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lunedì 31 agosto 2009

L' ASD Nardò Calcio ne fa 3 al Copertino

NARDO' ( 31 Agosto) Ecco le pagelle del blog dopo la partita Nardò-Copertino

I granata di mister Longo Vincono per 3-0 grazie alla doppietta di Montaldi e al goal dell' uruguagio Parlacino. Una buona cornice di pubblico e tanta carica per il derby con il Tricase di domenica.

LE PAGELLE

ASD NARDO':

Bassi 6 Poco impegnato, ma lesto e risolutivo nei momenti decisivi. Bella la parata sul tiro di De Benedictis Ang. nel secondo tempo sul risultato di 1-0.

De Padova 6 Non gioca di fino ma il suo calcio serve a portare via il pallone dall'area di rigore.

Contessa 6,5 (Massarelli 15°st) Gode di molta libertà sulla fascia sinistra e se la gode. Da lì nascono molte azioni pericolose per il Nardò

De Donno 6 Si vede poco, la condizione non è delle migliori.

Marini 7,5 Un muro invalicabile! Difende, s'inserisce, cerca pure la conclusione.

Ruggiero 6
Viene spesso scavalcato da lunghi lanci.

Tartaglia 6,5 Primo tempo di buona personalità. Prende palla e mette gli esterni immediatamente in moto. Cala nel secondo tempo.

Patera 6 Mantiene la posizione ma non brilla (Frascolla 22°st), ,

Di Rito 6,5 Si muove bene insieme a tutto il reparto.

De Benedictis N. 6,5 Dopo un avvio titubante si muove bene e corre tanto.

Montaldi, 8 Quando palla al piede gode di un po' di spazio per chi lo marca sono guai. Cerca spesso l'uno-due ma soprattutto cerca il gol. Va a segno 4 volte ma per ben due volte viene pescato in fuorigioco dalla terna arbitrale. Determinante.

Parlacino 7,5 E’ l’ultimo arrivato in casa granata. Subentra per Di Rito al 25° del secondo tempo e dimostra subito di saperci fare con il pallone. Corre dribbla e segna un gran goal. Tagliente.

A disp.: Vetrugno, Petilli, D'Agostino, Turitto - All. Longo.

COPERTINO: Di Candia, Carrino, Cottin, De Braco, De Benedictis And., Calcagnile, Palmisano (Ciurlia 36° st), Carlà, De Benedictis Ang., Lillo (Serio 19° st), Dell'Anna (Quarta 19° st) - A disp.: Picciotti, De Lorenzo, Calcagnile - All. Castrignanò.

ARBITRO: Scatigna di Taranto

MARCATORI: Montaldi al 20° p.t. e 45° st, Parlacino 43° st

BOB MARLEY - AFRICA UNITE


AFRICA UNITE

Africa unite
'Cause we're moving right out of Babylon
And we're going to our father's land
How good and how pleasant it would be
Before God and man
To see the unification of all Africans
As it's been said already
Let it be done right now
We are the children of the Rastaman
We are the children of the higher man
So Africa unite, Africa unite yeah
Africa unite
'Cause we're moving right out of Babylon
And we're grooving to our father's land
How good and how pleasant it would be
Before god and man
To see the unification of all Rastaman
As it is been said let it be done
I tell you who we are under the sun
We are the children of the Rastaman
We are the children of the higher man
So Africa unite, Africa unite yeah
Africa unite cause the children want
To come home, Africa unite, Africa unite
It's later, later than you think
It's later, later than you think
Unite for the benefit of your people
Unite for the Africans abroad
Unite for the Africans a yard

TRADUZIONE

Africa unisciti
Perchè stiamo uscendo da Babilonia
E stiamo andando alla terra di nostro padre
Come sarebbe bello e piacevole
Di fronte a Dio ed all'uomo
Vedere l'unificazione di tutti gli africani
Come è già stato detto
Lasciate che avvenga ora
Noi siamo i figli del Rastaman
Noi siamo i figli dell'Altissimo
Quindi, Africa unisciti, Africa unisciti, sì
Africa unisciti
Perché stiamo uscendo da Babilonia
E stiamo andando alla terra di nostro padre
Come sarebbe bello e piacevole
Di fronte a Dio ed all'uomo
Vedere l'unificazione di ogni Rastaman
Come già è stato detto, lasciate che avvenga adesso
Vi dirò chi siete sotto il sole
Noi siamo i figli del Rastaman
Noi siamo i figli dell'Altissimo
Quindi, Africa unisciti, Africa unisciti, sì
Africa unisciti, perché i figli vogliono
Ritornare a casa, Africa unisciti, Africa unisciti
E' più tardi, più tardi di quanto pensi
E' più tardi, più tardi di quanto pensi
Unisciti per il bene del tuo popolo
Unisciti per gli africani all'estero
Unisciti per gli africani a casa


L'ultima battaglia per Gaza

Il 15 agosto Hamas e un gruppo salafita hanno combattuto aspramente: 28 le vittime. Ma perché è successo?

La calma, si fa per dire, sembra tornata nella Striscia di Gaza dopo che due settimane fa è scoppiato l'inferno. I miliziani delle Brigate Izz al-Din al-Qassam, ala militare di Hamas, e i poliziotti del movimento islamico hanno messo a ferro e fuoco la città di Rafah, al confine con l'Egitto. Obiettivo dell'operazione il gruppo Jund Ansar Allah e il suo leader e fondatore Abdul-Latif Moussa.

Ferragosto di fuoco. Almeno 28 persone sono morte e 150 sono rimaste ferite nello scontro a fuoco avvenuto tra gli uomini di Hamas, che controllano la Striscia dal 2007, e i seguaci di Moussa, barricati nella loro moschea di Rafah, la Ibn Taymiya. Lo stesso leader ha perso la vita nella battaglia, secondo alcune testimonianze vicino a uno dei suoi fedelissimi che si è fatto esplodere all'ingresso dei miliziani di Hamas nel luogo di culto dove, il giorno prima, Moussa aveva tenuto il sermone della discordia. Secondo il quotidiano israeliano Jerusalem Post, invece, lo stesso leader si sarebbe fatto trovare con un giubbino carico di esplosivo azionato al momento dell'arresto. La ricostruzione ufficiale di Hamas, infatti, individua nel contenuto della predica tenuta da Moussa il 14 agosto scorso il casus belli. ''Hamas ha abbandonato la retta via dell'Islam, sono infedeli. Proclamo l'Emirato Islamico di Palestina'', avrebbe detto il predicatore, che per la prima volta da quando aveva iniziato la sua attività leggeva il sermone da un foglietto, come mostra un video postato su YouTube.

Lo scontro, oltre la retorica. Come sono andate davvero le cose è difficile dirlo, anche perché a tutti i giornalisti (palestinesi e stranieri) è stato proibito l'accesso alla moschea Ibn Taymiya e a tutti gli ospedali e gli obitori di Rafah e della Striscia di Gaza. Un black-out dell'informazione condannato da Reporters sans Frontière, che denunciava come il ministero degli Interni di Hamas abbia giustificato il divieto con motivi di sicurezza per gli stessi giornalisti. Alcune immagini, però, sono circolate lo stesso, grazie a telefonini e social network. In alcune di queste, postate in rete poche ore dopo i combattimenti a Rafah, mostrano alcuni militanti di Jund Ansar Allah in fila contro un muro del cortile della moschea Ibn Taymiya che vengono giustiziati sul posto dai miliziani di Hamas. Rihbi Rantisi, uno dei portavoce di Hamas, ha sconfessato le immagini, sostenendo la tesi secondo cui tutte le vittime sono cadute nello scontro a fuoco generato dal fatto che i circa cento miliziani di Moussa hanno opposto resistenza all'arresto.

Fase diplomatica. La dinamica di quanto accaduto il 15 agosto scorso rimane un mistero. Restano i 28 morti e l'importanza di quanto accaduto. Il governo israeliano, fin dalla sua vittoria alle elezioni del 2006 e dopo la presa del potere nella Striscia di Gaza nel 2007, considera Hamas un'entità ostile' e non ha mai voluto intraprendere alcun dialogo con il movimento islamico. Una delle accuse che Israele muove ad Hamas, tra le altre, è quella di essere un'emanazione del network internazionale di al-Qaeda. Stando così le cose e prendendo per buone le interpretazioni secondo cui Jund Ansar Allah fosse un gruppo salafita (che predica il ritorno all'Islam delle origini) legato a Osama bin Laden, il governo israeliano dovrebbe ammettere che Hamas lavora per un governo confessionale moderato, eliminando in prima persona gli integralisti. Questo non accadrà mai, ma proprio nei giorni in cui si prepara al Cairo il vertice con il leader politico di Hamas Khaled Meshaal per la liberazione del caporale israeliano Shalit (rapito tre anni fa a Gaza) potrebbe essere un buon elemento da spendere con l'opinione pubblica interna israeliana, o almeno con quella parte della stessa che rifiuta l'idea di trattare con Hamas.

C'eravamo tanto amati. Questa è una delle possibili interpretazioni, anche perché Hamas attraversa un periodo molto 'diplomatico' delle sue relazioni con Israele. I miliziani del movimento controllano palmo a palmo la Striscia per evitare contrasti con Tel Aviv. Dopo l'ultimo conflitto Hamas ha cantato vittoria, ma anche subito un duro colpo ed è tutta concentrata sulla riorganizzazione. Alcuni militanti di Jund Ansar Allah, invece, hanno attaccato a cavallo l'esercito israeliano causandone la reazione e facendo infuriare Hamas. Inoltre, secondo fonti palestinesi, la polizia di Gaza ha intercettato un carico di armi diretto a Moussa e ai suoi uomini. Hamas ha temuto il peggio, anche perché i suoi rivali del Fatah, in passato, attraverso l'onnipresente dirigente Mohammed Dahlan, avrebbe finanziato e armato Moussa per creare difficoltà al movimento islamista. Quello che non si capisce, però, è come mai proprio adesso Hamas abbia deciso di agire con tanta durezza. Il sermone del venerdì 14 agosto sembra un motivo un po' debole per le dimensioni dell'operazione scattata il 15 agosto.

Il medico che volle farsi califfo. Jund Ansar Allah è stato fondato, a novembre dello scorso anno, da Abdul-Latif Moussa. Il leader, medico di formazione, è stato per anni in Egitto, molto vicino al movimento dei Fratelli Musulmani. Tornato in Palestina dopo gli accordi di Oslo ha lavorato come impiegato al ministero della Sanità palestinese prima di dedicarsi agli studi religiosi. Le sue posizioni si sono sempre più radicalizzate e, come ricostruito da Taher a-Nunnu, un portavoce di Hamas, ''il gruppo si è reso colpevole di attentati contro barbieri e parrucchieri, coffee shop, internet cafè e matrimoni, sempre con l'intento di punire coloro che non si attenevano al vero Islam. Ma il loro comportamento, nella Striscia post 2007, non è differente da quello di altri gruppetti salatifi come Salafi Jihad o Jaysh al-Islam. Il denaro per le armi, le moschee e per le opere caritatevoli (con le quali fare proselitismo tra la gente di Gaza) veniva dall'Arabia Saudita, mai favorevole alla relazione tra Hamas e l'Iran. Anche questo era un elemento noto da tempo alle forze di sicurezza di Hamas. A livello dottrinale, poi, le differenze non sono così sostanziali tra la linea di gruppi come Jund Ansar Allah e quello che predica l'ala dei falchi di Hamas. Perché, allora, tutta questa fretta improvvisa nel chiudere il conto con il gruppo? Davvero Hamas ha così paura di una reazione d'Israele da affrontare il rischio di una mattanza di palestinesi?

