diverso: ritrovarsi e ricompattarsi con chi ha lo stesso tipo di ideali e lo stesso tipo di problemi è stato davvero molto importante.
Tornando allo specifico della tua domanda sulle possibili novità processuali: non ti nascondo che dopo l'archiviazione del 2000 non avevamo più speranze. Fino a quando, pochi mesi fa, l'avvocato Mariani (legale di parte civile di Danila Angeli) ha trovato uno spiraglio, in seguito all'estradizione di Pasquale Belsito (nota: vedi http://www.reti-invisibili.net/faustoeiaio/articles/art_4259.html). E' una speranza che dovrebbe portare alla riapertura del fascicolo giudiziario.

Una domanda che ho fatto spesso: per la tua storia personale mi sembra naturale che tu ti definisca "antifascista": quale è il significato del tuo antifascismo oggi?

M.I.:
Innanzitutto significa: combattere il discorso di "questa" pacificazione, come giustamente dicevi anche tu prima. Saper distinguere i "valori" della destra, anche quando si presentano camuffati e "presentabili", come in questo periodo. Oggi la destra è al potere; si sono evoluti e si sono introdotti nella società in modo subdolo, ma il loro progetto politico è sempre quello, anche se i modi proposti per realizzarlo sono più ambigui (e questo rende più difficile l'opera di contrasto). Basta vedere le leggi sulle droghe, sull'immigrazione, sulla legittima difesa, solo per fare qualche esempio. Penso sia importante sottolineare la pericolosità di questa violenza sottile e strisciante, proprio perché per la sua natura ambigua non è semplice riconoscerla da subito.
Ecco, direi che essere antifascista oggi vuol dire combattere la mistificazione della realtà; per fare un esempio banale: rendersi conto che Berlusconi non è "democratico" solo perché lascia fare satira sulle reti Mediaset...

Una domanda più d'attualità e solo apparentemente fuori contesto... Dico "apparentemente" perché la vicenda di Fausto e Iaio si intreccia con la storia del Leoncavallo: cosa mi puoi dire circa le prospettive del Leoncavallo, da anni sotto la perenne minaccia dello sgombero?

M.I.:
Il Leoncavallo non è solo una realtà, ma un simbolo. Ed è da difendere sia in quanto realtà, sia in quanto simbolo...
Penso che siamo arrivati davvero al momento cruciale, anche perché il periodo politico è particolare (in imminenza di elezioni) e costringerà un po' tutti a schierarsi, in un senso o nell'altro. Certi segnali sono sicuramente positivi. Recentemente anche Ferrante ha parlato del Leoncavallo come di una realtà sociale da conservare e difendere; la provincia di Milano già in passato si era mossa, e anche nell'immediato futuro sembra sensibile (ha preso in considerazione un progetto del Centro di documentazione che si intitolerà proprio a Fausto e Iaio).
Nonostante questo non so dirti se sono ottimista. Posso solo confermare che sarebbe importante se il Leoncavallo rimanesse lì, senza essere costretto a traslocare dalla sede storica. Certo, ci sono anche problemi squisitamente logistici: l'attuale sede è molto grande e non è semplice da gestire, e questo rappresenta un punto debole nella trattativa (nel senso che la sopravvivenza si gioca non solo sul piano degli ideali, ma pure sul piano pratico).
Insomma, la partita è ancora aperta. Io so che i ragazzi del centro vorrebbero rimanere lì, nella sede storica, e questo, ripeto, è anche il mio auspicio. Ma siamo sotto elezioni, e questo potrebbe portare a sviluppi imprevedibili.

Mi sembra doveroso parlare delle iniziative che avete in programma in occasione dell'ormai prossimo anniversario della morte di Fausto e Iaio.

