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domenica 2 agosto 2009

FABRIZIO DE ANDRE' - SOGNO NUMERO DUE



FABRIZIO DE ANDRE' - SOGNO NUMERO DUE

- Imputato, ascolta:
noi ti abbiamo ascoltato.

Tu non sapevi di avere una coscienza al fosforo
piantata tra l'aorta e l'intenzione.
Noi ti abbiamo osservato
dal primo battere del cuore
fino ai ritmi più brevi
dell'ultima emozione,
quando uccidevi,
favorendo il potere,
i soci vitalizi del potere,
ammucchiati in discesa
a difesa
della loro celebrazione.

E se tu la credevi vendetta,
il fosforo di guardia
segnalava la tua urgenza di potere,
mentre ti emozionavi nel ruolo più eccitante della legge,
quello che non protegge:
la parte del boia.

Imputato,
il dito più lungo della tua mano
è il medio,
quello della mia
è l'indice,
eppure anche tu hai giudicato.

Hai assolto e hai condannato
al di sopra di me,
ma al di sopra di me,
per quello che hai fatto,
per come lo hai rinnovato,
il potere ti è grato.

Ascolta:
una volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo
la legge.

Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi essere assolto o condannato? -

2 agosto 1980, strage della stazione di Bologna: una lotta contro l'oblio



Sono passati 29 anni dalla strage di Bologna. Sono passati 29 anni e di verità sugli esecutori materiali ed i mandanti di quella strage ce ne sono ancora poche e tutte contraddittorie.Una verità comunque esiste. Quella strage, fu una strage fascista. E non ci riferiamo al probabile attentatore ma alle modalità. Luogo, tempo, e finalità sono fasciste. Rispetto a questo concetto poco cambia se la mano è quella dei Nar, dei servizi segreti, della Cia o altro.

Tempo, luoghi e modalità.
Sabato 2 agosto milioni di lavoratori e proletari sono in transito su treni e autostrade di tutta Italia per le ferie estive. Ore 10,25 una bomba esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna. Lo scoppio fu violentissimo, provocò il crollo delle strutture sovrastanti le sale d'aspetto di prima e seconda classe dove si trovavano gli uffici dell'azienda di ristorazione Cigar e di circa 30 metri di pensilina. L'esplosione investì anche il treno Ancona-Chiasso in sosta al primo binario. Il soffio arroventato prodotto da una miscela di tritolo e T4 tranciò i destini di persone provenienti da 50 città diverse italiane e straniere. Il bilancio finale fu di 85 morti e 200 feriti.

Finalità.
La strage ha l'obiettivo di continuare la Strategia della Tensione iniziata nei decenni precedenti e conclusasi il 23 dicembre 1984, antivigilia di Natale, con l'attentato al treno rapido 904 in cui 17 persone persero la vita e oltre 260 rimasero ferite.

Per cui tempi, modalità e finalità è inutile ripeterlo sono certamente fasciste e da questa unica certezza dobbiamo continuare a costruire una memoria della strage. Perché il problema che si apre adesso è quello del ricordo e della memoria.

Ricordo e memoria che in primis nella stessa città di Bologna stanno andando perduti. Perché purtroppo su questa strage e quei corpi, nella città simbolo del PCI si è costruito retorica e opportunità politica. Senza mai cercare di avviare controinchieste solide che sarebbero state utili alla città ad orientare l'opinione pubblica verso una domanda di verità e di giustizia, di fronte ad una magistratura che per forza di cose non poteva certo mettere sotto accusa le istituzioni di cui facevano parte i servizi segreti, i cui depistaggi sulla strage sono dati certi.

Ma la verità di cui il Partito Comunista e i suoi successori si sono sempre accontentati è stata quella di propaganda che gli ha permesso su quella strage di ricostruire una rilettura degli anni '70 e sugli opposti estremismi in cui lo stato non ne era partecipe.