Il nodo gordiano. Hamas, in realtà, sta giocando su un tavolo più importante ancora della contrapposizione con Israele: quello del suo rapporto con l'amministrazione Obama e il governo britannico. Il nuovo corso di Washington, sancito dalla fine dell'era Bush, ha aperto spiragli interessanti per Hamas. La sensazione è che sia alla Casa Bianca che a Downing Street qualcosa si muove per la spinta alla ripresa dei negoziati con Israele e che, per la prima volta, Hamas potrebbe essere considerato un interlocutore credibile. Colpire un gruppo come Jund Ansar Allah, in aria di lista nera Usa, potrebbe essere stato il prezzo da pagare alla nuova dimensione politico internazionale che Hamas cerca di ritagliarsi, sul modello di Hezbollah, ormai coinvolta a pieno titolo nello scenario internazionale. ''Noi combattiamo al-Qaeda'', potrebbe essere il significato di tutta l'operazione. Lo sdoganamento di Hamas, infatti, aprirebbe la strada a un governo di unità nazionale palestinese e alla ricostruzione di Gaza, utile politicamente, ma ancor di più un business milionario nel quale la leadership del movimento vuole entrare con tutte le scarpe. I finanziamenti della comunità internazionale sono un bottino che fa gola.

Sottile strategia. I punti di vista sulla vicenda, come sempre, sono molteplici. Walid Phares, docente universitario a Washington e direttore del Future Terrorism Project presso la Fondazione per la Difesa della Democrazia, un think tank conservatore statunitense, lancia il suo allarme.
''Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non devono cadere nella trappola che si cela dietro lo scontro tra Hamas e Jund Ansar Allah. I vertici di Hamas vogliono entrare nel club dei 'jihdaisti buoni' che combattono i 'jihdaisti cattivi', ma non sono affatto differenti tra loro'', ha scritto il prof. Phares come in Libano, quando il gruppo di Fatah al-.Islam venne combattuto con violenza e presentato come la filiale libanese di al-Qaeda. Gruppi come Hamas ed Hezbollah vogliono farsi coinvolgere nella vita politica dei rispettivi paesi, per ottenere una patente di presentabilità che permetta loro di trattare con Usa e Gran Bretagna. Il modello dello stato islamico e quello della lotta senza quartiere a Israele è identico a quello di gruppi come Fatah al-Islam e Jund Ansar Allah. Cambia solo la strategia: una visione di medio - lungo periodo contro una visione di breve periodo. I gruppi minori vogliono la jihad senza quartiere, Hamas ed Hezbollah puntano a vincere la loro battaglia senza porsi limiti di tempo'', conclude Phares.

Imbarazzo di Hamas. Il corrispondente di al-Jazeera English da Gaza, Ayman Mohyeldin, ha messo in imbarazzo uno dei portavoce di Hamas, Ghazi Hamad, chidendogli dopo lo scontro a fuoco: ''Non crede che le persone che avete appena eliminato si limitassero a invocare quell'emirato islamico in Palestina che è presente come obiettivo del vostro stesso statuto?''. Hamad, dopo una serie di goffi tentativi di evitare la domanda, ha risposto: ''Questa gente vuole stabilire il califfato con effetto immediato in tutte le zone liberate dall'occupazione israeliana. Sono irrazionali, non capiscono che la jihad ha tempi e modalità particolari. Come i nostri''. Non proprio una smentita categorica. E' anche vero, però, che una certa retorica jihdaista è sempre rivolta all'opinione pubblica interna, soprattutto a Gaza, dove la disperazione causata dall'assedio che dura dal 2007 stanno spingendo sempre più giovani palestinesi su posizioni oltranziste e integraliste, sconosciute fino a qualche anno fa alla cultura religiosa palestinese. Hamas, quindi, pur se sposasse un approccio diplomatico alle cancellerie occidentali (come sembra confermato dallo stretto controllo esercitato dai suoi uomini per impedire attacchi a Israele in questo periodo di intense trattative) non lo andrebbe certo a sventolare come un vessillo davanti a un'opinione pubblica ridotta alla fame.

Emulazione e radicalizzazione. Quello che Hamas teme di più è che il suo immenso consenso tra la popolazione civile di Gaza, che gli ha garantito il trionfo delle elezioni del 2006, si stia erodendo di fronte alle tragiche condizioni di vita che i palestinesi della Striscia vivono da due anni. L'operazione Piombo Fuso dell'esercito israeliano, a cavallo tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009, ha aggravato ancora le privazioni della gente di Gaza e dintorni. Il timore della leadership di Hamas è quello, prima o poi, di sentirsi accusati dai loro stessi sostenitori di aver contribuito a questo disastro. Gli esiti possibili di questa evoluzione possono essere due: il ritorno in auge del partito dei moderati di Fatah o la radicalizzazione dei giovani verso forme incontrollabili di guerriglia. Entrambi due scenari inquietanti per Hamas. Illuminante in questo senso un'intervista concessa al settimanale egiziano al-Arham Weekly da Yahya Moussa, vicepresidente di Hamas. ''I gruppi che fraintendono i principi della religione esistono in tutto il mondo. Ma da noi il fenomeno è molto limitato rispetto al fondamentalismo presente in altri paesi. Abbiamo la situazione sotto controllo, anche se esiste un rischio di emulazione dei giovani palestinesi nei confronti di quello che accade in Iraq o in Afghanistan. Molti di questi gruppi si sono formati e rafforzati proprio dopo l'ultimo attacco israeliano, per le sofferenze che tutti hanno subito. Non permetteremo, però, che la Striscia di Gaza ripiombi nel caos''. Per scongiurare questo rischio, però, forse è già tardi.

di Christian Elia da PeaceReporter

Neofascisti e Pariolini si divertirono “a morte”

Una storia agghiacciante che a cadenze quasi sincopate, si è riproposta per le fughe, le dichiarazioni, la liberazione anticipata dei suoi compiti, la violenza morale sulle vittime (”borgatare”, “zoccole”), il ruolo della Roma nera e bene.

Il massacro dei Circeo fu questo.

Violenze e sevizie di ogni tipo per una notte intera in una villetta al Circeo, la spiaggia all’ìepoca della Roma Bene.

Una vicenda di cronaca indelebile nella memoria collettiva di chi oggi ha cinquant’anni e qualche cosa di più, meno nei più giovani che hanno scoperto questa vicenda (forse) dalle trasmissioni e articoli di giornale sulle imprese di uno dei complici di Guido, il neofascista Angelo Izzo.

A finire nelle mani di tre aguzzini ‘pariolini’ - i teppisti neofascisti Angelo Izzo e Andrea Ghira, ed il figlio di un alto funzionario di banca, Gianni Guido - furono Maria Rosaria Lopez, che fu uccisa, e Donatella Colasanti, trovata in fin di vita, giusto in tempo perché potesse salvarsi, almeno fisicamente. Nascosta sotto una coperta nel portabagagli di un’auto. Fisicamente sopravvisuta, psicologicamente provata. Per sempre.

Un vigile notturno il 30 settembre 1975 in via Pola si avvicinò ad una ‘Fiat 127’ dalla quale provenivano gemiti e nel bagagliaio scoprì i corpi delle due ragazze avvolti in sacchi di plastica e sotto delle coperte.

L’auto era di proprietà di Gianni Guido che, rintracciato subito dai carabinieri, confessò la partecipazione al ‘festino’ e fece i nomi dei suoi due complici, rampolli di agiate famiglie capitoline. Neofascisti.

Maria Rosaria Lopez e Donatella Colasanti avevano conosciuto casualmente a Roma Angelo Izzo, Gianni Guido e un altro ragazzo, risultato poi completamente estraneo al massacro. Ed avevano accettato, il 29 settembre 1975, di partecipare ad una ‘festicciola’ tra amici nella villa del padre di Andrea Ghira, ma da subito, una volta in auto con i tre ragazzi, le giovani compresero che non ci sarebbero stati molti motivi di spensieratezza e gioia per quell’ appuntamento. Nel corso delle sevizie ininterrotte, Maria Rosaria Lopez perse i sensi ed i ragazzi la uccisero immergendole ripetutamente la testa nella vasca da bagno.

Donatella Colasanti riuscì ad evitare la morte perché, sottoposta ad una bastonatura, si finse morta ingannando i suoi torturatori. A quel punto i ragazzi avvolsero i due corpi in buste di plastica, li caricarono nel bagagliaio dell’ auto e tornarono a Roma. In città parcheggiarono la vettura davanti all’ abitazione di uno dei tre e si allontanarono, forse prevedendo di sbarazzarsi dei corpi in un secondo momento. Donatella Colasanti accortasi che l’auto era stata abbandonata, cominciò a gemere richiamando l’attenzione di un vigile notturno che la salvò.

da Indymedia

Ancora un respingimento di migranti

Ieri motovedette italiane sono intervenute bloccando un'imbarcazione con a bordo diversi migranti (la cifra esatta è sconosciuta, ma si ipotizza una settantina). L'imbarcazione era già stata assistita da unità della marina maltese, che poi l'avevano lasciata continuare sulla rotta per l'Italia.
I migranti sono stati trasferiti su un pattugliatore d'altura della guardia di finanza che li sta trasferendo a Tripoli. Un solo migrante è stato portato in Italia, dato che necessitava di cure mediche per la frattura di alcune costole.
I migranti sarebbero quasi tutti originari del Corno d'Africa, dove imperversa una fortissima instabilità politica che ha portato a diverse guerre civili, per niente concluse.
Dalla prima applicazione dell'accordo bilaterale tra Italia e Libia, avvenuta il 6 maggio, migliaia di persone sono state rispedite in Libia, dove vengono rinchiuse in strutture concentrazionarie, seviziati. Spesso finiscono abbandonati nel deserto a morire di stenti.
L'abominevole Gasparri, presidente dei senatori dei PdL, ha dichiarato che grazie agli accordi Italia-Libia gli sbarchi sono diminuiti del 94% e che le polemiche sui rapporti tra i due paesi sono inutili sofismi.

Ci scusino, i signori assassini, se c'è qualcuno che considera delle vite umane qualcosa di più di un sofisma.

da Indymedia

In Italia ci diamo sempre alle rivoluzioni tardive

Cambiamenti politici clamorosi sono avvenuti in questi anni in molti paesi: solo in Italia la situazione è ferma da 20 anni.

Stati Uniti, 2008: avviene una cosa impossibile.
Dopo 8 anni di dominio dell'estrema destra repubblicana, Teocon e Neocon, che trascina il paese in due guerre disastrose, gli fa perdere la fiducia e la credibilità di molti alleati, lo pone in svantaggio rispetto a rivali fino ad allora giudicati inferiori o sconfitti (Cina, India, Russia, Brasile) e lo fa persino regredire sul piano del diritto (Patriot Act, sospensione dell'Habeas Corpus, Abu Grahib, prigioni segrete, torture, ecc), viene eletto un presidente nero, politicamente "self made man" e a capo di una corrente dei democratici giudicata "socialisteggiante".
Naturalmente non è tutto oro quel che riluce e Obama ha già deluso molti suoi fans, ma la portata storica del cambiamento da lui incarnato è indiscutibile.

