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sabato 16 gennaio 2010

NARDO' - RISCOPRENDO I CAFONI - OGGI NELLA LIBRERIA "I VOLATORI"

Si parlerà della storica occupazione delle Terre di Arneo da parte dei lavoratori agricoli salentini sabato 16 gennaio nella saletta verde della libreria I Volatori di Nardò. Il protagonista dell'incontro, che avrà inizio alle 19:00 , sarà Luigi Del Prete, regista del film-documentario "L'Arneide - lo stato fa la guerra ai contadini", che dialogherà con la professoressa Genoveffa Giuri. Nel corso della serata sarà proiettato il filmato che racconta le vicende risalenti all'inizio degli anni '50.

"L'Arneide - si legge sulla copertina del dvd -, che deve il suo titolo ad un articolo di Vittorio Bodini, è il racconto della straordinaria stagione di lotte dei contadini poveri e dei braccianti del salento del secondo dopoguerra. Tra il 1949-1950 ed il 1950-1951 migliaia di contadini si mossero per occupare le terre del comprensorio dell'Arneo, un vasto latifondo allora incolto situato tra le province di Lecce, Brindisi e Taranto. Quel periodo segnò la resa dei conti tra la modernità ed il feudalesimo in tutto il Mezzogiorno d'Italia.
Moriva definitivamente una cultura ormai superata, fortemente impregnata di feudalesimo, e si apriva la contemporaneità in termini di nuovi diritti e di una nuova idea di società".
L'ingresso è libero per informazioni, libreria i volatori, Piazza delle Erbe Nardò (LE) tel. 0833.567062

I VOLATORI NARDO’

Morire nel deserto

Un filmato documenta la tragica fine degli immigrati espulsi dalla Libia. Così come prevede l'accordo siglato tra Berlusconi e Gheddafi

di Fabrizio Gatti
Le mani nere sollevate ad afferrare l'aria. Pochi passi oltre, il vento sulla camicia anima la smorfia dell'ultimo respiro di una donna. E subito accanto, il corpo di un ragazzo ancora chino nella preghiera da cui non si è mai rialzato. Muoiono così gli immigrati. Così finiscono gli uomini e le donne che non sbarcano più a Lampedusa. Bloccati in Libia dall'accordo Roma-Tripoli e riconsegnati al deserto. Abbandonati sulla sabbia appena oltre il confine. A volte sono obbligati a proseguire a piedi: fino al fortino militare di Madama, piccolo avamposto dell'esercito del Niger, 80 chilometri più a Sud. Altre volte si perdono. Cadono a faccia in giù sfiniti, affamati, assetati senza che nessuno trovi più i loro cadaveri. Un filmato però rivela una di queste stragi. Un breve video che 'L'espresso' è riuscito a fare uscire dalla Libia e poi dal Niger. Un'operazione di rimpatrio andata male. Undici morti. Sette uomini e quattro donne, da quanto è possibile vedere nelle immagini.

Il video è stato girato con un telefonino da una persona in viaggio dalla Libia al Niger lungo la rotta che da Al Gatrun, ultima oasi libica, porta a Madama e a Dao Timmi, avamposti militari della Repubblica nigerina. È la rotta degli schiavi. La stessa percorsa dal 2003 da decine di migliaia di emigranti africani. Uomini e donne in cerca di lavoro in Libia, per poi pagarsi il viaggio in barca fino a Lampedusa. Secondo la data di creazione del file, il video è stato girato il 16 marzo 2009 alle 12.31. L'ora centrale della giornata è confermata dall'assenza di ombre nelle immagini. L'uomo che filma è accompagnato da una pattuglia militare. Per una breve sequenza, si vede un fuoristrada pick-up con una mitragliatrice. Le 11 persone morte di sete sarebbero arrivate fino a quel punto a piedi. Si sono raccolte vicino a una collina di rocce e sabbia. Forse speravano di avvistare da quell'altura un convoglio di passaggio e chiedere aiuto. Addosso o accanto ai cadaveri, scarpe e pantaloni di marche che si comprano in Libia. Intorno non ci sono altri fuoristrada o camion. Non ci sono strade né piste battute. È una regione del Sahara in cui ci si orienta solo con il sole e le stelle. In quei giorni migliaia di emigranti dell'Africa subsahariana salgono in Libia da Agadez, l'ultima città del Niger, ancora isolata dal mondo per la guerra civile tra l'esercito e una fazione di tuareg. Dalla fine del 2008 si contano almeno 10 mila emigranti in partenza ogni mese, dopo una lunga interruzione del traffico di clandestini. I passatori del Sahara riaprono gli affari sfruttando la ribellione tuareg, sostenuta dalla Francia per ottenere lo sfruttamento del secondo giacimento al mondo di uranio, a Imouraren, vicino ad Agadez. Il 2 marzo il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, è invece in Libia per siglare l'ennesimo accordo con il colonnello Muhammar Gheddafi. È la visita in cui Berlusconi porge le scuse per l'occupazione coloniale. Quella in cui i governi di Roma e Tripoli mettono le basi per la collaborazione nei pattugliamenti sottocosta, contro le partenze per Lampedusa. Nel 2008 il regime di Gheddafi aveva lasciato salpare verso l'Italia più di 30 mila immigrati, un record che ha richiamato in Libia migliaia di persone fino a quel momento bloccate ad Agadez.