Quindi le polemiche politiche sui mandanti. Le miriadi di possibili ipotesi scritte sui giornali in questi 29 anni. L'analizzare la vicenda slegandola dalle altre stragi di stato/fasciste degli anni settanta. Il non riconoscere le piccole certezze che si avevano. Sono tutti gli ingredienti che hanno permesso di costruire intorno alla vicenda una nube che ne offusca tutt'oggi il ricordo. E che fa dire in un sondaggio di qualche anno fa al 21,7 % degli studenti bolognesi che l'attentato è da attribuirsi alle Brigate Rosse.

Per cui chiunque tutt'oggi fra le forze istituzionali e sociali continua a rammaricarsi per una giustizia non ancora data e tutt'altro che vicina, e per una memoria ormai perduta deve comunque chiedersi se in tutto questo non ci siano anche proprie responsabilità.

Per concludere, a sostegno dell'ipotesi che sugli 85 morti e 200 feriti del 2 Agosto 1980 si è continuato da destra e sinistra a fare propaganda politica inseriamo le vicende di questi ultimi giorni. Il governo Berlusconi sempre in prima fila in tutte le sue legislature contro il terrorismo, sta permettendo all'Inpdap, l'istituto di previdenza dei dipendenti pubblici, di revocare le pensioni di invalidità per i feriti della strage.

Vendola: "Momento di barbarie". E querela Tato Greco

Bufera politica dopo il blitz dei carabinieri nella sede dei partiti. Il segretario del movimento di Fitto: "Governatore colluso". E viene denunciato

«Stiamo vivendo un momento di barbarie». Nichi Vendola si è lasciato sfuggire soltanto una frase. Poche, amarissime parole per commentare gli sviluppi dell´inchiesta coordinata da Desireè Digeronimo. Il governatore pugliese è frastornato dal susseguirsi di atti formali e indiscrezioni legate alle inchieste sugliintrecci pericolosi tra sanità, politica e malavita. Ma ha scelto di non parlare più. Quello che Vendola non può dire, lo dichiara (con più diplomazia) il coordinatore di Sinistra e libertà, Nicola Fratoianni: «Auspichiamo che non si alimenti un´ennesima bufera mediatica sulla vicenda a danno di quanti, da tempo, tentano di coniugare l´etica delle responsabilità politica con la faticosa attività di governo regionale».
Il governatore pugliese è infastidito - racconta chi sta vivendo accanto a lui queste ore delicate - più per i metodi utilizzati dalla procura di Bari che per le accuse arrivate dal centrodestra e dall´Italia dei valori.
Di fronte alle dichiarazioni di Greco ("Tato, a mamma...") però, non ha potuto fare finta di niente. Il rampollo della politica pugliese, coinvolto nell´indagine aperta dal pm Giuseppe Rossi nel 2002, ieri ha sottolineato: «Vendola è colluso da 4 anni con il sistema. Da presidente della Regione - ha accusato il coordinatore della Puglia prima di tutto - non ha squadernato alcun sistema di potere, come invece si vanta di aver fatto: la verità è che per quattro anni ha governato questa regione condividendo i metodi e scegliendo direttamente le persone che oggi sono oggetto di indagine della procura. O crede che abbiamo dimenticato la difesa a oltranza che Vendola fece in aula quando il centrodestra provava a far emergere il conflitto di interessi del suo assessore alla Sanità, Alberto Tedesco?».
Dichiarazioni pesanti che hanno convinto Vendola a querelare Tato Greco e a diffondere una piccata risposta: «Io - ha scritto il governatore - non ho alcuna relazione con storie di cocaina e prostitute e appalti sanitari né con voti di scambio né con scambi di qualunque genere. Ho letto invece sui giornali, nella presa diretta delle intercettazioni telefoniche, quale sia lo stile di Tato Greco e dei suoi sodali: e ne ho provato immensa pietà». Ma il pensiero del capogruppo della Puglia prima di tutto trova sponde anche all´interno del centrosinistra. «Nell´affare Tedesco Vendola si è comportato come Pinocchio - ha accusato il coordinatore regionale dell´Italia dei valori, Pierfelice Zazzera - mentre noi abbiamo tentato invano di svolgere il nostro ruolo da grillo parlante. Ma fu inutile: in un recente consiglio regionale monotematico - ricostruisce il leader dell´Idv - Vendola espresse il proprio pieno appoggio all´operato di Tedesco e alla politica sanitaria regionale. Per tanto riteniamo che sulle ultime vicende il presidente Vendola abbia forti responsabilità politiche». Siamo all´anticamera di una richiesta di dimissioni.
Richiesta, invece, esplicitamente formulata ieri dal Popolo della libertà: «Se uno schizzo di fango era bastato a destituire un vicepresidente, cinque perquisizioni dovrebbero essere sufficienti a indurre un presidente duro e puro a destituirsi da solo», ha dichiarato Roberto Ruocco. L´eurodeputato Salvatore Tatarella, ha evocato, invece lo spettro di una «tangentopoli pugliese».