Giappone, 2009: un altro cambiamento impossibile. (notizia di oggi)
Dopo 54 anni di dominio quasi incontrastato, i liberaldemocratici vengono sonoramente sconfitti alle elezioni politiche generali dai rivali di centrosinistra del partito democratico, del partito socialdemocratico e del nuovo partito del popolo. I liberaldemocratici, che in passato avevano fatto del Giappone la seconda potenza economica mondiale, negli ultimi dieci anni tolto Koyzumi erano riusciti solo a raggranellare magre figure.
Crescita zero per dieci anni consecutivi, pagati a caro prezzo dalle classi più povere in un paese privo di un vero e proprio stato sociale, e totale incapacità d'affrontare la crisi globale scoppiata a novembre del 2008 sono le due principali ragioni della loro Caporetto politica.

Venezuela, 1998;
Brasile, 2001;
Argentina, 2001;
Bolivia, 2005;
Ecuador, 2006;
Nicaragua, 2007;
Paraguay, 2008 (insieme a qualche altro paese latinoamericano): vengono eletti nuovi governi socialisti, guidati da formazioni politiche nate dal basso, che mettono all'opposizione sia i conservatori sia la vecchia sinistra compromessa con quest'ultimi.
Iniziano grandi riforme politiche, sociali ed economiche che nel giro di pochi anni portano questi paesi a ridurre allo 0% l'analfabetismo (precedentemente oscillante fra il 20 e il 30%), a dar vita a un vero sistema sanitario, alla formazione di nuovo personale medico e docente, a programmi di riqualificazione delle aree urbane e rurali più disagiate. Un successo che invano i conservatori cercano di minimizzare e nascondere, di fronte ai dati schiaccianti delle organizzazioni internazionali che disperdono senza pietà tutte le loro false accuse.
E non mancano altri successi, altri cambiamenti importanti avvenuti anche nel resto del mondo, in aree che non fanno notizia: dall'Africa (nuova vittoria dell'ANC in Sud Africa, per esempio) all'Asia (chi ha più sentito parlare, dopo il '98, di Timor Est?).

E in Italia? Tutto come prima, tutto come vent'anni fa.
Dopo Prodi gli italiani hanno rimesso sul seggiolone Berlusconi, che v'era stato sopra fino a due anni prima. Ma gli italiani non sono contenti; cercano soltanto di rassegnarsi. Per il momento non hanno ancora individuato l'alternativa all'attuale classe politica. Non c'è problema, presto la troveranno.
La società si sta muovendo: di fatti come quelli dell'INNSE, della Marelli e della LASME ne sono avvenuti molti più di quanto vogliano farci credere i nostri giornali e telegiornali. C'è un'opposizione che sta nascendo nei cuori e nelle coscienze della gente; e non ha nulla a che fare nè coi sindacati nè coi partiti della sinistra (nè tantomeno con quelli della destra).
Al momento buono quest'opposizione delegittimerà tanto la destra quanto la sinistra ufficiali, scegliendo di farsi rappresentare da sè stessa. Ci riuscirà.
I governanti e i loro cortigiani sono tutti avvertiti.

di Filippo da Indymedia

Penny nel cuore


Finalmente, dopo essere rimasta desaparecida per 31 anni, sono stati trovati e identificati i resti di Laura. Laura, presa e assassinata dai militari nel ‘78 quando aveva 18 anni, era la figlia di Mabel Itzcovich.
Il manifesto ha avuto la fortuna, e il merito, di poter sempre contare su grandi corrispondenti dall’Argentina, a cominciare da Osvaldo Soriano. Mabel Itzcovich fu uno di questi. Per vent’anni. Dal 1984, quando alla fine della dittatura del ‘76-’83 era tornata a Buenos Aires dopo 7 anni di esilio romano, fino agli ultimi articoli del maggio 2003, quando fu eletto Néstor Kirchner, lo sconosciuto peronista di cui lei, che non aveva mai amato i peronisti, da principio si mostrava diffidente ma di cui fece in tempo a ricredersi almeno per il capitolo desaparecidos. Che per l’Argentina degli ultimi 30 anni è un capitolo cruciale della sua storia tormentata.
Fu Mabel che un giorno sul finire degli anni ‘70 ci portò Soriano nella vecchia redazione romana di via Tomacelli, anche lui in esilio a Bruxelles e Parigi, che ancora pochi conoscevano per aver letto il suo straordinario Triste solitario y final. Per tutti e due – e per noi – fu l’inizio di un rapporto di comunanza umana e politica che si sarebbe concluso – fra amori e rotture – solo con la morte di entrambi. Osvaldo il 29 gennaio 1997, Mabel il 29 maggio 2004.
La storia personale di Mabel Itzcovich, che era nata a Rosario da due immigrati ucraini arrivati nel 1905 per sfuggire ai pogrom zaristi, è per molti versi la storia degli ultimi 50 anni dell’Argentina, «l’impossibile Argentina». E ha un valore emblematico cha va molto oltre la sua figura.
Intellettuale coltissima, cinefila, militante a modo suo (il socialismo e il cinema sarebbero rimaste le grandi passioni della sua vita), beona e fumatrice (furono i polmoni a tradirla), sarcastica e ruvida ma dolce e affettuosa come solo una «grande mamma ebraica» sa essere, passionale e allo stesso tempo razionale (ma solo con gli altri), dai rapporti personali complicati, Mabel ha avuto un vita densa e difficile. Anche per un caratteraccio che gliela rese ancor più complicata. E per una tragedia che, come un’infinità di altre madri argentine della sua generazione, la funestò, senza darle pace anche se non amava parlarne. Laura Isabel, «Penny», la più piccola delle sue due figlie, avute dal matrimonio con il regista Simón Feldman, desaparecida.
Anche Mabel aveva rischiato di finire nel grande gorgo di quegli anni che si lasciò dietro 30 mila desaparecidos. Nella primavera del ‘77, un anno dopo il golpe di Videla e Massera, l’appartamento di Mabel a Buenos Aires, in calle Uriarte, fu visitato da una squadraccia militare. Mabel era fuori città e non la trovarono. E neanche trovarono le sue due figlie, Ana Nora di 19 anni e Laura di 17. Alcuni amici avvisarono Mabel, che era senza documenti e con solo il vestito che portava addosso, e riuscirono a farla imbarcare sul ferry che da Buenos Aires porta in Uruguay, sull’altra sponda del Rio de la Plata. Dopo un orrendo colloquio all’ambasciata d’Israele di Montevideo (dove in pratica l’accusarono di essere una «terrorista trotzkista»), riuscì ad avere i documenti e il biglietto aereo per l’Italia, anche grazie a un dimenticato eroe italiano, Cesare Bensi, un socialista.
Si era salvata. Ma a un prezzo straziante. Era sola e le sue due figlie erano rimaste indietro. Ana fu fortunata. Fu trovata dal padre, l’ex marito di Mabel, prima che dai militari e riuscì anche lei, dopo un’avventurosa fuga attraverso San Paolo del Brasile e Montevideo, ad arrivare in Italia, dove ritrovò Mabel. Laura non ebbe altrettanta fortuna. Fu presa, insieme al suo compagno, il 18 febbraio 1978. Lei aveva 18 anni e lui 19. Di loro non si seppe più nulla. Fino all’aprile 2009, quando i suoi resti sono stati identificati con certezza dall’Equipo Argentino de Antropología Forense. E in dicembre si aprirà il processo contro 8 dei macellai accusati per i crimini commessi nel lager clandestino del «Vesubio», uno dei tanti di Buenos Aires dove vennero sequestrati, torturati, assassinati e fatti sparire nel nulla «i sovversivi» in nome del delirio nazi «occidentale e cristiano» dei militari.
Quando cominciò il lavoro di scavo nei cimiteri clandestini e nelle tombe marcate «N.N.», Mabel, prima di morire e dopo che Kirchner sulla spinta delle indomabili Madri e Nonne della Plaza de Mayo riaprì con forza il capitolo dei desaparecidos – un merito che nessuno gli potrà disconoscere nel giudizio che la storia darà del suo governo -, riuscì ad avere qualche vaga e incerta notizia su Laura. Ma non è vissuta abbastanza per avere finalmente la certezza che fosse lei e poterla piangere su una tomba. E neanche per vedere il suo nome fra quelli dei desaparecidos scolpiti sul Muro della memoria che Kirchner ha fatto erigere sulle rive del fiume sul finire del 2007. Quando morì la figlia Ana Nora mandò un necrologio ai giornali. Diceva: «Mabel Itzcovich è morta il 29 maggio 2004. Sua figlia Ana Nora Feldman, suo fratello Oscar, sua cognata Anna e i suoi nipoti Guilio e Elena partecipano con dolore alla sua scomparsa e invitano a ricordarla come amica e compagna insieme con sua figlia Laura (desaparecida)». Allora, solo 5 anni fa, La Nación, il miserabile giornale dell’establishment, la rifiutò adducendo grottesche motivazioni legali che non consentivano la pubblicazione della parola «desaparecida». Solo dopo lo scandalo che ne seguì fu pubblicato.
Ora, dopo 31 anni da desaparecida, finalmente Laura è stata riconosciuta con certezza assoluta, grazie allo straordinario lavoro dell’équipe degli antropologi forensi argentini che in questi anni si sono fatti, a ragione, una fama mondiale (sono stati chiamati anche in Spagna a riaprire le fosse e identificare le vittime della barbarie franchista di 70 anni fa).
Mabel non ha avuto, per sua volontà, né un funerale né una tomba e le sue ceneri sono state disperse nelle acque del Rio de la Plata, da un ponte di Puerto Madero, il quartiere sulla riva del fiume che le ricordava forse la Senna dell’epoca bohemienne passata in gioventù all’Institute des Hautes Etudes Cinematographiques di Parigi. Non ha fatto in tempo a liberarsi dell’angoscia per la figlia perduta, né a soffermarsi sulla sua tomba. Ma lo farà Ana. Per lei sarà forse la liberazione da una sorta di inconfessabile e immotivato ma certo lancinante senso di colpa per essersi salvata al contrario della sorella.
Per questo ha scritto una «solicitada», un annuncio-appello che ha spedito ai giornali. Dice: «Laura Isabel Feldman, «Penny». Nacque l’11 agosto del 1959. Fu sequestrata e desaparecida il 18 febbraio del 1978. Fu vista nel centro clandestino di detenzione “Vesubio”. L’assassinarono il 14 marzo dello stesso anno. Il suo corpo fu seppellito come N.N. nel cimitero di Lomas de Zamora. (...) Il 15 dicembre del 2009 comincerà il processo pubblico in cui saranno giudicati otto repressori accusati per i crimini commessi al “Vesubio”. A 31 anni dal suo assassinio, quando alcuni propongono ancora che “bisogna gettarsi alle spalle il passato”, quando ci chiedono di dimenticare e perdonare, quando chiamano “rivincita” o “vendetta” il lento lavoro della giustizia, ci sono altri che insistono con tenacia nella ricerca della giustizia, ci sono molti come noi che sostengono e appoggiano questa linea e questa lotta. 31 anni dopo abbiamo fatto un nuovo passo contro la menzogna e l’occultamento e la repressione selvaggia disseminata dal Terrorismo di Stato in Argentina i cui effetti, l’abbiamo potuto verificare, non sono ancora finiti. 31 anni dopo possiamo dire addio a Penny, che è sempre stata nei nostri cuori e continuerà a esserci, vegliare i suoi resti, celebrare la cerimonia e il lutto che finora si è voluto impedire ed evitare. 31 anni dopo, grazie al lavoro di molti, fra cui vogliamo indicare lo staff di antropologi forensi, facciamo appello a diffondere questa notizia, sollecitiamo coloro che hanno informazioni ancora non rese sui nostri desaparecidos perché si facciano vivi con gli organismi dei diritti umani, reclamiano l’accelerazione dei processi nei tribunali di giustizia, informiano che i famigliari decisi a sottoporsi a test di sangue per contribuire all’identificazione dei resti dei desaparecidos per mano del Terrorismo di Stato possono mettersi in contatto con lo 0800-333-2334 dell’Equipo Argentino de Antropología Forense. I famigliari, gli amici e i compagni invitano a vegliare i resti e a ricordare Laura il 10 settembre dalle ore 12 alle 19 nella hall della scuola Carlos Pellegrini, in via Marcelo T. Alvear 1851. Né oblio né perdono».
Vedremo se anche questa volta giornalacci come La Nación e Clarín rifiuteranno la pubblicazione dell’annuncio.
Né oblio né perdono. Giustizia. Per Laura, per Mabel, per Ana. Per tutti gli argentini decenti. E per l’umanità.

