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domenica 23 agosto 2009

Sbarcano nel Salento 17 afgani, fermati dalla polizia

All’alba di questa mattina, diciassette immigrati clandestini afgani, sbarcati questa notte sulle coste salentine, sono stati fermati dalla polizia. I clandestini sono stati bloccati a piedi sulla litoranea che collega la marina di Pescoluse a San Gregorio di Patu', nel Capo di Leuca.

da CorriereSalentino

DALL'AFGANISTAN SULLE COSTE SALENTINE: SBARCANO IN 17

Lo sbarco è avvenuto durante la notte, grazie anche alle condizioni climatiche del mare, assenza di vento e mare Adriatico, Canale d’Otranto, praticamente piatto. Il gruppo bloccato dalla polizia

PATU' - Lo sbarco è avvenuto durante le ore notturne, grazie anche alle condizioni climatiche del mare, assenza di vento e mare Adriatico, Canale d’Otranto, praticamente piatto.

L’approdo di 17 immigrati clandestini di nazionalità afgana sulle coste salentine, è finito all'alba con la polizia che ferma il gruppo mentre risale a piedi la litoranea che collega la marina di Pescoluse a San Gregorio, frazione di Patu', all’estrema punta del Salento.

Gli immigrati, tutti in buone condizioni di salute, sono stati portati in questura per le procedure di identificazione.

da LeccePrima

Cia, in un rapporto interno le prove delle torture

Un caso accertato, quello dell'attentatore della Uss Cole al Nashri
che fu sotto posto alla pratica del waterboarding. il documento sarà pubblicato


WASHINGTON - Abd al Rahim al Nashiri, uno dei presunti responsabili dell'attentato contro la nave statunitense Uss Cole, venne sottoposto a minacce e torture nel corso degli interrogatori condotti dai funzionari della Cia: è quanto si legge in un rapporto interno dell'agenzia, che verrà diffuso la settimana prossima.
Catturato nel novembre del 2002, al Nashri venne sottoposto alla pratica del "waterboarding" - resa illegale dall'amministrazione Obama perché ritenuta una forma di tortura - e minacciato con armi e con un trapano elettrico.

I dettagli degli interrogatori sono contenuti nel rapporto dell'ispettorato generale della Cia relativo al 2004, del quale un tribunale federale ha ordinato la pubblicazione.

da LaRepubblica

Le scuse del boia del Vietnam "Fu un massacro, perdonatemi"

Il tenentino che perse la guerra in Vietnam ha aspettato quarantun anni per chiedere scusa, forse un po' troppo tempo, ma finalmente anche per lui il sollievo della confessione è arrivato. Compiuti i 66 anni, l'età dei bilanci e dei fantasmi, William Calley, il tenente di fanteria che guidò la Compagnia "C" al massacro di un intero villaggio vietnamita per aumentare il "body count", il bottino dei morti come pretendevano i generali, ha chiesto scusa. Ha confessato di non poter più vivere con il ricordo dell'orrore, di quelle donne violentate e mitragliate, di quei bambini trapassati alla baionetta, dei vecchi consumati dai lanciafiamme abbracciati ai piccoli che cercavano di proteggere e di sperare, nel pubblico pentimento, qualche sollievo dagli spettri che lo assediano, dal 16 marzo del 1968.
Nessuno, non i generali a quattro stelle, non i presidenti e neppure gli strateghi nemici come il generale Giap, fece quello che il tenente William Laws Calley fece a 25 anni per mobilitare il disgusto nazionale per quella che, dopo di lui, sarebbe per sempre diventata "una sporca guerra". Fu colui che scosse l'America dalla certezza della propria eccezionalità e della propria innocenza e la mise di fronte alla realtà atroce di quella presunta missione civilizzatrice.

Calley ebbe la sfortuna di avere un commilitone che sentì prima di lui il bisogno di parlare, di cercare un giornalista coraggioso, Seymour Hersh, disposto a fare quello che né i comandi, né il Parlamento americano, avevano osato fare: raccontare quello che era accaduto nel villaggio di My Lai, un nome che suona beffardamente in inglese come "la mia menzogna", in quel marzo del 1968.

