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sabato 15 agosto 2009

Raccolta clandestina

La clandestinità è reato da qualche giorno in Italia ma a Rignano Garganico, vicino Foggia, il lavoro prosegue come ogni anno. Contando sulle tante braccia di immigrati che per lavorare accettano qualsiasi condizione

Baracche di cartone e nylon tenute insieme da fasce di plastica nera, le stesse che si vedono abbandonate sui campi dove fino a qualche giorno fa c'erano i pomodori. La clandestinità è reato da qualche giorno in Italia ma a Rignano Garganico, una decina di chilometri a nord est di Foggia, la raccolta prosegue come ogni anno. Contando sulle tante braccia di immigrati senza documenti che per lavorare accettano qualsiasi condizione e si spostano da una parte all'altra dell'Italia, di raccolta in raccolta in raccolta, di sfruttamento in sfruttamento. La nuova legge non rappresenta un problema per le centinaia di ragazzi che affollano «il ghetto» di Rignano. «Quando hai fame non può essere questa la tua preoccupazione», racconta più di uno. E d'altronde non sembra essere un problema neanche per i «caporali» che lucrano sui magri guadagni dei raccoglitori, e per le aziende dei produttori perché il pomodoro va raccolto altrimenti marcisce. Da fine luglio agli inizi di settembre c'è bisogno di più manodopera possibile.
Lo chiamano il ghetto e una ragione c'è. E' un alternarsi continuo di costruzioni in muratura semi diroccate e di baracche dove di solito vanno ad abitare gli ultimi arrivati. Se passate da queste parti vedrete diversi uomini che spingono dei passeggini, non ci sono neonati dentro anche se c'è qualche bambino che abita tra le baracche. Servono a caricare il bidone dell'acqua, bene tra i più preziosi e che il Comune ha portato sotto forma di cisterne di plastica dopo che i sindacalisti della Flai Cgil sono andati a denunciare che lì non c'era neanche quello. Qualcuno gode del lusso di una casetta tutta (o quasi) per sé. E' del «capo nero», qui chiamano così il caporale non italiano, sul muro qualcuno ha scritto con della pittura rosa e verde «Nigeria». Le stime dicono che al ghetto ci sono un migliaio di persone, sono tutti africani, quasi tutti maschi. Qualche ragazza c'è, anche lei dalla Nigeria: «Non vogliamo avere niente a che fare con loro», spiega un ragazzo del Ghana alludendo a un modo di guadagnare che lui non condivide. E' l'11 agosto: martedì pomeriggio e sono circa le sei al ghetto, molti lavoratori sono rientrati dalla campagna. Chi ha avuto la «fortuna» di lavorare tutto il giorno può aver passato anche dodici o quattordici ore in campagna. Ha riempito una decina di cassoni con i pomodori. Il cassone è il grande contenitore di plastica che poi finisce dritto sul camion, i tir arrivano sul campo e caricano direttamente per poi scaricare alle aziende di trasformazione. Sulla strada da Foggia a Salerno in questi giorni è una processione continua di camion ma da due anni un imprenditore salernitano ha impiantato qui un'azienda che trasforma l'oro rosso. Contraddizione tra le contraddizioni: a Foggia non esisteva una fabbrica che lavorava il pomodoro. Tra i cassoni il più diffuso è quello da tre quintali. Al lavoratore immigrato vanno tre euro, a volte tre euro e mezzo su cinque complessivi: questo significa che il caporale succhia due euro da ogni cassone.
Dhembelè, così dice di chiamarsi, non ha i documenti. E' un ragazzo di 23 anni e viene dal Mali. Martedì ha iniziato a lavorare alle 12, ha fatto solo mezza giornata. Meglio di Lafya che ha 30 anni e viene anche lui dal Mali: «Il n'y a pas de travaille aujourd'hui». Non c'è lavoro ed è rimasto a terra, come lui altri ragazzi che abitano in una costruzione accanto ad una chiesa vuota sempre nella campagna di Rignano. Non è il ghetto ma la situazione non è diversa: niente elettricità, niente acqua corrente. In quella che forse poteva essere la canonica ci sono alcune tende, in un'altra stanza ci sono centinaia di scarpe e alcuni panni stesi