di Maurizio Matteuzzi da IlManifesto

La Gelmini predica nuove regole per i docenti


Il nuovo regolamento lo presenta, manco a dirlo, al meeting ciellino in corso a Rimini. Il ministro Maristella Gelmini, dopo i regali ai docenti di religione cattolica, sceglie una platea a lei vicina (anche se il suo intervento si è svolto in una saletta secondaria del meeting) per rivelare i contenuti di un prossimo regolamento sul reclutamento degli insegnanti. Assunzioni solo se strettamente necessarie. «Si passa dal semplice sapere al sapere insegnare», ha detto. Ma se si va un centimetro oltre lo slogan ad effetto di concreto rimane ben poco. «Iniziamo a progettare un nuovo tassello per il cambiamento del nostro sistema scolastico, un tassello fondamentale, perché riguarda la formazione iniziale dei futuri insegnanti», ha spiegato. Ecco, «futuri». Per quelli che per anni si perdono nelle interminabili liste d’attesa alla ricerca della cattedra perduta: ripassare più tardi.
Il ministro la parola «precari» neanche la pronuncia. Ma pesa molto: 42.500 insegnanti e 15.000 del personale ausiliario. Tanti il prossimo anno rimarranno fuori dagli istituti scolastici dopo la sforbiciata di viale Trastevere. Secondo una prima stima effettuata dalla Flc-Cgil subito dopo i trasferimenti saranno almeno 16.000 i supplenti di scuola media e superiore che non troveranno più la cattedra. A questi bisogna sommare i colleghi della scuola elementare, fatti fuori dai «maestri unici», e almeno 10.000 Ata che dopo anni di supplenza e l’aspettativa di entrare di ruolo si ritrovano in mezzo a una strada.
Cifre che sembrano non preoccupare il ministro Gelmini, spedita verso la «scuola del futuro» e già orfana di una delle famigerate tre «I» della sua collega Moratti. Non c’è più «Impresa», rimangono «Internet» e «Inglese». Stavolta non per gli studenti ma per gli insegnanti. E a loro sono rivolte le nuove regole messe in campo dal Miur. A parte le competenze linguistico-tecnologiche, per ottenere l’agognata cattedra i prof italiani dovranno sostenere un ulteriore tirocinio, e non più frequentare la Ssis che va definitivamente in pensione. Un anno sabatico tra la laurea e l’incarico di ruolo. Gli Uffici scolastici regionali organizzeranno e aggiorneranno gli albi delle istituzioni accreditate che ospiteranno i tirocini sulla base di appositi criteri stabiliti dal ministero. Questi Usr avranno anche funzione di controllo e di verifica sui tirocini stessi.
Bene, ma una volta superate tutte queste «prove» e acquisite tutte queste «competenze» (per insegnare nella scuola dell’infanzia e alla primaria sarà necessaria la laurea quinquennale, in quella secondaria media e superiore occorrerà avere la laurea magistrale) l’insegnante può insegnare, finalmente? Se c’è posto sì, rispondono dal ministero. Perché «il numero di nuovi docenti sarà deciso in base al fabbisogno». In questo modo si dichiara «fine all’accesso illimitato alla professione che creava il precariato». E, «con la fine del precariato, sarà consentito ai giovani l’inserimento immediato in ruolo». Peccato che l’attuale fabbisogno delle scuole italiane recita un laconico «tutto esaurito».

di Stefano Milani da IlManifesto

SANGUE MISTO - LO STRANIERO



LO STRANIERO

Io sono il numero 0
facce diffidenti quando passa lo straniero in sclero, teso vero
vesto scuro, picchio la mia testa contro il muro
sono io l'amico di nessuno stai sicuro
resto fuori dalla moda e dallo stadio
fuori dai partiti e puoi giurarci, io non sono l'italiano medio
ma un cane senza museruola
la N E la doppia F A Passaparola
chico canta che ti passa, ma non mi passa piu'
testa bassa, la repressione
mi butta giu' schiaccia
quando lo sbirro mi da' i pugni nella faccia
per me lo stato e' solo stato di minaccia
quando vedo il tunisino all'angolo che spaccia
la nera presi a schiaffi del magnaccia
io so che e' tutto made in Italy percio'
non chiedermi se canto Forza Italia o no...
Rit.:
None none... la mia posizione e' di straniero nella mia nazione...
Non parlate alla straniero e lo guardate male
e ogni singolo secondo la tensione sale
e' SangueMisto e non rispetta piu' il confine
viene da dove era stato cacciato fuori come un cane
e ora non ci sto, non ci credo e non ne voglio piu'
solo disprezzo per lo stato e le divise blu
Schivo come Neffa a 0 grado di fiducia
quando la terra brucia
e' allarme rosso per le strade, non sei piu' al sicuro
tu stavi chiuso in casa ed e' crollato il muro
quindi adesso e' tutto pronto per lo scontro,
con chi viene da fuori e non ci sta piu' dentro
quello che mi han dato da quando sono nato l'ho pagato
e ho visto ogni 2 anni una strage di stato
e' un rompicapo, ma dubbi sui mandanti non ne ho
sono lo straniero questo e' quel che so...
Rit.:
none none... la mia posizione e' di straniero nella mia nazione...
Io quando andavo a scuola da bambino
la gente nella classe mi chiamava marocchino,
terrone "Muto! Torna un po' da dove sei venuto!"
E questa e' la prima roba che ho imparato in assoluto...
La seconda e' che sei fatto nell'istante in cui ti siedi
quando sento la pressione dalla testa ai piedi
la situazione per me non cambia: era merda e resta merda
per i cani della strada, razza bastarda
alla sbarra sott'accusa ed ogni giorno c'e' un buon motivo
e la giuria ha gia' detto ed il mio verdetto e' negativo
straniero nella mia nazione
perche' qualcuno vuol metter fine alle storie di un guaglione...
La tensione in strada sale a 1000
vivo questa situazione sopra la mia pelle
giorno dopo giorno, notte dopo notte resto all'erta
guardo le mie spalle anche se la strada e' deserta
stesso film, stessa storia:
Neffa ha gia' salvato quindi resta in memoria
e un guaglione mette a fuoco il suo pensiero
resto fuori perche' io sono lo straniero.
Rit.:
None none... la mia posizione e' di straniero nella mia nazione...

BIO

« ...Neffa, Deda e DJ Gruff in dopa ...ohjeah, we jammin' »
(La porra - SxM)

« ...perché devo svoltare i tempi duri, seguo la mia idea visto che ancora oggi, come ieri, vivo un clima di tensione negativo, perciò non venirmi a dire che sono ostile perché non c'è un motivo, le radiazioni han fatto danni, su chi è cresciuto negli ultimi vent'anni, abbiamo avuto il piombo, il fango ed ogni giorno: la dose quotidiana di merda che ci cade attorno... »
(Cani Sciolti - SxM)

I Sangue Misto, conosciuti anche con la variante di Sanguemisto, sono stati un gruppo hip hop italiano, formatisi nel 1993 e scioltisi nel 1996.

La band è formata dagli mc Deda e Neffa e dal beatmaker Dj Gruff, tutti provenienti dall'Isola Posse All Stars[1]. I tre artisti provengono rispettivamente da Bologna[2], Scafati in provincia di Salerno[3] e Terralba, in provincia di Oristano[2], ma si conoscono nella città di Torino, dove vivono durante il periodo in cui fanno parte del gruppo.

Il primo album, SxM, prodotto nel 1994 dall'etichetta Century Vox, è considerato una pietra miliare dell'hip hop italiano[1], ed è l'unico prodotto del gruppo assieme al singolo Cani sciolti remix, pubblicato l'anno successivo. Nel 1996 il guppo si scioglie, Neffa pubblica tre album hip hop, Neffa & i messaggeri della dopa nel 1996 e 107 elementi nel 1998 e Chicopisco nel 1999, passando successivamente alla musica pop[3]; Deda fonda il gruppo Melma & Merda con i rapper Kaos One e Sean, con cui pubblica nel 1999 un album omonimo[4] e si dedica successivamente alla carriera solista con lo pseudonimo di Katsuma.org, pubblicando nel 2004 Volume 1 - Moonbooty[5] e nel 2008 Volume 2 - Rituals of Life; Dj Gruff fonda la crew Alien Army[6], con cui pubblica numerosi album nell'ambito dell'hip hop underground italiano.

I Sangue Misto nascono dalle ceneri del gruppo Isola Posse All Stars, nato a Bologna nei primi anni 1990 e, assieme all'Onda Rossa Posse, tra i primi collettivi a diffondere l'hip hop in italiano, rifacendosi all'East Coast hip hop e al raggamuffin Giamaicano. Inizialmente la band era composta da 6 membri, che si riducono presto a tre, gli mc Neffa e Deda ed il beatmaker Dj Gruff; i motivi che spingono il gruppo a sfoltirsi sono spiegati da un'intervista concessa da Neffa alla rivista Aelle: "anche se era una figata stare in sette e andare in giro, dopo due anni che vai in giro impari anche, e forse la cosa inizia a starti un po' stretta". Il gruppo ha come sede uno storico centro sociale bolognese: l'Isola del Kantiere.

Il gruppo si forma nel'ambito underground italiano raccogliendo traiettorie provenienti anche dal decennio precedente: ad esempio, dj Fabri e Neffa sono stati, uno dopo l'altro, batteristi del gruppo hardcore italiano Negazione. La prima formazione dei Sangue Misto comprende Papa Ricky, Gopher D, Dj Fabri e Deda, ma l'orientamento reggae e raggamuffin dei primi tre li porta ad intraprendere strade soliste: per i primi due come cantanti, con hit come "Lu sole mio" per il primo, e collaborazioni coi conterranei Sud Sound System (a loro volta provenienti in parte dall'esperienza dell Isola Posse All Stars) per il secondo - mentre dj Fabri crea il Vibra sound, primo sound system reggae a Bologna. A questo punto Deda, più orientato all'hip hop, si unisce a Gruff e Neffa per continuare il progetto. Gruff ha già pubblicato Rapadopa in cui partecipano rapper della scena nazionale quali Kaos, Esa e gli stessi Deda e Neffa.