Nell'incontro Berlusconi e Gheddafi non parlano solo di immigrazione. Discutono di affari personali, dei 5 miliardi di dollari in vent'anni a carico dell'Eni per il risarcimento dei danni di guerra, di contratti per il petrolio e il gas. Tripoli offre subito un segnale di buona volontà e rispedisce verso il Niger centinaia di migranti rinchiusi nel campo di detenzione della base militare di Al Gatrun. Forse i cadaveri filmati con il telefonino sono la tragica conclusione di una di quelle operazioni. Al Gatrun e Agadez sono separate da 1.490 chilometri di deserto. Dieci giorni di viaggio e in mezzo una sola oasi, Dirkou. Fino a quando non si entra ad Agadez non si può dire di essere sopravvissuti al Sahara. Ma la polizia e l'esercito libici di Al Gatrun non si sono mai preoccupati della sorte degli stranieri una volta lasciati al di là del confine con il Niger. Gli immigrati espulsi vengono scaricati dai camion militari e costretti a proseguire a piedi. Oppure sono affidati ai trafficanti che spesso li abbandonano molto prima di arrivare a destinazione. Dalla linea di frontiera tratteggiata sulla carta geografica, la prima postazione militare del Niger è solo Madama, a 80 chilometri di colline e avvallamenti senza pozzi. Non c'è altro. Ottanta chilometri in cui, persa la rotta e abbandonato il bidone d'acqua per camminare leggeri, si è destinati a morire. Già nel 2005 'L'espresso' aveva scoperto che le operazioni di rimpatrio verso il Niger, dopo il primo accordo tra Berlusconi e Gheddafi, avevano provocato 106 morti in quattro mesi. Ed erano soltanto le cifre ufficiali. Come i 50 schiacciati da un camion sovraccarico che si è rovesciato. Oppure il ragazzo del Ghana mai identificato, sbranato da un branco di cani selvatici durante una sosta a Madama. E le tre ragazze nigeriane morte di sete o le15 raccolte in fin di vita con quattro uomini da un convoglio umanitario francese, dopo essere state abbandonate. Tutti condannati a morte da chi aveva organizzato il loro rimpatrio.

La notizia del filmato arriva a 'L'espresso' nella primavera 2009 durante la preparazione del documentario 'Sulla via di Agadez'. L'uomo con il telefonino però non è più nella città di fango rosso: "È tornato in Libia", sostiene una fonte: "Lo stesso giorno del filmato, a molti chilometri da quei cadaveri, hanno soccorso due ragazzi ancora vivi. I due hanno detto che erano stati costretti dai militari a partire da Al Gatrun. Arrivati nella zona del confine hanno dovuto proseguire a piedi". Nel Sahara i passaparola richiedono molto tempo. Ma di solito vanno a destinazione. Il 16 luglio il dvd con il filmato viene recapitato in redazione. Mancano altre conferme. Bisogna aspettare che l'uomo con il telefonino torni ad Agadez e passano cinque mesi. È il 9 gennaio di quest'anno quando finalmente arrivano le risposte. Nel frattempo il video finisce anche in altre mani. Il 13 dicembre qualcuno lo carica su YouTube dagli Stati Uniti. Dice di averlo ricevuto da Augustine, ospite di un campo di rifugiati a Malta. Augustine però non conosce la storia delle espulsioni a piedi.

Palazzo Chigi sa ufficialmente dal 3 marzo 2004 che gli immigrati bloccati in Libia subiscono maltrattamenti. È la data stampata su un rapporto riservato della presidenza del Consiglio che 'L'espresso' ha potuto leggere. La relazione viene consegnata allo staff di Berlusconi, dopo la visita nel Sahara della delegazione della Protezione civile che deve progettare la costruzione dei centri di detenzione libici: "Si ritiene di dover scegliere, per motivi di opportunità e per una fluidità delle operazioni, la via che impegna il governo italiano in misura ridotta", dice il rapporto: "Tale soluzione ci farebbe calare meno nella configurazione dei centri, in considerazione anche del trattamento che riservano i libici ai cittadini extracomunitari trattenuti nei loro centri, di cui si allega documentazione fotografica". Il governo invece si cala, eccome. Fino a chiedere a Gheddafi di proteggere i nostri confini meridionali. Costi quel che costi. Incuranti che in Italia esiste ancora l'articolo 40 del codice penale. Dice così: "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo".

da L'Espresso

Craxi statista. Piatto ricco mi ci ficco

Le ragioni per cui la Moratti e Minzolini vogliono dare sanzione ufficiale all’agiografia di Bettino Craxi offrono ampio pascolo alla satira ma non sono intellettualmente stimolanti. Nessuno le ignora.