di Paolo Russo da La RepubblicaBari

Repubblica Centrafricana, sono 125 mila i profughi

L'arrivo della stagione delle piogge non potrà che peggiorare la drammatica condizione dei profughi, riparati in zone remote del Car

Le lotte tra le fazioni ribelli e le forze governative nel nord della Repubblica Centrafricana (CAR) hanno coinvolto oltre un milione di persone e hanno creato più 125.000 profughi, che vivono in "condizioni deplorevoli", dopo essere fuggiti in zone remote, a cui i cooperanti non hanno accesso.
"La popolazione vive nella paura -ha spiegato Catherine Bragg, degli Affari Umanitari delle Nazioni Unite "questa è una situazione unica ... dove le persone sono fuggite dai propri villaggi, senza la possibilità di tornarvi per tre o quattro anni e vivono ora in condizioni di sopravvivenza assolutamente al limite e senza la possibilità di essere raggiunti dagli aiuti delle agenzie umanitarie".
Nonostante l'abbondanza di diamanti e legname, la Repubblica Centrafricana è uno degli stati più poveri e più isolati dell' Africa, con un governo debole che lotta da anni per sedare le ribellioni interne.
L'insicurezza e il pericolo, unite a strade disastrate, fa sì che le agenzie umanitarie non siano in grado di raggiungere le zone più remote colpite dai combattimenti, in particolare la regione del nord-est di Ndele, che ha visto il mese scorso scontri mortali tra le forze di sicurezza e i ribelli e dove nel mese di aprile, l'accesso umanitario è stato completamente bloccato dalle forze governative a causa delle operazioni militari.
Gli operatori umanitari lamentano che il paese e i suoi problemi sono stati fortemente trascurati negli ultimi due anni, a causa delle crisi che hanno colpito i paesi della regione: "Credo che sia un'esagerazione, l'idea che in moti hanno che il confine con Ciad e Darfur sia troppo vicino e che questo faccia sì che i loro problemi si riversino su di noi" ha detto la Bragg "La situazione sembra comunque lontana da un miglioramento e questo è il motivo per cui abbiamo bisogno costantemente di aiuto".

da PeaceReporter

I parassiti della rete perdono colpi

Nel grande risiko per il controllo della Rete, l'accordo tra Microsoft e Yahoo! può essere equiparato alla proposta di alleanza contro un terzo più forte e agguerrito giocatore in vista dello scontro diretto. Non è infatti la fusione tanto inseguita da Microsoft diciotto mesi fa, quando il colosso di Redmond puntò al controllo di Yahoo!. Non è però neppure una alleanza significativa sul piano tecnologico. L'unico vero interesse è il fatto che il motore di ricerca Bingo sviluppato dagli eredi di Bill Gates diventerà la piattaforma tecnologica di Yahoo!, creando così le condizioni di una verifica di massa delle sue potenzialità. Per il resto è solo una carta di intenti per condividere risorse e quote di mercato, garantendo a tutte e due le società l'autonomia gestionale e imprenditoriale. E tuttavia è una notizia che non può lasciare indifferenti le realtà dell'attivismo in Rete.