ad asciugare. I ragazzi, qui ci abitano in centocinquanta, giocano a dama. Due sono appoggiate per terra, come pedine hanno i tappi delle bottiglie d'acqua, quelli bianchi e quelli rosa. «Non ho i documenti - spiega Lafya - sono in Italia dal 2007, quando finisce il lavoro qui io torno a Rosarno (in Calabria dove c'è la famosa cartiera trasformata in baraccopoli, ndr) e poi inizio la raccolta dei mandarini». L'irragionevolezza del reato di clandestinità sprofonda negli occhi di questo ragazzo che si sente in una trappola da cui crede di non poter uscire «in Italia se vuoi lavorare devi avere i documenti e se non hai i documenti niente lavoro». La raccolta per questo 2009 è un po' tardiva, il tempo ha fatto sì che i pomodori stiano maturando con un lieve ritardo. Il boom del lavoro è atteso dalla settimana prossima. Ma è numerosa anche l'offerta di braccia e quel che emerge è la sua diversificazione. «Quello che sta avvenendo nelle campagne è anche una guerra senza confini tra poveri - spiega Daniele Calamita, segretario della Flai Cgil di Foggia - oltre ai lavoratori di origine africana ci sono i comunitari: romeni, bulgari, polacchi e albanesi. Per loro ci sono maggiori possibilità di lavoro perché non hanno problemi con i documenti». Gli africani quindi sono l'ultimissimo gradino di questa piramide di sfruttamento ma Calamita fa parlare i dati per fornire un altro segnale che è arrivato dalle campagne del foggiano. Dopo l'estate del 2006, le inchieste giornalistiche (come quella di Fabrizio Gatti) che hanno svelato la realtà della piana della Capitanata ci sono stati maggiori controlli. A suo tempo l'ex ministro Giuliano Amato aveva addirittura emanato una circolare in cui esortava i questori a rilasciare permessi di soggiorno per motivi di protezione sociale agli stranieri che denunciavano i loro sfruttatori. I numeri raccontano che dai 4500 immigrati iscritti negli elenchi anagrafici dell'Inps nel 2006 si è passati ai 16 mila del 2008. «Ma per la maggior parte di questi lavoratori i padroni hanno fatto figurare alla previdenza solo pochi giorni di lavoro, due o tre - prosegue il segretario - è evidente che non è così. Per questo dico, il numero dei lavoratori iscritti è aumentato ma per loro quante giornate verranno denunciate?». I produttori si lamentano, dicono che il pomodoro viene pagato una miseria. «Le aziende parlano di nove centesimi al quintale ma i soldi che vengono dati ai lavoratori sono sempre quelli anche quando il pomodoro valeva molto di più».
Nelle campagne non ci sono solo invisibili, si possono trovare lavoratori che hanno i documenti e ci sono diversi rifugiati politici. Assicura di avere il permesso di soggiorno anche Prince, trentenne del Ghana, che con un quaderno «coordina» il lavoro di altri connazionali in un campo sul Gargano non lontano da Lesina. «Vengo da Milano, ho lavorato in una fabbrica che adesso ha chiuso - racconta - adesso sono qui ma io vorrei tanto poter lavorare in una radio». Al ghetto intanto nel tardo pomeriggio arriva un camioncino stipato di gabbie di plastica dove ci sono circa duecento polli, vivi. Attorno al camion si accalca una ressa di persone, è una lotta autentica non per prendere e portare via ma per acquistare. Un pollo, un euro e ogni ragazzo ha in mano il denaro. In pochi minuti vengono venduti tutti ma all'italiano con occhiali e cappellino che è stato sommerso da questi ragazzi non va bene. «Non è possibile lavorare così, non si può in questo modo, quanti mi saranno fuggiti senza pagare. Io lo so, qui in mano non ce li ho tutti i soldi che avrei dovuto avere. Io ve lo dico se si continua così non torno più». Il venditore di polli queste parole le pronuncia metà in italiano, metà in dialetto. Ma non è un problema, per chi parla inglese e francese e mastica l'italiano comprendere quello che dice un foggiano arrabbiato non è difficile. «Hai ragione non succederà più» assicura un abitante del ghetto. I polli intanto sono spariti dentro le baracche, qualcuno prende le pietre e le dispone a cerchio. Poi prende una pentola con dell'acqua e accende il fuoco. Anche qui a Rignano il sole si prepara a tramontare. FOGGIA