M.I.:
Le iniziative sono ancora in via di definizione. Sicuramente nei prossimi giorni ci saranno notizie più dettagliate sul sito del Leoncavallo (nota: http://www.leoncavallo.org/). Sicuramente organizzeremo un momento di ritrovo in via Mancinelli e un concerto.
Anche quest'anno alle iniziative del centro sociale si uniranno quelle del Liceo Artistico Brera, col supporto della Provincia di Milano. Quest'anno hanno proposto un percorso che si collega con quanto dicevamo all'inizio, sull'esigenza di dare ai ragazzi gli strumenti per capire quel periodo che va da Piazza Fontana e porta al 18 marzo 1978. Ci sono diverse idee in ballo: la digitalizzazione della mostra realizzata pochi mesi dopo la morte di Fausto e Iaio, la ristampa del libro "Che idea morire di marzo", la proiezione del nuovo video di Osvaldo Verri, "Che idea nascere di marzo"...

So che ti costa molto umanamente, ma vorrei chiudere questa intervista con un ricordo di tuo fratello.

M.I.:
Io e mio fratello viaggiavamo insieme, a livello di esperienze e frequentazioni; il Leoncavallo, Parco Lambro, gli amici in comune... Però m'è rimasto sempre il rimpianto di non aver mai fatto davvero qualcosa con lui. Vivevamo nello stesso ambiente, ma per questioni d'età io, di due anni più grande, tenevo già molto alla mia indipendenza e al vivere le mie esperienze senza "il fratellino che mi seguiva"... A volte mi è capitato d'incontrare amici che mi raccontano episodi bellissimi su mio fratello, e io m'accorgo di non aver condiviso con lui quei momenti.
Ricordo che ci ritrovavamo la sera. Poco prima che lui venisse ucciso, io stavo già progettando di andare a vivere da sola, e lui voleva venire a stare da me: era normale, perché i sogni e le esigenze erano comuni a entrambi. Io e mio fratello, nonostante la nostra realtà (che era dura: la realtà di proletari, di chi non ha molto e deve faticare per costruirsi un futuro), eravamo uniti da questo senso di appartenenza ad un'esistenza comune, che ci arricchiva.
Ho il ricordo di mio fratello che scrocca le sigarette (lui non ne aveva mai...) e tutti col sorriso gliele davano, perché aveva il modo giusto di rapportarsi con gli altri. Noi eravamo molto radicati nel quartiere. Non voglio adesso idealizzarti la situazione dipingendoti come un idillio il quartiere o il centro sociale, ma ti assicuro che ancora oggi vado al Casoretto e sento questa sensazione di appartenenza.
L'uccisione di Fausto e Iaio è stata una cosa enorme anche per questo: loro erano due ragazzi molto noti nella zona, perfettamente calati in quella realtà. E io sono sempre stata convinta che il senso del loro omicidio sia stato proprio questo: hanno colpito loro due non perché avessero scoperto chissà cosa circa il traffico di droga, ma perché volevano colpire due ragazzi in cui gli altri potevano identificarsi. Volevano distruggere qualcosa di più grosso che stava nascendo.

***

intervento di Danila Angeli

Fausto e Iaio sono stati assassinati il 18 marzo 1978 a Milano, da un commando fascista su commissione, venuto appositamente da Roma. Ora sono passati 28 anni, di attesa e di dolore... Da quel maledetto giorno la mia vita è cambiata, e tutto il dolore e la rabbia che sono dentro di me mi stanno consumando giorno per giorno.
Giustizia non è stata fatta. Ma io penso che la verità noi la sappiamo; abbiamo avuto molto tempo per capire, ma anche questa "nostra verità" appartiene ad una verità storica generale, mentre la voglia di giustizia ti rimane dentro.
Dentro di me ci sono pure i bei ricordi che ho di mio figlio, perché era una persona speciale... Prima di tutto ricordo la sua onestà, il suo altruismo, il suo rispetto, l'amore che portava verso gli animali, la natura, lo studio, la musica... Io di mio figlio sono sempre andata fiera...
Io oggi vivo il mio antifascismo come l'ho sempre vissuto e interpretato: come un ideale di libertà, onestà, rispetto e giustizia. Tutto questo me l'ha insegnato mio padre.
Sull'idea di perdono e di "pacificazione" mi sento di dire questo: sono sentimenti che possono essere concessi a chi commette uno sbaglio, non a dei killers che ammazzano "per mestiere", che quando passano davanti ad una lapide si fanno una bella risata (di cui loro conoscono "il perché"), e che si sentono ben protetti.
Per loro, nessun perdono, da parte mia; solo compassione per le loro madri.
Io il 18 marzo lo vivo ogni giorno, come una spina che ho nel cuore e nella mente...