In primo luogo, perché la logica dell'accordo punta a definire una rigida gerarchia di potere nel web. Su internet devono comandare due, tre imprese multinazionali e chi persegue una cultura non mercantile deve diventare un passivo spettatore o accettare il ruoto di un altrettanto passivo utente che diventa attivo solo quando deve cedere gratuitamente consigli e segnalazioni alle imprese sulle innovazioni da apportare ai loro software. L'accordo tra Microsoft e Yahoo! nasconde questa politicità, che va contrastata non appellandosi tuttavia a Google, ma sviluppando esperienza produttive – di software e di informazione – indipendenti da quelle delle multinazionali del software e dell'entertainment. Indipendenti perché fondanti sulla convinzione che la condivisione del sapere, della conoscenza, delle proprie capacità garantisca la libertà collettiva e dunque anche di quella individuale. Da qui la necessità di sviluppare un punto di vista autonomo assieme al mondo dei produttori di free software e open source.

Per le grandi multinazionali dell'High-tech, la posta in gioco nella Rete non è più solo lo sviluppo di un potente microprocessore o di un sistema operativo migliore di quello della Microsoft, ma la definizione di un modello di business capitalistico basato proprio sulla condivisione del sapere e della conoscenza e sulla capacità di sviluppare relazioni sociali da parte degli internauti. In altri termini, è il social network la materia prima che Google, Microsoft e Yahoo! vogliono piegare alla logica dominante nella produzione della ricchezza attraverso una divisione oligopolistica dei mercati nella Rete.

Un obiettivo strategico che vede Google in posizione migliore rispetto ai suoi concorrenti per la storia dei suoi fondatori e per la vision sulla rete espressa fin dagli esordi, cioè dal 1998, periodo nel quale il cosiddetto «paradigma informazionalista» afferma la sua egemonia nel capitalismo contemporaneo. Va ricordato che Larry Page e Sergej Brin sono cresciuti on-line perché Internet era già allora un medium di massa e nel cyberspazio la cultura hacker era soprattuto una attitudine che segna il ritmo della Rete.

La condivisione delle informazioni, la critica alla proprietà intellettuale, la propensione a autorganizzare il proprio lavoro, rifiutando così le gerarchie delle grandi imprese sono elementi così diffusi che i due fondatori di Google si pongono il problema di come trasformarli in un modello di business vincente e alternativo a quello di Microsoft. La società di Bill Gates, seppur produca quella merce immateriale che sono sistemi operativi e programmi informatici applicativi, è infatti una società tradizionale che sfrutta il regime di proprietà intellettuale come barriera protettiva al mercato. E quando i due giovani ragazzi devono decidere quale sia il programma di ricerca da presentare alla Stanford University Microsoft è uscita con la ossa rotte dal lungo processo avviato da una denuncia del ministero del commercio statunitense per pratiche monopolistiche. Inoltre Bill Gates sta cercando di recuperare il tempo perduto su Internet dopo che per anni ha ritenuto, presuntuosamente e con arroganza, Internet un gioco per nerds frustrati, mentre le cose serie erano quelle, ovviamente, sfornate dalla sede di Redmond.

Larry Page e Sergej Brin si pongono un problema all'altezza dei tempi. Il web è così diffuso e usato che è sempre più difficile trovare le informazioni volute.

La computer science ha in passato sviluppato algoritmi e programma di ricerca, ma sempre relativi a quantità limitate di dati. Per Internet serve un programma che accetti la sfida di una crescita costante nel tempo delle informazione. Alla Stanford University esiste un programma brevettato, ma con limiti abbastanza evidenti. Larry Page e Sergej Brin lo migliorano e fanno una proposta all'università californiana: noi vi cediamo le innovazioni apportate, ma voi ci date in concessione l'uso dell'algoritmo.

Nasce così PageRank e il relativo motore di ricerca Google. Ma i due ricercatori novelli imprenditori sono convinti che deve essere usato gratuitamente. Il business sta nel far pagare pochi centesimi inserzioni pubblicitarie.