Baracche di cartone e nylon tenute insieme da fasce di plastica nera, le stesse che si vedono abbandonate sui campi dove fino a qualche giorno fa c'erano i pomodori. La clandestinità è reato da qualche giorno in Italia ma a Rignano Garganico, una decina di chilometri a nord est di Foggia, la raccolta prosegue come ogni anno. Contando sulle tante braccia di immigrati senza documenti che per lavorare accettano qualsiasi condizione e si spostano da una parte all'altra dell'Italia, di raccolta in raccolta in raccolta, di sfruttamento in sfruttamento. La nuova legge non rappresenta un problema per le centinaia di ragazzi che affollano «il ghetto» di Rignano. «Quando hai fame non può essere questa la tua preoccupazione», racconta più di uno. E d'altronde non sembra essere un problema neanche per i «caporali» che lucrano sui magri guadagni dei raccoglitori, e per le aziende dei produttori perché il pomodoro va raccolto altrimenti marcisce. Da fine luglio agli inizi di settembre c'è bisogno di più manodopera possibile.
Lo chiamano il ghetto e una ragione c'è. E' un alternarsi continuo di costruzioni in muratura semi diroccate e di baracche dove di solito vanno ad abitare gli ultimi arrivati. Se passate da queste parti vedrete diversi uomini che spingono dei passeggini, non ci sono neonati dentro anche se c'è qualche bambino che abita tra le baracche. Servono a caricare il bidone dell'acqua, bene tra i più preziosi e che il Comune ha portato sotto forma di cisterne di plastica dopo che i sindacalisti della Flai Cgil sono andati a denunciare che lì non c'era neanche quello. Qualcuno gode del lusso di una casetta tutta (o quasi) per sé. E' del «capo nero», qui chiamano così il caporale non italiano, sul muro qualcuno ha scritto con della pittura rosa e verde «Nigeria». Le stime dicono che al ghetto ci sono un migliaio di persone, sono tutti africani, quasi tutti maschi. Qualche ragazza c'è, anche lei dalla Nigeria: «Non vogliamo avere niente a che fare con loro», spiega un ragazzo del Ghana alludendo a un modo di guadagnare che lui non condivide. E' l'11 agosto: martedì pomeriggio e sono circa le sei al ghetto, molti lavoratori sono rientrati dalla campagna. Chi ha avuto la «fortuna» di lavorare tutto il giorno può aver passato anche dodici o quattordici ore in campagna. Ha riempito una decina di cassoni con i pomodori. Il cassone è il grande contenitore di plastica che poi finisce dritto sul camion, i tir arrivano sul campo e caricano direttamente per poi scaricare alle aziende di trasformazione. Sulla strada da Foggia a Salerno in questi giorni è una processione continua di camion ma da due anni un imprenditore salernitano ha impiantato qui un'azienda che trasforma l'oro rosso. Contraddizione tra le contraddizioni: a Foggia non esisteva una fabbrica che lavorava il pomodoro. Tra i cassoni il più diffuso è quello da tre quintali. Al lavoratore immigrato vanno tre euro, a volte tre euro e mezzo su cinque complessivi: questo significa che il caporale succhia due euro da ogni cassone.
Dhembelè, così dice di chiamarsi, non ha i documenti. E' un ragazzo di 23 anni e viene dal Mali. Martedì ha iniziato a lavorare alle 12, ha fatto solo mezza giornata. Meglio di Lafya che ha 30 anni e viene anche lui dal Mali: «Il n'y a pas de travaille aujourd'hui». Non c'è lavoro ed è rimasto a terra, come lui altri ragazzi che abitano in una costruzione accanto ad una chiesa vuota sempre nella campagna di Rignano. Non è il ghetto ma la situazione non è diversa: niente elettricità, niente acqua corrente. In quella che forse poteva essere la canonica ci sono alcune tende, in un'altra stanza ci sono centinaia di scarpe e alcuni panni stesi ad asciugare. I ragazzi, qui ci abitano in centocinquanta, giocano a dama. Due sono appoggiate per terra, come pedine hanno i tappi delle bottiglie