Quando Calley, ufficialetto di complemento prodotto in fretta e furia dopo appena 16 settimane di corso, fu inviato a My Lai, erano passate poche settimane dall'offensiva del capodanno buddista, il Tet. La macchina militare americana, all'apice dei 500 mila soldati, aveva sofferto non una sconfitta, ma un'umiliazione, e il mito della invincibilità, della "luce alla fine del tunnel" si era frantumato in patria, proprio mentre esplodeva il '68. Calley, e i suoi soldati, non cercavano vittorie, cercavano vendetta per i compagni uccisi, sfogo per la loro esasperazione, e corpi da contare, per concludere la missione e tornare in fretta al mondo, a casa. Si chiamavano operazioni "cerca e distruggi", e la Compagnia C dell'Undicesima Brigata di fanteria leggera sbarcò dai proprio elicotteri per distruggere.

Non fu mai stabilito quanti esseri umani furono uccisi, perché nella giungla tropicale i corpi si decompongono in fretta e nelle capanne incendiate non arrivò nessuna polizia scientifica a frugare nei resti. Forse 70, come sentenziò la Corte Marziale, 300, come disse qualche testimone, 500 secondo il piccolo museo memoriale costruito nel villaggi.

Ma nessuno di loro, neppure a guerra finita, risultò essere un guerrigliero, un "quadro" vietcong, un agente del Nord comunista. Per tre ore, lui - Calley detto "Rusty", il rugginoso per le efelidi infantili, un ragazzo qualsiasi che si era arruolato soltanto perché la sua auto si era guastata davanti al centro di reclutamento e, disperato, senza soldi, studi e futuro, era entrato - i suoi soldati, anche loro giovanotti qualsiasi pescati nella lotteria della leva militare, divennero quello che la guerra produce sempre, secondo l'ammonimento del grande generale nordista e distruttore di Atlanta, William Tecumseh Sherman: demoni.

Furono necessari due anni, lo scoop del giornalista Seymour Hersh che lacerò il sudario di silenzio costruito dal governo attorno a My Lai, perché il processo fosse celebrato, con una sentenza che incendiò l'America. I pacifisti furono sconvolti dalla condanna all'ergastolo del solo Calley, e dalla assoluzione del superiore diretto che lo aveva inviato in missione, il capitano Medina, quando emersero immagini di bambini ripescati dalle fosse con una "C" incisa nel petto dalle baionette. I buoni patrioti furono altrettanto sconvolti da una condanna così pesante per "crimini di guerra" contro un soldato colpevole, secondo loro, soltanto di avere - antica storia - obbedito agli ordini. Si sollevarono per lui governatori nel Sud, tra i quali anche un futuro presidente, Jimmy Carter. E Nixon commutò la pena dall'ergastolo a soli due anni di arresti domiciliari, nel 1974, quando ormai la guerra era finita.

Finita per gli altri, ma non per il tenente figlio di un rigattiere della Florida, divenuto criminale di guerra. Quando tornò a piede libero, lavoricchiò come commesso nel negozio del suocero, poi come venditore di polizze. Sempre con il sabba di quei cadaveri che neppure lui sapeva quanti fossero, perché la conta dei cadaveri vietnamiti era notoriamente fasulla e gonfiata, fino alla sera di giovedì scorso, quando si è alzato a parlare a una cena del club dei Kiwanis per chiedere, 41 anni dopo, "perdono" e ammettere tutto. "Io lo perdono anche - ha detto alla Associated Press il vecchietto che fa da guardiano al museo del massacro in Vietnam ed ebbe una sorella nella fossa - ma deve venire qui, a My Lai, e chiederlo a noi".