Nel 1994 prende quindi forma il vero e definitivo progetto Sangue Misto, che conduce i tre membri alla realizzazione di SxM. A causa della distribuzione Century Vox, SxM ha qualche problema di commercializzazione, così come il successivo album solista di Neffa, sugli scaffali solo dopo circa un anno dalla sua realizzazione. A seguito del successo dell'album viene pubblicato anche il discomix "Cani sciolti Remix" sempre per la Crime Squad/Century Vox, nel formato 12".

A proposito della loro collaborazione con i Casino Royale, con il remix di Cose Difficili, il giornale Rumore ha scritto che si è trattato de "l'incontro tra i due migliori gruppi oggi in Italia".[senza fonte] Poco dopo questa partecipazione al progetto del gruppo milanese, i Sangue Misto praticamente si dividono ed i componenti si dedicano a carriere soliste.

da Wikipedia

Nardò: COSTRUISCE CASA DI 150 METRI QUADRATI MA SENZA PERMESSO *FOTO*

Denunciato dai carabinieri un 60enne di Nardò che aveva pensato di costruire una casa all'interno di un terreno recintato ma senza alcuna autorizzazione comunale. Sequestrato l'edificio in periferia
*Foto*

La storia ha dell’incredibile, perché assurdo è che nel 2009 c’è ancora qualcuno che immagina di costruirsi una palazzina senza alcuna autorizzazione. Niente. Tu ha un terreno di proprietà? Bene, costruisci tranquillamente senza che il Comune sappia quello che stai facendo, senza autorizzazione, senza alcuna agibilità e via dicendo. Furbizia che però al proprietario 60enne F.G. è costata una denuncia e il sequestro dell’edificio da parte dei carabinieri di Nardò. Se ne sono accorti proprio i militari, ma è plausibile pensare che qualcuno abbia potuto anche telefonare in caserma per raccontare quel che stava avvenendo da quelle parti, alla periferia di Nardò.

Cos’ i militari hanno appurato che il 60enne aveva costruito senza alcuna autorizzazione, che invece sarebbe dovuta essere stata rilasciata dall’ufficio tecnico del Comune di Nardò. Si tratta di una casa di circa 150 metri quadri, stabile che si trova all’interno di un lotto completamente recintato e il cui accesso è consentito solo attraverso un cancello metallico.

Della questione si sta interessando anche la polizia municipale, che ha constatato l’assenza di permessi da parte del costruttore e proprietario. Sequestrato quindi l’edificio.

domenica 30 agosto 2009

Al via la campagna di Sinistra e Libertà per la scuola pubblica, di qualità, per tutti.

Mentre negli altri paesi i governi affrontano la crisi investendo sul sapere e sulla conoscenza, il governo italiano, il ministro dell’economia e la donna di denari Gelmini sanno solo tagliare: tagliare fondi, tagliare insegnanti, tagliare cattedre. Tagliare il futuro alle ragazze e ai ragazzi italiani.
Sinistra e Libertà, invece, ritiene che l’investimento sul futuro è l’investimento nella scuola, nell’istruzione, nella ricerca, nel sapere. Ed allora lancia una grande campagna di mobilitazione in sostegno della scuola pubblica, di qualità, per tutti.

Nell’ambito della campagna sulla scuola pubblica chiamata “Donna di denari” sul sito di SeL sono stati predisposti una serie di strumenti pronti per l’uso. Per poter dare corpo all’iniziativa è sufficiente scaricarsi i PDF che trovate QUI

Salento: incendiate tre auto al sindaco di Presicce

PRESICCE - Un incendio la cui origine non è stata ancora chiarita ha danneggiato la notte scorsa a Presicce tre automobili parcheggiate per strada e appartenenti al sindaco della cittadina, Leonardo La Puma, a sua moglie e alla figlia.Le fiamme, propagatesi da una vettura all’altra, hanno anche danneggiato lo stabile in cui abita la famiglia. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco che hanno spento l’incendio e stanno compiendo accertamenti per verificarne l’eventuale origine dolosa. Indagini sono condotte da polizia e carabinieri.

Torino, svastiche e minacce al campo rom: «Via o vi bruciamo» ·

TORINO 28/08/2009 - Non sarebbe un gruppo di balordi ma una vera e propria gang organizzata di naziskin quella che nella tarda serata di mercoledì ha affisso in strada dell’Aeroporto un lenzuolo-striscione di minacce xenofobe. “Adesso basta. Un’altra spaccata e vi bruciamo il campo”, una scritta condita da una serie inequivocabile di simboli: svastiche naziste. Ora, sulla vicenda sta indagando la Digos che, a quanto trapela, non sottovaluterebbe l’azione dimostrativa. Verosimilmente, si pensa che lo striscione se da un lato rappresenta un violento avvertimento, dall’altro è l’inequivocabile segno di una presenza eversiva che già in passato aveva dato i primi segni di preoccupante vivacità.

Dunque, sembra da escludere che l’azione dimostrativa sia opera di residenti o commercianti della zona esasperati dalla presenza ingombrante degli zingari. Ma l’opera, piuttosto, un piccolo gruppo di fanatici che cerca in ogni modo di cavalcare la protesta per ottenere consenso e magari arruolare qualche nuovo adepto. Difficile dire chi siano i naziskin, se la gang sia radicata nel quartiere o meno. Certo è che la loro presenza e le loro azioni minacciose altro non fanno che rendere ancor più incandescente la situazione.

«Se la sono andata a cercare, ma noi non c’entriamo niente» dicono oggi i commercianti di Barriera di Milano, in attesa di riunirsi per decidere quali iniziative attivare per proteggere bar e negozi dalle spaccate. Qualcuno, commentando l’ultima settimana di razzie, aveva timidamente citato un precedente abbastanza noto. Quello dell’assalto e del rogo al campo Rom di Ponticelli, Napoli, del maggio 2008: i residenti del quartiere sospettavano che dietro il rapimento di un bambino ci fosse una giovane nomade dell’accampamento, incendiato poche notti dopo.

«Potrebbe succedere tranquillamente anche qui - dicevano pochi giorni fa i commercianti di Barriera di Milano -. Prima o poi, se non faranno qualcosa le forze dell’ordine, ci penseranno i cittadini».

Che la rivolta di Ponticelli possa avere ispirato qualche testa calda non è solo un’ipotesi. «C’è chi non ha usato mezzi termini per rabbia o per esasperazione - dicono ancora dalle parti di via Mercadante -, non è una cosa da poco essere continuamente presi di mira per poche centinaia o migliaia di euro ogni volta. Siamo tutti a rischio chiusura, se continuano questi furti. Tra assicurazioni, danni che dobbiamo riparare in proprio e risarcimenti ci stanno mettendo sul lastrico».

da: www.cronacaqui.it e Antifa

Muore Virgilio Savona del Quartetto Cetra




È morto giovedì 27 agosto sera a Milano a 89 anni Virgilio Savona, uno dei componenti del celebre Quartetto Cetra. Era nato il 1 gennaio 1920 a Palermo, fu musicista e autore di un quartetto musicale molto popolare negli anni '50 e '60 anche grazie alle loro partecipazioni televisive. Oltre 1000 canzoni tra le più celebri "Aveva un bavero", "Nella vecchia fattoria". L'artista si è spento all'ospedale San Giuseppe di Milano dove era stato ricoverato, malato di Parkinson, per complicazioni dovute anche all'età.

Con lui, fino alla fine, Lucia Mannucci, compagna di una vita e voce femminile del Quartetto. Con Savona, si è spenta la terza voce dei Cetra: nel 1988 era scomparso Tata Giacobetti e nel 1990 Felice Chiusano. Tra le sue composizioni, merita un particolare ricordo l'album «Sex et politica» del 1970 con brani scritti per Giorgio Gaber che riprendevano versi di poesie ed elegie latine, tra cui opere di Ovidio e Catullo.

«Uno dei grandi protagonisti storici della musica e della cultura italiane», così il Club Tenco saluta Virgilio Savona al quale nel 1994 assegnò il Premio Tenco, come operatore culturale. «Ma la sua figura era talmente complessa e variegata che nel 2004 - ricorda il Club - gli fu dedicata l'intera 'Rassegna della canzone d'autore': tutti gli artisti partecipanti eseguirono sue canzoni e ne fu tratto un disco, significativamente intitolato 'Seguendo Virgilio'; mentre i vari aspetti della sua attività furono oggetto di un convegno di due giorni, dal quale venne ricavato un libro con lo stesso titolo».

da L'Unità

[1972]
Testo e musica di Anton Virgilio Savona
Album: E' lunga la strada
Paroles et musique: Anton Virgilio Savona
Album: E' lunga la strada

Dall'album intitolato “E' lunga la strada” del 1972.
Testo tratto dal libretto che accompagna il cd “Seguendo Virgilio – Dentro e fuori il Quartetto Cetra”, Ala Bianca Group/I dischi del Club Tenco, 2005. Nel disco di tributo ad A.V. Savona il brano è eseguito da Alessio Lega e Mariposa.

La canzone è preceduta da questa breve introduzione:

“Intorno al 1730, Giovanni Meslier*, parroco di un paese di Champagne, si lasciò morire di fame esaperato dal fatto di non essere riuscito ad ottenere giustizia in una lite contro un potente. Lasciò i suoi beni ai parrocchiani e scrisse in tre esemplari un testamento politico e religioso: il testamento del parroco Meslier.”

Il testamento del parroco Meslier

Avete sul collo fardelli pesanti
di prìncipi, preti, tiranni
e governanti;
di nobili, monaci, monache e frati,
di “guardie di sali e tabacchi”
e magistrati.
Avete sul collo i potenti e i guerrieri,
gli inetti, gli inutili e i furbi,
e i gabellieri,
i ricchi che rubano per ingrassare
lasciando che il popolo intanto
resti a crepare.

Abbatete
i ricchi condottieri
e i prìncipi!
Sono loro,
non quelli degli inferni,
i diavoli!

Vermi che lasciano al contadino
soltanto la paglia del grano
e la feccia del vino.
Teorizzano pace, bontà e fratellanza
e poi legalizzano i troni
e l'ineguaglianza.
Hanno inventato il Dio dei potenti
per addormentare e piegare
i corpi e le menti
Hanno inventato i demoni e gli inferni
per far tremare e tacere
poveri e inermi.

Abbattete
i ricchi condottieri
e i prìncipi!
Sono loro,
non quelli degli inferni,
i diavoli!

Non sono i demoni dell'intera corte
i vostri peggiori nemici,
dopo la morte,
ma sono coloro che alzano le dita
annientano e fanno marcire
la vostra vita!
E se vi unirete potrete fermarli
usando budella di prete
per impiccarli;
così non sarete più schiavi di loro
ma infine padroni dei frutti
del vostro lavoro!

Abbatete
i ricchi condottieri
e i prìncipi!
Sono loro,
non quelli degli inferni,
i diavoli!