d'acqua, quelli bianchi e quelli rosa. «Non ho i documenti - spiega Lafya - sono in Italia dal 2007, quando finisce il lavoro qui io torno a Rosarno (in Calabria dove c'è la famosa cartiera trasformata in baraccopoli, ndr) e poi inizio la raccolta dei mandarini». L'irragionevolezza del reato di clandestinità sprofonda negli occhi di questo ragazzo che si sente in una trappola da cui crede di non poter uscire «in Italia se vuoi lavorare devi avere i documenti e se non hai i documenti niente lavoro». La raccolta per questo 2009 è un po' tardiva, il tempo ha fatto sì che i pomodori stiano maturando con un lieve ritardo. Il boom del lavoro è atteso dalla settimana prossima. Ma è numerosa anche l'offerta di braccia e quel che emerge è la sua diversificazione. «Quello che sta avvenendo nelle campagne è anche una guerra senza confini tra poveri - spiega Daniele Calamita, segretario della Flai Cgil di Foggia - oltre ai lavoratori di origine africana ci sono i comunitari: romeni, bulgari, polacchi e albanesi. Per loro ci sono maggiori possibilità di lavoro perché non hanno problemi con i documenti». Gli africani quindi sono l'ultimissimo gradino di questa piramide di sfruttamento ma Calamita fa parlare i dati per fornire un altro segnale che è arrivato dalle campagne del foggiano. Dopo l'estate del 2006, le inchieste giornalistiche (come quella di Fabrizio Gatti) che hanno svelato la realtà della piana della Capitanata ci sono stati maggiori controlli. A suo tempo l'ex ministro Giuliano Amato aveva addirittura emanato una circolare in cui esortava i questori a rilasciare permessi di soggiorno per motivi di protezione sociale agli stranieri che denunciavano i loro sfruttatori. I numeri raccontano che dai 4500 immigrati iscritti negli elenchi anagrafici dell'Inps nel 2006 si è passati ai 16 mila del 2008. «Ma per la maggior parte di questi lavoratori i padroni hanno fatto figurare alla previdenza solo pochi giorni di lavoro, due o tre - prosegue il segretario - è evidente che non è così. Per questo dico, il numero dei lavoratori iscritti è aumentato ma per loro quante giornate verranno denunciate?». I produttori si lamentano, dicono che il pomodoro viene pagato una miseria. «Le aziende parlano di nove centesimi al quintale ma i soldi che vengono dati ai lavoratori sono sempre quelli anche quando il pomodoro valeva molto di più».
Nelle campagne non ci sono solo invisibili, si possono trovare lavoratori che hanno i documenti e ci sono diversi rifugiati politici. Assicura di avere il permesso di soggiorno anche Prince, trentenne del Ghana, che con un quaderno «coordina» il lavoro di altri connazionali in un campo sul Gargano non lontano da Lesina. «Vengo da Milano, ho lavorato in una fabbrica che adesso ha chiuso - racconta - adesso sono qui ma io vorrei tanto poter lavorare in una radio». Al ghetto intanto nel tardo pomeriggio arriva un camioncino stipato di gabbie di plastica dove ci sono circa duecento polli, vivi. Attorno al camion si accalca una ressa di persone, è una lotta autentica non per prendere e portare via ma per acquistare. Un pollo, un euro e ogni ragazzo ha in mano il denaro. In pochi minuti vengono venduti tutti ma all'italiano con occhiali e cappellino che è stato sommerso da questi ragazzi non va bene. «Non è possibile lavorare così, non si può in questo modo, quanti mi saranno fuggiti senza pagare. Io lo so, qui in mano non ce li ho tutti i soldi che avrei dovuto avere. Io ve lo dico se si continua così non torno più». Il venditore di polli queste parole le pronuncia metà in italiano, metà in dialetto. Ma non è un problema, per chi parla inglese e francese e mastica l'italiano comprendere quello che dice un foggiano arrabbiato non è difficile. «Hai ragione non succederà più» assicura un abitante del ghetto. I polli intanto sono spariti dentro le baracche, qualcuno prende le pietre e le dispone a cerchio. Poi prende una pentola con dell'acqua e accende il fuoco. Anche qui a Rignano il sole si prepara a tramontare.