da LaRepubblica

Roma: Infastidito da effusioni accoltella due gay

L'aggressione all'uscita del Gay Village, uno dei feriti intubato e operato d'urgenza
Il responsabile, che è fuggito, è stato denunciato per tentato omicidio
Infastidito da effusioni accoltella due gay
"Perché arrivare a uccidere per niente?"
Lo sdegno e la rabbia della associazioni omosessuali
Il sindaco Alemanno: "Grave che non sia stato arrestato"
Infastidito da effusioni accoltella due gay "Perché arrivare a uccidere per niente?"
ROMA - "Sembrava una corrida ma al posto del toro c'era un ragazzo insanguinato: nessuno interveniva, ma tutti guardavano. Guardavano quell'animale, quel matto che dopo avergli dato una coltellata riempiva il ragazzo trentenne di calci e pugni". Con queste parole un testimone racconta l'aggressione che nella notte ha avuto per vittime due giovani omosessuali, uno dei quali è stato operato d'urgenza all'addome. E ora, dal suo letto d'ospedale, la vittima si chiede: "Perché mi ritrovo così senza aver fatto nulla di male? Perché arrivare ad uccidere per niente?".

"Verso le 4 in cinque siamo usciti dal Gay Village - racconta il testimone - eravamo davanti a una fontanella e a un paninaro quando uno dei miei amici ha conosciuto lì un ragazzo e si è messo a parlare con lui. Dopo un po' si sono abbracciati e si sono scambiati qualche bacio, ma innocente". A un certo punto, secondo il racconto del testimone, si è avvicinato un gruppetto di persone e uno ha urlato: "Ma che state facendo? Ci sono due ragazzini di 14 anni che non vogliono vedere certe cose!".

Uno dei due ragazzi ha replicato: "A quest'ora i ragazzini dovrebbero stare a letto". E l'altro ha aggiunto: "Oltretutto non stiamo facendo niente di male. Siamo persone libere in un paese libero". Ma a quel punto l'uomo si è allontanato di qualche metro, ha preso una bottiglia e ha spaccato prima la bottiglia in testa a uno e poi ha colpito con il coltello a serramanico l'altro. "Quest'ultimo è caduto a terra - aggiunge il testimone - e quella bestia ha continuato a riempirlo di calci e pugni. Mi sono avvicinato, l'ho preso quasi in braccio e mi sono allontanato. C'era sangue dappertutto. Ho urlato a quanti erano presenti di fare qualcosa ma nessuno si muoveva. Nel frattempo quella bestia e i suoi amici si sono allontanati a bordo di due auto. Poi è arrivata la polizia e l'ambulanza. Mi hanno detto che l'aggressore è un drogato e malato di Aids. Ma è stata una cosa vergognosa. Ora quel ragazzo è intubato, per tutta la mattinata è stato sottoposto a un intervento chirurgico. E' fuori pericolo ma rimane grave. E' pazzesco. Solo poche ore fa stava ballando e divertendosi ed ora è in un letto d'ospedale e non vuole avvisare la famiglia per il solito problema di essere gay. Credo che non sia nemmeno romano. E veramente un paese del terzo mondo".

Sul posto è intervenuta la polizia, che è riuscita a individuare l'aggressore: A.S., 40 anni, già noto per reati contro il patrimonio e per gli stupefacenti. Non è stato arrestato, ma denunciato in stato di libertà per tentato omicidio.

Dino, uno dei due gay aggraditi, è ora nel reparto di terapia intensiva del Sant'Eugenio, accanto al testimone, che gli ha salvato la vita. "Stavamo finendo di mangiare un panino - racconta - ci siamo abbracciati e dati un bacio, come una normale coppia. Solo un bacio. Questa città negli ultimi tempi è cambiata molto". Dino ha ancora mal di testa: "Mi sento stordito - dice - Quell'uomo prima ha dato una bottigliata in testa al mio amico, poi a me e quando gli ho risposto che non facevamo nulla di male mi ha dato la coltellata".