Muore Elvira Sabbatini Paladini direttrice del Museo Storico della Liberazione


È deceduta a Roma all’età di 88 anni Elvira Sabbatini Paladini, a lungo direttrice del museo storico della Liberazione di via Tasso. Moglie di Arrigo Paladini, partigiano torturato in quella che fu la sede della Gestapo a Roma durante l’occupazione nazista. Elvira Sabbatini Paladini ha guidato per anni migliaia di persone nel museo, unico, insieme con la Risiera di San Saba rimasto com’era ai tempi del nazifascismo.
I funerali si svolgeranno lunedi’ alle 11 nella chiesa dei Santi Angeli Custodi, nella Capitale. Una donna “appassionata e testimone diretta degli orrori e delle speranze di cui e’ stato teatro l’ex carcere delle SS di via Tasso, uno dei simboli della nostra Resistenza”, ha voluto sottolineare in una nota il presidente della regione Lazio, Piero Marrazzo. Esprimendo il suo cordoglio a familiari e parenti, Marrazzo ha ricordato come “grazie a Elvira Paladini intere generazioni, e soprattutto giovani cittadini, hanno potuto emozionarsi tra le mura del Museo storico della Liberazione di via Tasso”. Nel ricordare questa “donna straordinaria”, il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, ha sottolineato come Elvira Paladini abbia “rappresentato un esempio da seguire e permesso al Museo della Liberazione di diventare un luogo fondamentale per la nostra memoria e un patrimonio di Roma e dell’Italia”. Un “sentito grazie” alla memoria storica di Elvira Paladini e’ arrivato dall’assessore alle Politiche Culturali del Comune di Roma, Umberto Croppi: “La sua memoria storica -ha osservato in una nota- ha aiutato le nuove generazioni, non solo a non dimenticare ma ad impegnarsi per costruire un futuro di pace nel rispetto di culture ed etnie diverse”.

da Reset-Italia

La Rai rifiuta il trailer di Videocracy - "E' un film che critica il governo"

Anche da Mediaset no allo spot del film che racconta l'ascesa delle tv di Berlusconi
La tv di Stato esigeva un contraddittorio per rispettare il pluralismo


ROMA - Nelle televisioni italiane è vietato parlare di tv, vietato dire che c'è una connessione tra il capo del governo e quello che si vede sul piccolo schermo. La Rai ha rifiutato il trailer di Videocracy il film di Erik Gandini che ricostruisce i trent'anni di crescita dei canali Mediaset e del nostro sistema televisivo.
"Come sempre abbiamo mandato i trailer all'AnicaAgis che gestisce gli spazi che la Rai dedica alla promozione del cinema. La risposta è stata che la Rai non avrebbe mai trasmesso i nostri spot perché secondo loro, parrà surreale, si tratta di un messaggio politico, non di un film", dice Domenico Procacci della Fandango che distribuisce il film. Netto rifiuto anche da parte di Mediaset, in questo caso con una comunicazione verbale da Publitalia. "Ci hanno detto che secondo loro film e trailer sono un attacco al sistema tv commerciale, quindi non ritenevano opportuno mandarlo in onda proprio sulle reti Mediaset".

A lasciare perplessi i distributori di Fandango e il regista sono infatti proprio le motivazioni della Rai. Con una lettera in stile legal-burocratese, la tv di Stato spiega che, anche se non siamo in periodo di campagna elettorale, il pluralismo alla Rai è sacro e se nello spot di un film si ravvisa un critica ad una parte politica ci vuole un immediato contraddittorio e dunque deve essere seguito dal messaggio di un film di segno opposto.

"Una delle motivazioni che mi ha colpito di più è quella in cui si dice che lo spot veicola un "inequivocabile messaggio politico di critica al governo" perché proietta alcune scritte con i dati che riguardano il paese alternate ad immagini di Berlusconi", prosegue Procacci "ma quei dati sono statistiche ufficiali, che sò "l'Italia è al 67mo posto nelle pari opportunità"".

A preoccupare la Rai sembra essere questo dato mostrato nel film: "L'80% degli italiani utilizza la tv come principale fonte di informazione". Dice la lettera di censura dello spot: "Attraverso il collegamento tra la titolarità del capo del governo rispetto alla principale società radiotelevisiva privata", non solo viene riproposta la questione del conflitto di interessi, ma, guarda caso, si potrebbe pensare che "attraverso la tv il governo potrebbe orientare subliminalmente le convinzioni dei cittadini influenzandole a proprio favore ed assicurandosene il consenso". "Mi pare chiaro che in Rai Videocracy è visto come un attacco a Berlusconi. In realtà è il racconto di come il nostro paese sia cambiato in questi ultimi trent'anni e del ruolo delle tv commerciali nel cambiamento. Quello che Nanni Moretti definisce "la creazione di un sistema di disvalori"".

Le riprese del film, se pure Villa Certosa si vede, è stato completato prima dei casi "Noemi o D'Addario" e non c'è un collegamento con l'attualità. Ma per assurdo, sottolinea Procacci, il collegamento lo trova la Rai. Nella lettera di rifiuto si scrive che dato il proprietario delle reti e alcuni dei programmi "caratterizzati da immagini di donne prive di abiti e dal contenuto latamente voyeuristico delle medesime si determina un inequivocabile richiamo alle problematiche attualmente all'ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso e al suo rapporto con il sesso femminile formulando illazioni sul fatto che tali caratteristiche personali sarebbero emerse già in passato nel corso dell'attività di imprenditore televisivo".

"Siamo in uno di quei casi in cui si è più realisti del re - dice Procacci - Ci sono stati film assai più duri nei confronti di Berlusconi come "Viva Zapatero" o a "Il caimano", che però hanno avuto i loro spot sulle reti Rai. E il governo era dello stesso segno di oggi. Penso che se questo film è ritenuto così esplosivo vuol dire che davvero l'Italia è cambiata".

di Maria Pia Fusco da LaRepubblica

Riflessioni sulla sentenza della Corte Europea

Non è possibile una lettura “semplice” della sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani sull’omicidio di Carlo Giuliani. E’ necessario scegliere un punto di vista preciso che in questo caso, quello cioè dei fatti di Genova 2001, è diverso, antitetico, tra ciò che si può scorgere dall’angolazione di “movimento”, a quello che si sviluppa invece dalla prospettiva “democratica”. Dimostrare questa tesi significa quindi, innanzitutto, definire i punti di partenza. Iniziando ad esempio da ciò che rappresenta, nel nostro paese e in questo squarcio di tempo, la posizione “democratica”. La fine progettuale della sinistra ha prodotto uno strano essere da quelle parti: un mutante, una sorta di freak del pensiero politico, in cui il giacobinismo proprio di ogni sinistra, che serve ad alimentare la lotta politica, essenzialmente giudiziaria e moralistica, contro il nemico Berlusconi, ha rapidamente preso la scena, alleandosi con il giustizialismo di destra. Ne emerge un quadro in cui l’idea liberale di giustizia e del rapporto tra normazione e legittimità, ne escono massacrati. Per certi versi una sorta di fascismo culturale di sinistra che si gioca la partita all’ultimo sangue con il neo fascismo tecnocratico dell’altra parte, in lizza per il potere. Il sangue è quello ovviamente dei soggetti sociali “teoricamente” titolari di diritti, che stanno in mezzo e sono terra di conquista, o meglio, carne da macello. I democratici nostrani contemporanei sono un mostro, questa è la verità: pensano come Dalema, parlano come Di Pietro, amministrano come Bersani, si prostituiscono come Rutelli e usano il cilicio come la Binetti. Il loro unico progetto è convincerci che tolto Berlusconi, loro le stesse cose le fanno meglio. Non vi è alcuna alternativa, se non quella di dare più potere al carcere, ai magistrati, alla polizia, alle guerre, al controllo, alla pubblica morale teocratica a discapito dell’etica laica. Lo sfacelo è d'altronde sotto gli occhi di tutti, e la grande famiglia che si sta formano attorno al quotidiano “La Repubblica”, checchè ne dicano i “sinistri”, di fatto comprende anche le ultime falci e martello. I democratici hanno sempre pensato che bisognasse innanzitutto salvare lo Stato dopo Genova. Che bisognasse disinnescare rapidamente l’aria di rivoluzione che in quelle strade si era mescolata a quella asfissiante dei lacrimogeni. E’ per questo che quel “diritto di resistenza”, nato in Via Tolemaide, faceva paura soprattutto a loro. La destra probabilmente lo ha temuto meno, e lo ha affrontato con la guerra.

I democratici invece temono che proprio insito nel diritto a ribellarsi anche con violenza alla forza dello Stato, vi sia la loro fine in quanto garanti del rapporto, diseguale e violento, tra lo Stato stesso, tra il potere, e chi lo subisce. Per questo il loro rapporto con le “rivoluzioni” è diametralmente opposto a quello della destra. Quest’ultima le combatte con la guerra, i primi invece cercano sempre di renderle impossibili prima che partano. Le denigrano, le criminalizzano ed infine le occultano. In questo senso la sentenza di Strasburgo è certamente una sentenza “democratica”: “Placanica ha sparato per legittima difesa” ma vi sono stati a carico dello Stato “problemi procedurali e violazioni di articoli”. Si giunge fino al ridicolo risarcimento di 40mila euro per la famiglia Giuliani. Tutto in sostanza per dire che vi è un sistema che sostanzialmente funziona se gestito bene. Anzi, non serve nemmeno che effettivamente le norme vengano rispettate, perché il solo atto di riconoscere qualche violazione, è espressione di democrazia. La Corte di Strasburgo è un utile tribunato democratico in questo senso: lo fa valutando le deportazioni di massa dei migranti che continuano ad esserci, le torture e gli omicidi compiuti dalle polizie europee che continuano a ripetersi, i respingimenti illegali dei bambini afghani che scappano dalla guerra, che sono diventata prassi normale. Continua nel suo lavoro, la Corte europea, per permettere che il sistema continui a reggere, non perché esso sia messo radicalmente sotto accusa.

Ciò che è accaduto a Genova nel 2001 non ha paragoni in Europa. Solo il regime iraniano negli ultimi mesi ha ricordato come furono usati polizia e carabinieri quel luglio, in Italia. I democratici avevano preparato il dispositivo dell’ordine pubblico a Genova. Perché erano al Governo. Il Global forum di Napoli, la cui repressione fu gestita dal democratico ministro dell’Interno di allora, Enzo Bianco, aveva già dimostrato loro di che polizia stessero per servirsi, un’accozzaglia di fascisti di tutte le risme inquadrati in plotoni di picchiatori addestrati e legalmente giustificati, un po’ come li racconta Bonini in “Acab”, delegando la gestione del comando delle truppe, la guida della repressione, ad un “democratico” della statura di De Gennaro. Qual’era la strategia che volevano adottare per Genova dunque, sapendo che ci sarebbe stata una vera e propria sollevazione di popolo contro il G8? Quella di accettare la “soluzione politica”, cioè di trasferire in mezzo al mare il vertice, un po’ come fece il Canada dopo, piazzandolo in mezzo alle montagne? Non l’hanno nemmeno presa in considerazione. Tra il popolo che insorge, anche il loro popolo, e la riconferma del potere come entità assoluta e che si dimostri solida anche se in realtà non lo è, in grado di gestire qualsiasi evento di contestazione, insomma gli ingredienti fondamentali per potersi permettere di non mettersi mai seriamente in discussione, hanno optato senza indugio per la seconda ipotesi.