di Giusi Marcante – FOGGIA da Il Manifesto

Un regolamento per i figli dei clandestini

L'idea nasce dalla necessità di risolvere un problema: quello di permettere anche alle coppie di immigrati irregolari di iscrivere all'anagrafe il figlio nato in Italia. Un gesto semplice fino a pochi giorni fa, ma divenuto difficile e perfino pericoloso da quando la nuova legge sulla sicurezza ha introdotto il reato di clandestinità. Il risultato è che, per paura di essere denunciati, i genitori irregolari non si presentino più, dopo il parto, all'anagrafe per denunciare la nascita, trasformando così il figlio in un «bambino fantasma». E questo nonostante il governo assicuri che per le donne immigrate incinta la legge conceda un permesso di soggiorno temporaneo.Per ovviare al problema, il Comune di Genova sta pensando di permettere direttamente ai medici, ginecologi e pediatri, di procedere all'iscrizione del bambino all'anagrafe dopo il parto. Evitando in questo modo possibili denuncie per i genitori.
La novità verrà inserita in un regolamento ad hoc per l'accesso all'anagrafe e ai servizi all'infanzia che gli esperti legali del comune stanno mettendo a punto.«In questo modo i figli degli immigrati potranno avere garantito il codice fiscale e quindi l'assistenza sanitaria e tutti i servizi previsti per l'infanzia, dagli asili nidi alla scuola materna», spiega Paolo Veardo, assessore ai servizi civici del comune. «Poter iscrivere il proprio figlio all'anagrafe è un passo importante per garantire l'integrazione degli immigrati, e vogliamo che tutti possano goderne, senza avere paura».
Per un bambino immigrato l'iscrizione all'anagrafe non rappresenta solo la possibiltà di poter accedere ai servizi per l'infanzia e all'assistenza sanitaria, ma risulta fondamentale anche per poter ottenere in futuro la cittadinanza italiana. Una possibilità legata alla facoltà che i comuni hanno di segnalare al ministero degli Interni gli stranieri nati nel proprio territorio che vi hanno soggiornato fino alla maggiore età. Sempre a Genova in un anno sono stati un centinaio i figli di immigrati che hanno ottenuto la cittadinanza in questo modo. «Affinché questa pratica possa continuare a essere applicata - prosegue Veardo - è fondamentale poter dichiarare la nascita e, con le nuove norme, per i clandestini diventa un problema».
A settembre, finita la pausa estiva, il nuovo regolamento verrà portato in aula e discusso con l'opposizione. «Noi non governiamo con i decreti, e tutti avranno modo di poter dire ciò che pensano», spiega ancora Veardo polemizzando con la pratica del governo di procedere attraverso provvedimenti d'urgenza e voti di fiducia, impedendo di fatto ogni confronto. Il rischio è che in futuro, una volta che il regolamento dovesse essere approvato, il governo possa cercare di bloccarlo facendo ricorso alla Corte costituzionale. Non sarebbe la prima volta. La stessa cosa accadde infatti con la legge che, sempre a Genova, consentiva agli immigrati di votare alle elezioni amministrative. «Certo, la possibilità esiste - ammette l'assessore - ma ricordiamoci che stiamo parlando dei diritti dei bambini». «La Costituzione va rispettata ma ci sono leggi che non la rispettano», conclude Veardo parlando delle nuove misure anti-immigrati introdotte con al legge sulla sicurezza. «Noi stiamo studiando gli spazi di autonomia delle amministrazioni locali, e riteniamo che in questo caso esistano. La nascita diventa un fattore dirimente. Senza la dichiarazione di nascita tutto questo ragionamento cade».