La gratuità dei programmi e il pagamento della pubblicità è il modello di business che Larry Page e Sergej Brin riescono ad affermare. Da lì allo sviluppo dell'attuale Google la strada è breve. A Mountain View decidono di offrire gratis lo spazio per la posta elettronica personale, l'uso di Google Earth, la connessione via cellulare alla rete, mentre intraprendono la strada, in salita, di digitalizzare libri, acquistando nel frattempo YouTube, cioè acquistano uno strumento che consente di scaricare e rendere pubblici spezzoni di video. Per loro è l'ingresso in una virtual community, che può trasformarsi in un potenziale pressoché illimitato di inserzioni pubblicitarie.L'innovazione di Google sta proprio nel aver compreso che in Rete la gallina delle uova d'oro sono i contenuti e le reti sociali che si costruiscono attraverso la comunicazione on line. Un orizzonte imprenditoriale distante anni luce da quello di Microsoft, che infatti arranca e perde potere. L'accordo di alcuni giorni fa non cambierà il capitalismo mondiale. Piuttosto è l'ulteriore segnale che l'hardware è un accessorio più o meno importante, mentre il software e la cooperazione sociale sono gli elementi strategici, usando la terminologia di Manuel Castells, del capitalismo informazionale.

Al di là del contesto in cui collocare l'accordo tra Microsoft e Yahoo! Ben altra rilevanza ha proprio la cooperazione sociale. Da questo punto di vista le grandi multinazionali possono, con realismo, essere considerate parassiti di ciò che viene prodotto, in termini di contenuti e di software, proprio dalla cooperazione sociale. L'innovazione nasce proprio in una dimensione collettiva, di relazioni alla pari. Il sociologo Richard Merton indicava nel «comunismo dei ricercatori» l'elemento irrinunciabile della ricerca scientifica. Con realismo, anche la cooperazione e la condivisione della rete è l'elemento di qualsiasi innovazione tecnologica, che non contempla più e solo i manufatti prodotti, ma anche i dispositivi comunicativi e i contenuti prodotti dalla cooperazione sociale.

Il lettore avvertito della Rete sa che non siamo all'interno di un superamento del capitalismo attraverso la diffusione di un virus chiamato cooperazione. La logica dominante è sempre quella capitalistica, ma la cooperazione on-line è un elemento conflittuale rispetto alle gerarchie di potere che di volta in volta sono definite attraverso le strategie delle imprese e dei governi nazionali e degli organismi internazionali. La cooperazione non tollera infatti l'istituzionalizzazione delle gerarchie, perché si alimenta ancora di quell'attitudine hacker del passato. Per questo il pensiero critico deve distogliere lo sguardo della affascinante medusa che racconta di imprenditoria fai da te e di anarcocapitalismo. Rischia infatti di restare pietrificato da una narrazione che, enfatizza sì la cooperazione sociale ma per ricondurla all'ordine capitalistico. Occorre semmai continua a sviluppare momenti di aggregazione e di produzione di contenuti indipendenti dal discorso dominante. Per questo l'attivismo on line ha un compagno di strada nel variegato mondo della produzione di freesoftware e open source. Stessa è l'insofferenza per le pratiche monopolistiche e oligopolistiche; stessa è la critica alla colonizzazione della rete da parte del mercato; stessa, inoltre, l'alterità al regime della proprietà intellettuale. Stessa, infine, la passione a immaginare e sperimentare organizzazioni e produzioni di contenuti indipendenti. E' su questa passione che l'incontro può trovare terreno fertile per sovvertire l'ordine del discorso dominante e far crescere istituzioni e esperienze produttive legate a quella dimensione che è la produzione del comune.

di Benold

Caso Rumesh, un fatto accidentale a bruciapelo

Il pm della Procura di Como ha chiesto la parziale archiviazione del fascicolo di inchiesta a carico del vigile che sparò in testa a un ragazzino di Como: «Una disgraziata fatalità»