Anche perché, in fondo, non è questa la contemporanea maniera di “praticare” la democrazia? Non è così, dimostrando che il potere è assoluto tanto da poter concedere la testimonianza senza modificare nulla di sé stesso, che si definisce la sua moderna, e mostruosa, natura democratica? Avevano anche un’ulteriore carta da giocare, i democratici: in caso di perdita di elezioni, come era ampiamente prevedibile, la patata bollente sarebbe toccata agli avversari. I quali, consci del rischio di partire male e proseguire peggio (le proteste successive a quelle contro il G8 non potevano trarre forza da quell’evento, ma anzi dovevano essere depotenziate subito, dagli esiti di luglio), applicarono al modello di gestione dell’ordine pubblico deciso dai loro predecessori, alcuni “accorgimenti”. A scanso di trappole. Ad esempio il ruolo di primo piano frettolosamente affidato ai carabinieri del generale Leso, nonostante sulla carta la conduzione delle operazioni di piazza spettasse alla polizia. In un articolo di analisi molti mesi dopo il luglio del 2001, proprio il generale, a cui si deve la creazione delle MSU, le unità di intervento risolutivo dell’Arma, impiegate in Iraq come in Afganistan, definisce Genova come una situazione affrontata con “tecniche di controguerriglia forse un po’ troppo pesanti”, ma sostanzialmente dichiara raggiunto l’obiettivo. La polizia, e De Gennaro, rispondono “sul campo” con la Diaz: ordinano un intervento “un po’ troppo pesante”, proprio per riequilibrare il ruolo della PS nei confronti dell’Arma dei carabinieri. Proprio per dichiarare, de facto, l’assoluta obbedienza al nuovo governo, semmai qualcuno avesse potuto dubitarne. Ma è curioso che sia proprio Sgalla, un uomo della sinistra ai vertici della polizia, a gestire pubblicamente, in una conferenza stampa proprio quella notte, la brillante operazione cilena della Diaz. E, dulcis in fundo, è curioso, o forse solo apertamente vergognoso, che il primo atto del Governo Prodi con Rifondazione nell’esecutivo e Bertinotti presidente della Camera, sia stata la nomina di De Gennaro a capo di gabinetto del ministro degli interni Amato. Per la prima volta nella storia della Repubblica un “Prefetto di prima classe” viene automaticamente promosso a membro di un governo. Pure i Prefetti hanno protestato. Da una parte i “democratici” chiedevano pubblicamente la commissione d’inchiesta parlamentare, dall’altra promuovevano De Gennaro.

E anche sulla Commissione d’Inchiesta ci sarebbe molto da dire. I democratici, a differenza della destra che la temeva per danno d’immagine, hanno sempre specificato, da Violante a Di Pietro, che bisognava mettere sotto accusa manifestanti e polizia. La tesi da dimostrare, per loro, già scritta nella risoluzione di minoranza dopo la commissione d’indagine del settembre 2001, è che qualche mela marcia aveva sbagliato da entrambe le parti. Certo, il governo in carica si era dimostrato incapace, ma Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, intesi come vertici, non andavano toccati. Allo stesso modo solo una piccola parte di manifestanti violenti avevano provocato la reazione delle forze dell’ordine, poi degenerata. Vi è dunque un problema a monte di scelta di prospettive, per poter valutare ciò che oggi la Corte di Strasburgo dice su Genova. Se si sceglie la traiettoria degli attuali democratici, la decisione della Corte appare equilibrata e in qualche modo riparatrice. Solo se si considera l’attuale parabola “democratica” come parte integrante del sistema di potere che sopravviene, e questo in termini più generali potrebbe valere anche per lo stesso Obama, allora possiamo criticarla, in funzione di un’altra prospettiva.

Quella di un cambiamento radicale. Nessun democratico contemporaneo ammetterà mai, né indossando i panni del giudice, né del poliziotto, né del politico, che per avere ragione dei torti subiti a Genova, dal punto di vista della legge o della cultura dei diritti umani, bisogna riconoscere il diritto dei manifestanti a ribellarsi. Bisogna procedere per questo con un’amnistia per tutti coloro che sono stati condannati. Bisogna mettere sotto accusa, aprendo una pubblico iter di riforma, l’intero corpo di polizia e dei carabinieri. Che significherebbe ad esempio, per un democratico, vigilare sul loro operato, disarmarli quando hanno difronte gente disarmata, punirli severamente, più degli altri, quando commettono un omicidio. E far saltare teste ai loro capi, a chi comanda, quando ciò avviene. In qualche modo ha ragione qualche commentatore, come Imarisio sul corriere, che dice che questa sentenza è frutto di una “strategia sbagliata da parte dei no global” che dovevano puntare su un giudizio relativo a tutte le violazioni, le torture, i pestaggi, il massacro compiuto a Genova dalle forze dell’ordine, e non sul caso Placanica. Ma La Corte poteva, anche a partire dal caso dell’omicidio di Carlo Giuliani, esprimersi lo stesso sul resto. Non lo ha fatto con il dovuto rigore perché si sarebbe trattato di legittimare il “diritto di resistenza”, questa è la verità. Come difronte ai crimini commessi da questo governo nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo, si dovrebbe legittimare il sabotaggio e la disobbedienza alle leggi securitarie, come minimo.

Ma questa non è la prospettiva dei democratici contemporanei e dei loro tribunati nella costituzione imperiale. Uno dei sette giudici della Corte di Strasburgo si chiama Zagrebelsky. E’ italiano ed è uno dei tre che ha votato contro la condanna dell’Italia al risarcimento dei 40mila euro per violazioni gravi dei diritti e negligenza nell’accertare le responsabilità. Uno dei tre giuristi democratici che ha scritto la mozione contro Berlusconi e contro il suo attacco “alla libertà d’informazione” si chiama Zagrebelsky. Scommettiamo che non è un omonimo? Si può essere dalla parte dello Stato per Genova e allo stesso tempo “democratico” difensore della libertà di stampa? O paladino della lotta alla mafia come Caselli e poi far arrestare gli studenti dell’Onda? O scandalizzarsi difronte ai costumi sessuali del premier e girarsi dall’altra parte quando in Afghanistan ammazziamo civili a decine? O quando li lasciamo morire di sete in mezzo al mediterraneo? Forse dovremmo interrogarci tutti su quanti guasti, dentro la cultura democratica, abbia fatto l’antiberlusconismo. Che ai moderni democratici basta per lavarsi la coscienza.

di Luca Casarini da GlobalProject

La politica del linciaggio - Violenza, volgarità e barbarie nella maggioranza che scricchiola


E poi se la prendono con Svastichella o con i ragazzotti che si dedicano imparzialmente a ronde-safari contro gay, zingari e migranti. Come se l’incitamento al linciaggio non provenisse dagli organi dello Stato, altro che dalla “pancia” del popolo. Ieri era l’apologia del “cattivismo” fatta niente meno che dal Ministro degli Interni Maroni a proposito del trattamento dei migranti in mare, oggi il giornale della famiglia-Stato Berlusconi, con il suo neo-assunto editorialista Feltri che infanga il direttore dell’Avvenire con una tattica obliqua ma non insolita: un’accusa diretta leggera e un sottinteso pesante, cioè un pretesto formale che farà sorridere i lettori di quel fogliaccio (molestie telefoniche) e un sottinteso che ne scatenerà le pulsioni selvagge (collegate a una “relazione omosessuale” –editoriale del 28 agosto–, meglio sghignazzata –replica del 29 agosto– come “vizietto“). Il tutto condito con l’inevitabile scusa che lui, Feltri, riguardoso com’è della proprietà anzi del proprietario Berluschino, non ha nulla contro l’omosessualità, magari ha tanti amici gay, ebrei, zingari (zingari no, non esageriamo). Però, come si permette di dare lezioni di moralità, un gay! Che ci vogliamo fare se poi quattro teppisti accoltellano passanti gay o presunti tali o ne incendiano i locali. Per dirla con Marcello Veneziani (sul medesimo Giornale del 29 agosto), «l'occasione delle recenti aggressioni ai gay è stata ghiotta per riprendere la celebrazione pubblica dell'omosessualità e la condanna di chi non si compiace per la pervasiva presenza di un immaginario gay che colonizza ormai la società». Mentre, perbacco, si tratta pur sempre di una «distorsione del disegno naturale» («sovrannaturale per chi ci crede»), ovvero della sessualità orientata alla procreazione. Come se in un disegno intelligente, naturale o sovrannaturale, potesse inserirsi l’esistenza di uno scapigliato “provocatore” intellettuale come Veneziani. Legittima, per carità, ma non proprio attestante l’intelligenza del disegno.
Se non esiste un ID (Intelligent Design) nell’universo, tanto meno esiste nel PdL. Visto che lo sconsiderato attacco alla Cei è stato effettuato su commissione di Berlusconi, come l’assalto legale di Ghedini a tutta la stampa nazionale e internazionale, c’è da chiedersi se questa sovraesposizione mediatica, con tutti i rischi di scollamento della maggioranza e delle istituzioni, sia un semplice errore, un tentativo di sviare l’attenzione dall’incombente autunno caldo o la risposta anticipata a qualche complotto mirante a far fuori il Papi, i suoi cammelli gheddafiani e i tubi del gasdotto South Stream. In ogni caso si produce un indebolimento oggettivo della tenuta politica della maggioranza (il cui fulcro è il disperato peronismo tremontiano) e una dispersione dell’alternativa Pd tra gossip e leccate alla Chiesa. Si apre dunque uno spazio per gestire politicamente, da parte di movimenti non subalterni alla “sinistra”, la crescente ondata di proteste, puntando tanto sugli effetti materiali della crisi quanto sulla degenerazione, accuratamente promossa dall’alto, di sentimenti e stili di vita. Su quel razzismo, cioè, che viene declinato in una scala di sfumature dal più brutale al più sofisticato: l’odio di razza vero e proprio verso lo straniero (povero) e verso il meridionale (concorrente), l’odio di genere verso il sessualmente diverso (dichiarato) e verso le donne (incontrollabili), l’odio per l’eguaglianza. Già, credete che i discorsi di Giavazzi sul merito o quelli di Sacconi contro il livellamento salariale differiscano tanto dalle sbrasate di Borghezio e Salvini o dagli editoriali di Feltri? Il discrimine fra cultura e barbarie è sottile, come ci ricordò Walter Benjamin, ma forse nel nostro caso parlare di cultura è un eufemismo.

di Augusto Illuminati da GlobalProject

Per noi la legge Alfano. Negli Usa il Freedom Information Act dal '66. Un'altra domanda a Berlusconi

Viviamo da tempo in un paese nel quale, grazie agli errori della sinistra e alla vittoria ultima (ma ormai tre volte ripetuta) di Berlusconi, la libertà di informazione è a tutti i livelli un genere optional, una sorta di piccola lampada che oggi è limitata a poche testate, a un piccolo angolo della Rai sul quale si preparano nuovi assalti, probabilmente vittoriosi, se non ci sarà una forte mobilitazione di una parte rilevante della società italiana.
Eppure oggi abbiamo conferme costanti della situazione drammatica in cui ormai versa l’articolo 21 della costituzione repubblicana e ogni altra legge che si conformi ad essa.

La ripresa parlamentare ormai imminente porterà con ogni probabilità l’approvazione del disegno di legge Alfano che ripercorre, senza differenze rilevanti, il cammino del regime fascista, con l’effetto di intimidire i magistrati, in particolare quelli che non hanno un minimo di sensibilità democratica, e i giornalisti.
Avrà l’effetto, come sanno da tempo i lettori del nostro sito, di seppellire la cronaca giudiziaria e di ostacolare in maniera determinante tutte quelle indagini in grado di mettere in difficoltà la corruzione e il malaffare che caratterizzano il nostro paese.