di C. L. – ROMA da Il Manifesto

RAMADAN - A Mantova braccianti islamici obbligati a bere

«È nel mese di Ramadan che abbiamo fatto scendere il Corano... Chi di voi ne testimoni l'inizio digiuni. E chiunque è malato o in viaggio assolva in seguito altrettanti giorni. Allah vi vuole facilitare e non procurarvi disagio...». La sura II del Corano detta le regole del mese di Ramadan, durante il quale ogni musulmano è tenuto a digiunare dall'alba al tramonto. Salvo in casi particolari, in cui seri problemi di salute giustificano il mancato rispetto della norma.
A Mantova, quest'estate, a vegliare sulla salute dei braccianti di religione islamica si è imposto anche il Comitato per la sicurezza agricola cittadino (composto da Coldiretti, confederazione italiana dell'agricolutra e sindacati agricoli di Cgil, Cisl e Uil).
Il comitato ha stabilito che i raccoglitori di frutta e verdura sono «obbligati» a bere durante il giorno nonostante il Ramadan che quest'anno parte il 20 agosto. Il protocollo delle associazioni è stato stilato sulla base del decreto 81 sulla sicurezza sul lavoro, esattamente come previsto per tutte le altre norme che salvaguardino la salute dei lavoratori.
La comunità islamica mantovana non ha gradito la richiesta delle associazioni: «La tutela del lavoratore è sacrosanta, ma non si può obbligarlo a bere - spiega Ben Mansour Hamadi, portavoce della comunità - L'osservanza del Ramadan spetta esclusivamente alla coscienza personale. Nella nostra religione non è un obbligo attenersi al Ramadan, è una scelta. Quindi non dovrebbe neanche esserci un obbligo a bere, venendo meno ai nostri principi. In ogni caso, ci siamo incontrati con il Comitato in modo sereno, noi non siamo d'accordo sull'«obbligatorietà», ma capiamo le esigenze di informazione e tutela che hanno spinto le associazioni a stilare il protocollo». Certo, non si può licenziare un dipendente perchè non beve. Oppure sì? Romano Magrini, responsabile nazionale lavoro Coldiretti, lo spiega così: «L'accordo risponde ad una logica a favore del lavoratore, non contro di lui. Quando è una questione di salute, a risponderne è il datore di lavoro: se non rispetta le norme della sicurezza sul luogo di lavoro risulta legalmente punibile. Quest'accordo risulterà più che altro uno sgravio per il datore, che non potrà essere accusato di non garantire la sicurezza del lavoratore».
Lo scorso anno, in provincia di Mantova, un uomo indiano di 44 anni, Vijay Kumar, era morto di stenti mentre lavorava nei campi. Il datore di lavoro lo aveva fatto spostare qualche metro in là e non aveva chiamato subito i soccorsi per evitare problemi, dato che il lavoratore era clandestino. Ramadan o no, la sicurezza sul lavoro ha bisogno di ben altre misure per essere garantita per tutti.

di Mariangela Maturi – MILANO da Il Manifesto

Record di suicidi e celle saune. Viaggio nei "gironi" di Poggioreale

Sovraffollamento drammatico nelle celle del penitenziario napoletano
Capienza sforata di oltre mille unità "E a settembre sarà peggio"


NAPOLI - Impregnano di acqua il telo meno liso che hanno in cella, poi si arrampicano al muro, lo sistemano tra le sbarre per soffocarne l'alito rovente.E strappano quindici minuti di tregua dall'afa. Lo fanno per sentirsi in piedi. Per non cadere nella spirale delle crisi d'ansia o dei continui ricoveri e ritorni dalle infermerie. Quando va bene.

C'è un nuovo turno nei padiglioni di alcuni penitenziari campani: l'asciugamanista. Si sopravvive anche così nelle carceri del disonore. Padiglioni che esplodono di letti a castello. Stanze per quattro detenuti che ne ospitano fino a undici, come nell'istituto "monstre" di Poggioreale o nella Casa femminile di Pozzuoli. Cameroni con un solo water per otto persone, e neanche una doccia, e i teli continuamente imbevuti d'acqua, come nell'inferno di Fuorni, Salerno. Una prova che per i più fragili o instabili si chiude con la morte, più o meno volontaria.

Sui 30 suicidi di detenuti registrati in Italia nei sette mesi del 2009, 5 sono avvenuti in Campania. "Qui il sovraffollamento tocca punte massime", spiega Dario Dell'Aquila, dell'associazione Antigone. Nei nostri istituti ci sono complessivamente oltre 7.250 persone a dispetto dei 5.300 posti. E per ogni detenuto che muore, ve ne sono almeno sei a settimana che si feriscono per protesta, o denunciano crisi di panico, patologie". È il malessere che la burocrazia archivia come "eventi critici", senza fornirne i dati.