Non si sono fatte attendere le reazioni per un'aggressione che è stata giudicata "sconvolgente". Per Vladimir Luxuria Roma non ha mai vissuto "tempi così bui": "La città è sempre più insicura per tutte le categorie deboli, non solo per le donne. Ci sentiamo tutti meno sicuri e viviamo con terrore questo clima fatto di squadracce e spedizioni punitive. Stavolta è toccato a due persone che erano colpevoli solo del fatto che si stavano abbracciando". "Purtroppo - aggiunge Aurelio Mancuso, presidente nazionale di Arcigay - episodi di grave violenza fisica, ma anche di molestie e insulti, si stanno moltiplicando in tutta Italia nei pressi di luoghi di divertimento e di aggregazione della comunità Lgbt".

Indignato anche il sindaco Gianni Alemanno: "Ancora una volta devo protestare vivamente per una decisione adottata da un magistrato. E' inaccettabile che un accoltellatore che ha agito con un chiaro movente di intolleranza sessuale, mettendo in pericolo la vita di due persone, sia oggi soltanto denunciato a piede libero per un mero cavillo procedurale. Senza certezza della pena e senza un'adeguata durezza di fronte ai reati di allarme sociali, qualsiasi politica di sicurezza e di lotta al crimine risulta profondamente delegittimata. Gli uomini della squadra mobile di Roma mi hanno garantito che il criminale in questione rimarrà sotto stretta osservazione per evitarne la fuga. Ma chiedo con forza che il magistrato inquirente adotti immediatamente il provvedimento di restrizione in carcere di questo delinquente. Desidero esprimere la mia solidarietà ai due ragazzi aggrediti che pagano il prezzo di un'intolleranza e di una violenza veramente ignobile e ingiustificabile".

(22 agosto 2009)

http://www.repubblica.it/2009/08/sezioni/cronaca/gay-aggrediti/gay-aggrediti/gay-aggrediti.html

da Antifa

La Puglia balla con la Taranta in centomila nella notte di Melpignano

MELPIGNANO (LECCE) - E' stata la notte della musica salentina. Violini, viole, contrabbassi, percussioni, ma soprattutto tamburelli hanno accompagnato le più belle canzoni in griko, il dialetto della Grecia salentina. Da ieri sera fino all'alba, quando il sole ha dominato sul concertone finale della 'Notte della Taranta' e ha scacciato i 'tarantolati'. Oltre centomila gli spettatori che hanno ballato nella magnifica piazza dell'ex convento degli Agostiniani dando vita alle 'ronde', così come si chiama il ballo a suon di 'pizzica'. Mauro Pagani, al suo terzo anno da maestro concertatore, ha diretto l'orchestra composta da 30 musicisti e i tanti ospiti che, anche quest'anno, hanno intrattenuto i centomila spettatori, tra cui molte famiglie con bambini al seguito. Ben 30 i brani in scaletta, tra classici della musica popolare salentina e inediti degli ospiti: atmosfere world, venature jazz, suggestioni arabe, musica d'autore italiana e sonorità africane. Il maestro Pagani ha inoltre tributato un omaggio a Fabrizio De André proponendo Monti di Mola con Emanuele Licci.