Sicchè lo stato di diritto tramonterà in maniera ancora più ampia e generalizzata di quanto è già avvenuto finora e il populismo autoritario, che ha già in buona parte sostituito la democrazia parlamentare iscritta nel nostro dettato costituzionale, dispiegherà tutti i suoi effetti negativi sul piano culturale, politico e sociale.
Con buona pace della classe politica del centro-sinistra, occupata a litigare ogni giorno e tesa soprattutto ad isolare quelle forze, come l’Italia dei Valori, che vanno avanti nella loro opposizione netta e intransigente al governo attuale, al punto da mettere in discussione l’alleanza elettorale e parlare in continuazione di alleanza stabile con l’Unione di centro di Pier Ferdinando Casini o, secondo l’ultima uscita di Piero Fassino, addirittura con il PDL del Cavaliere-Caudillo che ci governa.

Ebbene, grazie al silenzio dei nostri giornali più diffusi, se si esclude qualche rara eccezione, poco o nulla sanno i lettori italiani di quel che succede negli altri paesi dell’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, nostro maggior alleato internazionale sempre osannato dal governo Berlusconi, che dice di ispirarsi alla politica di Washington. Grossolana menzogna, si intende, ma che le televisioni pubbliche e private cercano di accreditare, giorno dopo giorno.

Negli Stati Uniti, invece, il Freedom Information Act, una legge che è in vigore con modifiche migliorative dal 1966, epoca della presidenza Johnson, consente ai cittadini, a tutti i cittadini, di ottenere non solo la desecretazione di importanti documenti segreti di tutte le presidenze americane ma anche di ottenere, fra le tante altre informazioni, il registro delle telefonate fatte dagli uffici dei ministri in carica.

Ebbene un grande giornale come il New York Times ha chiesto e ottenuto le telefonate del ministro del Tesoro di G. W. Bush, Hank Paulson. Attraverso quelle telefonate ha potuto accertare che il ministro, fino a poco tempo prima dirigente della Lehman Brothers fallita per la crisi, ha venduto, all’atto di diventare ministro, le proprie azioni GS della società ma successivamente ha avvantaggiato con la sua politica proprio i possessori di azioni di quella società cui il ministro ha dimostrato di continuare ad essere legato, malgrado la vendita delle sue azioni.

Dopo questa indagine il quotidiano americano ha scritto un severo articolo di critica all’ex ministro rimproverandogli di non essersi liberato del suo conflitto di interessi e di aver fatto gli interessi del gruppo di affaristi di cui fa parte piuttosto che quelli generali della comunità nazionale.
Ora un episodio come questo, di cui ha parlato qualche giorno fa, il 13 agosto Salvatore Bragantini sul “Corriere della Sera”(ma nessun altro giornale ne ha dato notizia) appare particolarmente significativo se confrontato alla situazione italiana.

Noi non abbiamo una legge paragonabile a quella americana, o a quella inglese che ne ha ripercorso le orme, e siamo ancora addirittura alle prese con la persistenza di un segreto di stato esteso oltre ogni limite ma, soprattutto, abbiamo una formidabile disattenzione di tutti i mezzi di comunicazione rispetto a quel che fa l’esecutivo come i vari ministri.

E ci chiediamo se una democrazia repubblicana, come prevede ancora la nostra costituzione, è in grado i propri compiti essenziali in una situazione così lontana da quella americana, cui pure dice di ispirarsi.
E’ una domanda che sarebbe da aggiungere alle dieci domande che Repubblica ha già fatto al presidente del Consiglio sui suoi comportamenti, spingendolo addirittura, nei giorni scorsi, a querelare con particolare arroganza il giornale che ha esercitato una normale attività di critica democratica.

da Articolo21

Lega, campagna d’estate sulla pelle dei naufraghi

La campagna d'estate della Lega, contro gli sbarchi e per i "respingimenti" dei disperati che arrivano per mare sulle coste italiane, si sta dispiegando con almeno due risultati.

1. Il primo è quello di far assumere alla Lega la leadership di fatto, dentro il centrodestra e dentro il governo Berlusconi, delle politiche sull'immigrazione e sulla sicurezza, parte importante ed elettoralmente determinante della politica tout-court del centrodestra. Ma direi di più: le posizioni su clandestini e sbarchi fanno assumere alla Lega, più in generale, la leadership "culturale" del centrodestra. Sono Bossi, Calderoli e soci a dare il tono alla destra italiana, a connotarla con spietata precisione. Creando quello che l'ex ministro Giuseppe Fioroni chiama "cinismo di popolo", diffondendo cioè l'idea che gli immigrati si meritino tutto ciò che subiscono, compresi i processi dopo i naufragi e i naufragi senza salvataggio (mai in mare si era vista una cosa simile).
Il gioco estivo di Bossi jr, Renzo (detto dal padre la Trota: Delfino sembra troppo anche a papà), e cioè "Rimbalza il clandestino", lanciato su Facebook, non è soltanto una ragazzata: è coerente con la politica della Lega e più potente di cento editoriali.

2. Il secondo risultato ha a che fare con la laicità e i rapporti con la Chiesa cattolica. «I vescovi fanno il loro mestiere e noi facciamo il nostro», ha detto Bossi. Una frase che a sinistra si sognano. Sì, perché la Lega, sulla battaglia (sbagliata e razzista) dei respingimenti, coglie l'occasione per fare una battaglia (giusta) sulla laicità dello Stato e della politica. Ha ragione quando rivendica (seppur rozzamente) la libertà di dire e di fare ciò che ritiene politicamente più opportuno, senza interferenze del Vaticano e dei vescovi italiani. Semmai mostra tutta la strumentalità del suo agire quando invece alza la croce come vessillo politico della sua crociata anti-islam, o dice che a Milano non si devono costruire moschee perché in periferia mancano tante chiese. Ma è il mondo cattolico (o meglio: una parte di esso) a cadere nella trappola: quando accetta tutto della destra (dal razzismo di Bossi alle escort di Papi Silvio) pur di avere una legislazione in linea con la dottrina cattolica su famiglia, bioetica, finevita, scuola... Un baratto cinico come chi lo concede.
Così i ragazzi di Cl hanno applaudito al Meeting di Rimini le dichiarazioni "moderate" (in quel caso) di Roberto Calderoli. È la dimostrazione di un pregiudizio positivo nei confronti della Lega che tra i cattolici (o meglio: tra una parte di essi) fa valorizzare le aperture "ragionevoli" e dimenticare la sostanza: quel "cinismo di popolo" che la Lega diffonde ogni giorno con scelte e dichiarazioni, parole e fatti, oltre che giochini su Facebook, imbellettandolo appena con qualche furba dichiarazione d'occasione davanti a una platea cattolica, per rivendicare subito dopo una autonomia e una laicità che la sinistra si sogna.

di Gianni Barbacetto da Micromega

Di Pietro : IdV da sola alle regionali pugliesi

'L'Italia dei Valori crede che sia necessario in Puglia un cambio generazionale e non contesta a Vendola responsabilità personali, perchè crediamo che sia davvero una brava persona'. Lo ha detto a Bari il presidente dell'Italia dei valori, Antonio Di Pietro, parlando con i giornalisti delle prossime elezioni regionali. Di Pietro ha spiegato: Vendola lo 'contestiamo politicamente perchè non ha rinunciato ad affiancarsi a personaggi che doveva tenere lontano e non ha controllato a sufficienza; per questo con quella squadra, pur se c'è la foglia di fico di Vendola, noi non possiamo metterci insieme'. 'L'Italia dei valori - ha aggiunto - cercherà in tutti i modi di costruire un'alternativa che dia alla Puglia il riscatto morale di cui ha bisogno, dopo l'esperienza disfattista del centrodestra e dopo questa cattiva esperienza della giunta di centrosinistra nei cui meandri si è inserito il malaffare di cui, purtroppo, il presidente della Regione non si è ancora scrollato in modo adeguato'. 'Ecco perchè - ha concluso - noi ne facciamo una questione di cambio generazionale di classe dirigente perchè, se non cambiano le facce, la politica è sempre quella'.

Dario Franceschini a Gallipoli motiva la riconferma di Vendola: “Perché governa bene”

C’è una bella differenza tra la difesa d’ufficio del senatore Nicola Latorre, per la ricandidatura alla presidenza della Regione Puglia di Nichi Vendola (“E’ un fatto naturale che il dibattito riparta dall’uscente”), e la valutazione più specifica e tutta politica di Dario Franceschini, che a Gallipoli motiva la riconferma di Vendola: “Perché governa bene” (notare l’uso attento del presente indicativo). Spostare l’ago della discussione sulle considerazioni di merito, relative ai fatti amministrativi dei cinque anni di governo regionale, anziché sulle ipotesi di schieramenti, strategie e tattiche di corto respiro elettorale, non può che far bene a quel cosiddetto “laboratorio Puglia”, che si vorrebbe modello innovativo per i futuri progetti sugli assetti politici nazionali e sponda cruciale per l’auspicato riscatto dell’intero Mezzogiorno.

Un merito certo da attribuire al duo Emiliano-Vendola è la loro capacità di mantenere la vicenda pugliese al centro dell’agenda politica generale. Continuando a gestire il pallino, dovrebbero riuscire ad evitare che le sorti di questa regione possano essere condizionate da giocate politiche fatte altrove. Che per una volta, almeno, la Puglia non diventi merce di scambio, per la salvaguardia di equilibri politici più lontani. Questa volta il punto fermo non potrà che essere quel laboratorio. Provassero altri, ogni tanto, ad essere funzionali a ragioni superiori di alleanza.

Ma il laboratorio non è tale solo se destinato alle alchimie catalizzatrici della difficile emulsione con l’Udc, almeno così fa intendere il segretario del partito più grande del centrosinistra. Dopotutto, proprio in Puglia, oltre all’esperimento Brindisi, è ancora fresca la controversa vicenda barese di Russo Frattasi (buono per attirare voti, ma non per far parte della giunta, a favore del segretario provinciale del partito). Il laboratorio pugliese ha prodotto anche altro, per cui sono in molti a sollecitare la battuta di ogni strada, per la riaffermazione prioritaria del presidente in carica. E non innanzitutto della cosiddetta “intesa”.

E’ chiaro che le vicende congressuali del PD, prima, e le primarie, poi, determineranno la piega del percorso elettorale immediatamente successivo. Ma, in un inevitabile gioco di specchi, le stesse elezioni regionali condizioneranno inevitabilmente i lavori di un congresso già abbastanza delicato e destinato ad essere decisivo sul futuro del Partito Democratico.

La sua evoluzione e la stessa partita delle alleanze dipenderà anche dalla consapevolezza di dover passare tutti alla pratica di un tempo indicativo meno precario. Dalla tendenza spontanea nell’uso nostalgico del passato prossimo o da quello decisamente più ambizioso del futuro. Dato che, per il momento, è inutile sperare nella temerarietà declinata in altro modo: quello di un più coraggioso e corretto uso del congiuntivo.

sabato 29 agosto 2009

SAGRA DELL'APOLOGIA DI REATO

Prove tecniche di libertà d'espressione

L'iniziativa è davvero originale. E' stata lanciata su facebook da Gruppo Anarchico!

Inizio:
sabato 29 agosto 2009 alle ore 16.10

Fine:
lunedì 14 settembre 2009 alle ore 19.10

DESCRIZIONE

L'illegittimità dell'apologia di reato costituisce un forte freno, potenzialmente devastante se interpretata in maniera restrittiva, alla nostra libertà d'espressione. Postate come commenti le vostre apologie di reato, sostenete le peggiori nefandezze...io al massimo sono responsabile di apologia di apologia di reato.