La madre di Fausto
Danila Angeli

da reti-invisibili.net

Bombe a Benghazi


da FortressEurope
Viaggio a Benghazi, 17 marzo 2011
Il cratere è largo tre metri e tutto intorno la pista è cosparsa di pietre. Poco distante, quel che resta della carlinga di un aereo civile continua a bruciare. In mezzo al fumo nero si riesce ancora a leggere distintamente Air Libya. È quel che resta dell'aereo colpito dalle bombe di Gheddafi, sganciate questa mattina sull'aeroporto internazionale di Benina, a 20 chilometri dalla città di Benghazi. Proprio così, mentre a Washington il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite discuteva la risoluzione sulla no fly zone, il Colonnello ha ordinato di bombardare Benghazi. È il secondo bombardamento in due giorni. Mercoledì mattina un aereo aveva attaccato l'aeroporto mancando di poco il bersaglio. Oggi invece l'hanno preso in pieno. Anche perché stavolta di aerei ne hanno mandati tre. Tre vecchi Mirage che oltre a Benina hanno sganciato altre bombe sopra la caserma Muaskar 36, a sud di Benghazi, dove si trova un importante deposito di munizioni dell'armata popolare degli insorti. Fortunatamente non ci sono stati feriti né morti e la pista di decollo non sembra compromessa da quello che abbiamo potuto constatare di persona. La nostra visita all'aeroporto dura pochi minuti. Il colonnello Salah El Fituri infatti ci invita senza tante formalità a infilarci di nuovo in macchina e sgommare via prima che possa tornare l'aviazione del colonnello. Potrebbero attaccare di nuovo in qualsiasi momento. Prima di lasciare la zona del bombardamento però Marai mi chiede di fargli una foto. Noncurante del pericolo, mentre intorno la contraerea continua a sparare, si mette in posa dietro al cratere tenendo il kalashnikov in una mano mentre con l'altra fa il segno della vittoria. Ha i suoi buoni motivi per festeggiare Marai, perché due dei tre Mirage di Gheddafi che hanno bombardato la città, sono stati abbattuti. Ed è un bel colpo per il morale delle truppe. Per la prima volta infatti la contraerea degli insorti è riuscita a colpire il bersaglio. E per la prima volta ci sono le prove. Sono sparse in un campo coltivato nella campagna a sud di Benghazi, e sono i resti del Mirage abbattuto. Marai ci accompagna a vederli. Lui è uno dei volontari in armi dell'esercito popolare della rivoluzione libica. Ha 36 anni, indossa mimetica, bandana rossa e kalashnikov. Ma non fa parte dell'esercito. É un vecchio rigattiere improvvisato soldato per il bene della moglie e dei due bimbi di due anni e otto mesi, che lo aspettano a casa a Benina, a cinque minuti di macchina dall'aeroporto bombardato oggi da Gheddafi. Intorno all'aeroporto, si è creato uno strano ingorgo di macchine, che procedono a rilento lungo le stradine di campagna. Sono centinaia di ragazzi, venuti a vedere quel che resta del primo aereo abbattuto dell'aviazione di Gheddafi.

Marai mi spiega che è un Mirage. Per metà è esploso e bruciato. Del pilota non c'è nessuna traccia, anche perché la testa dell'aereo è completamente distrutta. Sulla coda qualcuno ha scritto con il fango “Gibu al tayara gibu hatta al dabbaba”, ovvero: “portate gli aerei e portate pure i carri armati”. Della serie: non abbiamo paura. Poco sopra invece hanno scritto con lo spray la data dell'abbattimento. 17.3.2011. Oggi è l'anniversario del primo mese della rivoluzione. I ragazzi fotografano con il cellulare l'aereo. E fanno a gara a smontare i pezzi di quello che resta, per portare con sé una qualche reliquia. Un pezzo del radiatore, la ruota, un tubo del telaio.