Eugenio Finardi, primo degli ospiti a calcare il gigantesco palco, ha interpretato L'Acqua della funtana mentre Simone Cristicchi, accompagnato dal coro dei minatori di Santa Fiora, ha eseguito Volemo le bambole (brano del coro dei minatori) e Lu fattore. Spazio anche agli ospiti stranieri con Noa che prima ha interpretato una versione di Damme nu ricciu in un impeccabile griko e, a seguire, la ormai celebre There must be another way in duetto con la cantante palestinese Mira Awad. A seguire Alessandra Amoroso, la giovane salentina vincitrice di 'Amici', che ha fatto esplodere i centomila con una versione blues di Ferma zitella. Rivelazione del concertone - secondo gli organizzatori - è stata la cantante inglese 'Z star' che, oltre alla sua canzone No love lost, ha intonato una versione rock di Ndo ndo ndo (con un coinvolgente inciso reggae). Poi, assieme a Mauro Pagani, si é esibita in Domani, brano destinato alla raccolta di fondi per i terremotati dell'Abruzzo. Ultimo ospite della serata la straordinaria Angelique Kidjo, icona della musica world mondiale che ha cantato Aremu rindineddha, in compagnia di Alessia Tondo, e Africa. Alla fine, com'é ormai tradizione, l'inno della Grecia Salentina, Kalinitta, che ricorda tanto il sirtaki, ha segnato la fine della festa e ha lasciato il posto ai bis in cui gli stornelli tipici del Salento fanno da sigla finale del concerto. All'alba, quando è terminato il concertone, nei vicoli di Melpignano si sentiva ancora il riecheggiare dei tamburelli, un richiamo per gli instancabili tarantolati che hanno formato le 'ronde' e hanno ricominciato a ballare.

Ieri su L’Unità l’articolo : “Festa di Genova. Cala il silenzio su gay e lesbiche”.

di Andrea Benedino e Anna Paola Concia deputata Pd, cordinamento Politico nazionale Pd, presidente Agensport Lazio

Per anni, prima nei DS e più recentemente nel PD, ci abbiamo pensato noi. Ogni anno, in occasione delle Feste Nazionali abbiamo organizzato dibattiti e assemblee per costringere il nostro partito a confrontarsi con le tematiche lgbt, con le nostre battaglie e le nostre speranze. Per anni abbiamo supplicato, con alterne fortune, i più autorevoli dirigenti nazionali a intervenire in questi momenti e in alcuni casi le Feste sono state un importante momento per lanciare iniziative e proposte politiche.Per questa volta non abbiamo voluto occuparcene. Così, per vedere l’effetto che fa, come direbbe Jannacci. Perché, infatti, dobbiamo essere sempre noi attraverso i nostri corpi a ricordare al nostro partito l’esistenza degli omosessuali? Il risultato l’abbiamo letto nel programma ufficiale della Festa ed è, molto semplicemente, che non ci ha pensato nessuno e le tematiche lgbt risultano totalmente assenti dalla Festa Democratica Nazionale di Genova.
E dire che la scelta di Genova come sede per la Festa ci induceva ad un cauto ottimismo. Proprio questa città, infatti, è stata sede lo scorso 27 giugno di un imponente Pride Nazionale che ha saputo conquistare l’intera città e che ha visto sfilare centinaia di migliaia di persone, consentendo a Genova, peraltro, di rimarginare le ferite del G8 del 2001. Già solo questo fatto avrebbe meritato l’onore di un dibattito ufficiale e sarebbe stata un’occasione fruttuosa di confronto con un movimento lgbt che, per quanto distinto e distante dai partiti, non per questo non merita di essere riconosciuto come interlocutore autorevole della politica.
E invece nulla, solo un impenetrabile muro di silenzio e di imbarazzi. Quasi fossimo di fronte a un processo di rimozione collettiva di questioni scomode, difficili, che è bene non discutere e affrontare. Temi come la lotta contro l’omofobia, i diritti delle coppie gay, l’omogenitorialità non possono essere delegati in via esclusiva ai diretti interessati, ma devono necessariamente, a parer nostro, investire tutto il partito. Lo stesso tema della “laicità”, urlato a gran voce da tutti i candidati segretari per far scattare gli applausi alle assemblee, non può essere relegato in un unico, seppur meritevole, tra gli innumerevoli dibattiti della Festa.
In tutti i partiti progressisti del mondo (e sovente anche in molti partiti conservatori) questi temi sono situati al centro della proposta politica, come il simbolo più evidente dell’apertura verso la modernità e il futuro. Nel Partito Democratico italiano no. Noi, che pure siamo collocati su fronti diversi nel prossimo congresso, su questo siamo concordi: questo silenzio non può più essere tollerato, anche se purtroppo rischia di darci la misura del dibattito congressuale che ci attende.