Lo sforamento più clamoroso abita ancora a Poggiorale: oltre 2300 i presenti, ieri, contro i 1.385 della "capienza regolamentare". Ma la nuova impennata tornerà a settembre. Dalle 7 del mattino, code chilometriche di familiari in attesa assediano gli ingressi, per accedere ai colloqui. Don Tullio Mengon, il cappellano, l'ha denunciato spesso: "Sono scene da terzo mondo". Il direttore di Poggioreale, Cosimo Giordano, (responsabile del penitenziario toscano di Porto Azzurro, nei giorni drammatici della rivolta dei detenuti, 25 agosto 1987) non lo nasconde. "Direi anche quarto mondo. Eppure, sono fiducioso.

Al Ministero sono stati approvati progetti importanti di ristrutturazione, e sembra ci siano anche i fondi".
Dentro, per ora, restano rabbia, disperazione. "Detenuti di ogni età, anche i più diligenti, sollevano gli occhi e ti chiedono spazio, aria", racconta suor Lidia Schettini, da 32 anni volontaria nel borbonico penitenziario. "Sono molto preoccupata. Con i miei 70 anni, vengo quasi ogni giorno in queste celle, mi illudo che anche una bottiglia d'acqua, o un accappatoio o un paio di scarpe mitighi la sofferenza.

Al padiglione Milano, poco fa, un ragazzo albanese era raggomitolato su se stesso. Il medico lo aveva appena visitato, aveva la pressione massima a 90, "non ho la forza di parlare", mi ha detto". Stamane a Poggioreale entreranno per una visita i radicali Marco Pannella e Rita Bernardini. Ieri è toccato all'assessore regionale Alfonsina De Felice e a Samuele Ciambriello visitare i penitenziari di Fuorni e di Pozzuoli.

A chi varca quei portoni, accompagnato dagli instancabili volontari, i detenuti ripetono la stessa parola: "Spazio". Sette metri quadri, imporrebbe la Corte europea. Riflette l'assessore De Felice: "A Fuorni ho visto situazioni preoccupanti. Celle con undici persone e un water accanto a un tavolo.

Gli asciugamani usati come tapparelle. Neanche una doccia. E dei detenuti colpisce la lucidità. Nessuno di loro parla bene dell'indulto, sanno che è stato inutile. Quello che vogliono è scontare la pena in luoghi che non calpestino la loro dignità. Anche se alcuni denunciano una scarsa applicazione della legge Gozzini. Oggi ho scoperto che una donna anziana è appena rientrata a Pozzuoli per scontare un reato che risale al 1993. Anche questo è uno scandalo". Proprio a Pozzuoli, conferma la direttrice Stella Scialpi, "stiamo lavorando ai livelli minimi di sicurezza.

Abbiamo solo cento agenti, divisi in quattro turni, per 160 detenute. A mio rischio e pericolo, prolungo gli orari e concedo straordinari, che Roma ci impone di tagliare. Eppure lo stesso Ministero suggerisce più elasticità nelle telefonate, nei colloqui, nell'assistenza psicologica, dimenticando che anche gli psicologi li hanno tagliati".

Pur nel dramma di oggi, si continua a coltivare la speranza. A Pozzuoli partirà entro sei mesi, grazie ai 200mila euro della Regione e alla determinazione della sua direttrice, Stella Scialpi, un progetto di micro-azienda interna, "Il chicco", la torrefazione del caffè affidato alle detenute e legato al commercio solidale.