Probabilmente i tre aerei erano partiti da Sirte. Un altro sarebbe stato abbattuto, secondo l'armata degli insorti, nella zona di Ganfuda, a una cinquantina di chilometri da Benghazi. E il terzo sarebbe riuscito a fuggire indenne. Il bombardamento, secondo il colonnello El Fituri sarebbe la risposta all'attacco aereo sferrato in mattinata dagli insorti contro una colonna di carri armati che da Zilla stava raggiungendo il fronte di Ijdabiya, dove da tre giorni rivoluzionari e lealisti combattono per il controllo della città. Aerei che hanno misteriosamente iniziato a operare quattro giorni fa. All'inizio nessuno ci credeva. Ma oggi abbiamo personalmente visto in azione un elicottero, ci sono conferme dell'avvenuto bombardamento da parte degli insorti dell'aeroporto di Sirte e la conferma – fuori microfono – dataci da parte di un membro influente del consiglio nazionale temporaneo di Benghazi secondo cui alcuni Stati starebbero aiutando militarmente gli insorti, fornendo loro armamenti pesanti, munizioni e aiuto logistico. Un supporto senza il quale difficilmente avrebbero potuto fare arrivare le armi a Misratah, dove si è aperto un altro fronte, e bombardare le retrovie di Gheddafi a Ijdabiya, dove la situazione tre giorni fa sembrava irrimediabilmente compromessa.

Intanto da Ijdabiya arrivano anche oggi notizie drammatiche. Secondo testimoni oculari nell'ospedale della città si troverebbero in questo momento i corpi senza vita di almeno 22 ragazzi uccisi negli scontri con le truppe di Gheddafi, che nella notte di ieri avrebbero accerchiato la città su tre lati, appoggiati dagli incessanti e continui bombardamenti dell'aviazione del regime. A confermarcelo è il dottor Adil Eljamal, primario del reparto di terapia intensiva dell'ospedale di Jala, a Benghazi, dove negli ultimi tre giorni sono stati trasferiti decine di feriti dal fronte di Ijdabiya. Tutti feriti sotto i bombardamenti. Dieci di loro non ce l'hanno fatta. Il più piccolo è un bambino di quattro anni, ferito mortalmente alla testa dalla scheggia di una bomba esplosa vicino casa. Numeri che si aggiungono al macabro conteggio dei morti che in questo ospedale non è mai stato così alto. Soltanto nei primi cinque giorni della rivoluzione, tra il 17 e il 20 febbraio, qui si sono contati 250 morti durante gli scontri tra i ragazzi del movimento e le milizie di Gheddafi. Sono quei morti a ispirare ancora oggi i ragazzi che hanno preso le armi contro Gheddafi e che non vedono nessuna altra forma di resistenza pacifica al massacro ordinato dal Colonnello.

RESINA SONORA - MENUMALE



RESINA SONORA nasce con l’intento di realizzare un progetto che attraverso liriche rap, esponga alla gente tecniche musicali e testi basati sulle proprie esperienze quotidiane e artistiche.
Nel ’97, dopo diversi anni da solisti, JAKAL (Claudio Filograna), RIFLE (Jerry Bramato) e TONIO (Antonio Mastria G.) con DJ Cordella formano i FOTTUTI RANDAGI, gruppo che diede vita ad alcuni lavori molto validi ma mai conclusi per motivi tecnici e per la mancanza di uno studio adeguato alle loro esigenze e possibilità economiche. Dopo l’uscita del DJ, i tre rapper si ritrovano senza alcun produttore ma non per questo fermano la loro attività musicale, TONIO decide di creare un piccolo home-recording-studio la K.S.P. ( Kiavino Sound Produzioni ) dove comincia a prendere familiarità con le tecniche di registrazione. Successivamente si aggiunge alla crew un altro elemento , DJ DB ( Dario Blasi ) con cui il gruppo continua le sue produzioni.
Dopo alcuni mesi in studio i RESINA SONORA decidono di presentare un promo autoprodotto intitolato BUIO E LUCE, apprezzato largamente dal pubblico underground del Salento, che fece da anteprima all’intero album di 16 tracce SOGNI OSCURI. Questo tra il 2004 e il 2007 procurò al gruppo varie esibizioni live, fra le tante, come supporters agli Assalti Frontali, Après la classe, DJ Lord (Public Enemy), Club Dogo, Kiave (Migliori Colori), Lou X e Cuba Cabal, Babaman e vari sound della scena Salentina e Pugliese, partecipando tra l’altro al TECNICHE PERFETTE di Pisa, Vicenza e Brindisi.
Nell’estate 2007 inoltre vengono scelti per aprire il concerto del Gusto Dopa al Sole, esibendosi prima dei Colle der Fomento, Esa ( El Presidente ), Inoki, Assalti Frontali e Asian Dub Foundation.
Nello stesso periodo partecipano al Writer Master Beat di Taranto, piazzandosi al primo posto nella sfida tra gruppi di Puglia, Basilicata e Calabria con la hit MICROCHIP ESISTENZIALI che fa da apertura al nuovo disco attualmente in lavorazione. Il sound dei R.S. rimbalza tra vecchia e nuova scuola, dando forza a testi carichi di argomenti e liriche d’assalto.