La folgorazione sulla via di Hammamet di personaggi come Piero Fassino e Massimo D’Alema, per contro, è interessante. I sofismi con cui questi si sforzano di dare rispettabilità a un revisionismo fetente aprono ampie fenditure sul fondale della politica italiana e aiutano a capire meglio uomini e idee.


Per cominciare, in una repubblica videocratica come la nostra in cui i partiti sono un ectoplasma evanescente che balugina nella coscienza dello spettatore-cittadino solo per il tempo della rappresentazione catodica, nessun politico di professione (cioè che guadagna soldi con la politica) può rimanere indifferente alla possente spinta mediatica che c’è dietro la riabilitazione del grande statista morto latitante.

In secondo luogo Craxi ha assolto alla funzione storica di rendere la parola “riformismo” una oscenità impronunciabile, e trasformarlo in “grande statista” apre proprio quello spazio politico che persone come Violante, Fassino e D’Alema vogliono occupare. Voi credete che si stiano comportando da farabutti? No, no, non avete capito niente. Stanno facendo i “riformisti”.

Si potrebbero aggiungere altri elementi al quadro, come la possibilità che a parlare bene di Craxi si ottenga un’ambita nota personale di lode da parte di Paolo Buonaiuti, Daniele Capezzone o — non plus ultra — la stessa Stefania Craxi. Ma già le prime due voci della lista costituiscono un incentivo più che sufficiente a indurre i Nostri a pensare “piatto ricco, mi ci ficco”.

Stupido chi rimane fuori da questa mano.

da Indymedia

Haiti il paese è morto

Manca tutto nell'isola caraibica. Nel frattempo arrivano le testimonianze di chi ha vissuto in prima persona il terremoto

"Urla, urla e urla ancora. Questo ricordo dei minuti successivi alla prima scossa, la più forte, di sicuro quella maggiormente avvertita dalla popolazione" racconta Etienne Kidorsè, haitiano 40 anni di professione autista (quando capita). "Ero per strada al momento della prima scossa, nel quartiere di Petion Ville. Stavo versando dell'acqua in un bicchiere di plastica. Il primo bicchiere l'ho bevuto con tranquillità.
Poi l'ho riempito nuovamente e l'ho portato alla bocca. E' stato in quel preciso istante che tutto intono a me ha iniziato a tremare, a traballare. Io stesso sono stato scosso, quasi spintonato dalla potenza della scossa. L'acqua mi si è rovesciata addosso. Il rumore era forte, non saprei descrivere se assomigliasse a qualcosa che conoscevo. La prima scossa è durata a lungo. Secondi che mi hanno paralizzato sul marciapiede dove mi trovavo. Non ho saputo cosa fare. Avevo paura e il mio unico pensiero è corso verso mi moglie Jakie e nostro figlio Sam. Ho avuto paura, molta paura. Non avevo mai provato una sensazione simile".
Etienne racconta poi le difficoltà di raggiungere la sua casa che si trova non distante dallo stradone principale che porta verso la bidonville di Citè Soleil. "Nessuno può immaginare il silenzio abbattutosi su Port au Prince subito dopo la fine della prima scossa. Un silenzio irreale, durato sette massimo otto secondi. Pochi ma sembravano un'eternità. Non ne sono sicuro ma credo si aver sentito lo spostamento d'aria di un albero che si trovava a una quindicina di metri da me. Credo di aver sentito il vento provocato dai suoi rami. Subito dopo mi sono messo in cammino per raggiungere la mia casa".

La cosa più sconvolgente secondo il racconto di Etienne, avvenuto in circostanze davvero fortunate considerando che le comunicazioni con Haiti sono ancora praticamente impossibili, è stata la reazione della popolazione che ha "iniziato a uscire dalla case, dalle baracche semidistrutte e gridava, urlava, pregava. Anche adesso la gente sta pregando. E' l'unica cosa che si sente in città.
Il terribile sisma, oltre trenta scosse in poche ore, ha raso al suolo la capitale Port au Prince. Meglio è andata anche sembra difficile immaginarlo alle baraccopoli abbarbicate sulle colline intorno alla città. In queste aree vive la frangia di popolazione più povera. Ma durante la costruzione degli edifici è stato utilizzato molto cemento e forse per questo parzialmente le costruzioni hanno retto.
"Ciò che serve di più in questo momento, oltre a tanta solidarietà sono medicinali di prima necessità. Ma ciò che è davvero indispensabile è l'organizzazione degli aiuti" racconta Massimo Agosti neonatologo della Fondazione Rava appena rientrato da Port au Prince dopo un breve soggiorno per dare una mano ai bambini meno fortunati.
Port au Prince era una città in grave agonia fino all'atro ieri. Oggi è una città morta.

di Alessandro Grandi da PeaceReporter