Europa in campeggio contro l'effetto serra

Tutti in tenda per lottare contro il cambiamento climatico e puntare il dito contro i maggiori produttori di gas serra. A poco più di tre mesi dal vertice internazionale sul clima di Copenhagen, dove tutti i paesi Onu discuteranno i termini di un nuovo trattato per sostituire quello di Kyoto, l’estate europea viene invasa da un’ondata di campeggi di «azione climatica», impiantati in prossimità di aeroporti, centrali a carbone, miniere ed altri grandi inquinatori, accusati di essere «criminali climatici». Dal Klimacamp di giugno, durante il quale gli attivisti danesi si sono esercitati per le grandi proteste di dicembre, al Camp climat francese finito l’8 agosto, a quello belga-olandese svoltosi ad Anversa, al campeggio contro il clima in Irlanda che comincerà a Ferragosto, ai campeggi climatici in Scozia e Galles, fino al capostipite Climate camp inglese che quest’anno darà vita alla sua quarta edizione a Londra.
Obiettivo dei campeggi climatici sono grandi installazioni inquinanti, responsabili dell’immissione nell’atmosfera di tonnellate di anidride carbonica e altri gas serra. «Ossigeno. No Kerosene!» hanno gridato gli attivisti del Climat camp francese, che negli ultimi giorni hanno lanciato una serie di blocchi e proteste contro la costruzione dell’aeroporto Loire Atlantique, vicino a Nantes, segnalando ancora una volta come l’aviazione sia una sorgente in crescita di gas serra. Il neonato Climate camp scozzese ha invece preso di mira l’apertura di una miniera di carbone a cielo aperto, a Mainshill. Tre attivisti sono stati fermati lunedì scorso dopo un’incursione davanti alla casa di un assessore laburista accusato di essere la sponda politica del progetto. Tra di loro anche Dan Glass, un attivista del gruppo anti-aviazione Plane Stupid, che un anno fa tentò di incollarsi alla mano del primo ministro Gordon Brown durante un ricevimento ufficiale. In azione contro il carbone - fonte fossile che emette un livello di Co2 più alto rispetto al metano e al petrolio per unità di energia - anche il campeggio gallese che dal 13 agosto protesterà contro l’apertura di un’altra miniera di carbone a cielo aperto a
Ffras-y-Ffron.
«Portate amici, più siamo più forti saremo, e tutte quelle cose che portereste normalmente in un campeggio», consigliano gli organizzatori del campeggio di azione climatica inglese che comincerà il 27 agosto. Niente cani, bottiglie di vetro e coltellini svizzeri. «La polizia adora trovarne un po’ per poi andare in televisione e spargere storie spaventose riguardo ai campeggiatori climatici», avvertono sul sito. Oltre ad essere una base per proteste e blocchi contro grandi inquinatori, i campeggi climatici sono anche uno spazio di vita sostenibile ed educazione ecologica. Rigoroso l’uso di tecnologie verdi, da pannelli solari a pale eoliche, per portare elettricità ai campeggi, all’utilizzo
del compostaggio, e al riciclo delle acque grigie. Le giornate di campeggio sono poi segnate da un calendario fitto di laboratori, seminari e conferenze, per discutere come vivere low-carbon e come costruire la transizione verso una società post-fossile.
Il primo campeggio climatico a livello internazionale si svolse nell’estate 2006 nello Yorkshire contro la centrale a carbone di Drax, la prima sorgente di emissioni di gas serra nel Regno Unito. Tra i promotori, veterani del movimento contro la costruzione delle tangenziali durante gli anni ’90. Poi nel 2007 l’edizione che bucò i media, con la protesta contro la costruzione della terza pista all’aeroporto di Heathrow, il più trafficato del vecchio continente. Il campeggio climatico è sbarcato sul continente nel 2008, con una protesta ad Amburgo contro una centrale a carbone. Quest’anno il campeggio climatico in Germania si terrà a fine agosto e sarà seguito da una grande protesta contro il nucleare a Berlino, per dire che l’energia atomica non è la soluzione al cambiamento climatico.
La diffusione dei campeggi climatici e di altri campeggi di protesta come quelli «no border» contro i controlli migratori, fa parte di una tradizione che affonda le sue radici nella storia dell’azione diretta antimilitarista ed antinucleare. Il campeggio di protesta fu reso celebre nel mondo anglosassone dalle donne di Greenham Common, protagoniste di un presidio durato dieci anni contro i missili Cruise della base Raf. Tradizione ripresa da Brian Haw, il carpentiere sessantenne che dal 2001 quasi ininterrottamente vive in una tenda nella piazza di fronte al parlamento di Westminster, affiancata da foto di atrocità belliche e addobbata da simboli pacifisti.
Se la diffusione dei campeggi di azione climatica in giro per l’Europa segnala la crescente attenzione dei movimenti sociali per la questione del riscaldamento globale, al momento l’ondata di protesta sul clima non si è ancora affermata nella nostra penisola. A quando un campeggio di azione climatica anche in Italia?