SPINELLI NELLE CASE DI RIPOSO: MODERNE TERAPIE CONTRO DEMENZA E PARKINSON


di Domenico Ciardulli
Sembra fantasia ma è reale la notizia, proveniente da una casa di riposo di Kibbutz Naan (Israele), di anziani affetti da demenza e morbo di Parkinson curati con la marijuana a foglia grande (erez) . Canne terapeutiche che non solo sembrano fare miracoli per la salute dei nonnetti ricoverati ma costituiscono un risparmio enorme nel bilancio di spesa della casa di riposo rispetto ai tradizionali psicofarmaci. A Kibbutz Naan le case farmaceutiche, con i loro intrugli chimici, sono state messe all'angolo da dosi regolari di marijuana. Sembrano testimonianze religiose quelle di anziani che da anni non riuscivano più a farsi la barba da soli e che hanno ripreso a radersi gioiosamente, a muovere meglio le mani, le gambe e ad articolare bene le parole. Ma non si tratta di un bagno a Lourdes o di un pellegrinaggio al santuario di Compostela è solo l'effetto benefico su anziani malati di un ciclo di canne a base di marijuiana nella fumeria della casa di riposo.Una rivoluzione di tal genere nel nostro paese avrebbe effetti enormi sulla spesa sanitaria se pensiamo al volume di affari che si produce attraverso l'uso corrente, spesso troppo disinvolto di sedativi, antipsicotici, antidepressivi, neurolettici, antidolorifici, antitutto.... Non sono rari gli eccessi e gli effetti iatrogeni nelle case di cura, nelle residenze sanitarie assistite e nelle case di riposo. Sanitarizzazione di un anziano con demenza può significare l'immissione senza ritorno in un piano terapeutico, autorizzato dal presidio sanitario pubblico, che stabilizza e controlla le anomalie neurologiche e comportamentali attraverso "bombe chimiche".

Tutte medicine che a volte rappresentano la "giusta soluzione" (di comodo ndr) per chi assiste pazienti con demenza istituzionalizzati, ma non sempre rappresentano la giusta soluzione per il paziente in quanto persona. Non sono rari i tristi casi di cronaca di strutture sanitarie carenti, riguardo le classiche terapie riabilitative fisioterapiche e occupazionali, che invece brillano nel fare uso smodato di psicofarmaci per il controllo e la gestione dei ricoverati. Non solo si rischia di annichilire vitalità e creatività ma si rischia anche di danneggiare seriamente il fegato, sangue e sistema nervoso di persone con patologie preesistenti. Con queste riflessioni non si vuole di certo innalzare a modello esemplare la casa di riposo israeliana ma si può rilevare che l'esperienza innovativa di Kibbutz dovrebbe quantomeno schiodare dalla staticità le politiche sanitarie del nostro paese forse condizionate dalle multinazionali del farmaco.

Domenico Ciardulli da Reset-Italia