Poche storie, gli ha sparato in testa da distanza ravvicinata ma non l'ha fatto apposta. E' stata solo una «negligenza e imprudenza», disgraziata fatalità. Dunque, anche se la ricostruzione è poco originale, il pubblico ministero della Procura di Como, Mariano Fadda, è convinto che il vigile della squadretta anti-writers che ha sparato in testa a Rumesh Rajgama, un ragazzino cingalese di 17 anni, sia stato vittima «di una irriflessa pressione del grilletto nel corso dello spostamento fuori dalla sede stradale». Per questo il pm ha chiesto la parziale archiviazione del fascicolo di inchiesta a carico dello sparatore. Non più lesioni volontarie, ma lesioni colpose. Una richiesta che fa il paio con la mossa della giunta comunale di Como che a sei mesi da quel tentato omicidio ha rimesso al lavoro la muscolare squadretta che scorazza per la città molestando ragazzini armati di bombolette.
Secondo il pm, il «supertestimone» che incastrerebbe lo sparatore mente, mentre la spiegazione del vigile Marco Dianati non fa una grinza, è un classico: «Accidentalmente mi è partito un colpo incappando nel marciapiede mentre stavo facendo avvicinare il ragazzo ad un muro per perquisirlo». Rumesh, che ha la parte destra del corpo semiparalizzata e disturbi alla vista e all'udito, quel giorno stava scappando in automobile. Niente di particolarmente grave, un po' poco per prendersi un colpo a bruciapelo. Dopo «un rocambolesco inseguimento», al primo semaforo l'auto si è semplicemente trovata imbottigliata nel traffico per un semaforo rosso, un po' poco per far perdere la testa a un vigile armato. Ma nella sonnolenta Como ormai basta un niente per immaginarsi in missione sulle strade della California, lo sanno i duemila ragazzi che sono scesi in piazza per protestare contro il sindaco Bruni (Forza Italia) che legittima i peggiori comportamenti dei vigili.
Nessun politico, fatta eccezione per i giovani comunisti che hanno spinto per un'interrogazione parlamentare, ha perso tempo per interrogarsi su una vicenda di inaudita gravità, paragonabile solo ai casi clamorosi che di tanto in tanto illuminano in mondovisione la brutalità dei cops americani. Solo Minniti, viceministro agli Interni, si è degnato di rispondere che prima della sentenza non può procedere allo scioglimento della squadretta anti writers. Magari, dopo, ci scappa una bella onorificienza per il lavoro svolto.

di Luca Fazio da Il Manifesto 12Ott2006

Omicidio Aldrovandi: conclusa l’inchiesta bis sui depistaggi nelle indagini

“Si tratta di una seconda fase del processo principale che per noi è un completamento dell’intera vicenda. Abbiamo sempre chiesto giustizia per Federico e credo che senza certe stranezze le indagini sarebbero state molto più rapide. E forse non avremmo dovuto attendere quattro anni prima di ottenere una sentenza”.

Commenta così Patrizia Moretti la notizia della chiusura delle indagini sulla cosiddetta inchiesta “Aldrovandi bis”, volta ad accertare presunte irregolarità avvenute durante lo svolgimento delle indagini sulla morte del 18enne Federico, avvenuta il 25 settembre 2005 e per la quale sono già stati condannati in primo grado 4 poliziotti per omicidio colposo.
Il pm Nicola Proto ha depositato l’avviso di chiusura indagini e in queste ore stanno arrivando le notifiche ex art. 415 bis del codice penale ad altri quattro poliziotti indagati per quanto successe, o non successe, dopo il 25 settembre. “Penso che qualcuno abbia un debito verso l’intera città – continua la madre di Federico -. Oltre a noi come famiglia, è stata ingannata tutta Ferrara”.

L’inizio delle vicenda risale al maggio 2007, quando vennero segnalate dalla squadra mobile presunte manomissioni nei brogliacci della questura attinenti agli interventi delle volanti la notte del 25 settembre.
Il foglio originale relativo all’intervento in via Ippodromo, con numero di serie 686, riportava come orario le 5.45. Dopo una correzione a penna le 5.45 sono diventate le 5.50 (la prima chiamata al 113 risale proprio alle 5.45). Il foglio successivo in ordine temporale però, il 687, riporta un altro intervento effettuato dalla polizia quella notte, dove l’orario indica le 5.45. Due interventi inconciliabili dal punto di vista cronologico. A questo punto il 686 viene cancellato con segni trasversali, sempre a penna. Il registro riporta quindi al 688 l’intervento di via Ippodromo, questa volta con l’orario “ufficiale” delle 5.50. Solo il foglio 688 sarebbe stato trasmesso alla polizia giudiziaria.

Da quelle incongruenze partì la seconda inchiesta, che vide indagati tre poliziotti: Paolo Marino, all’epoca dei fatti dirigente dell’ufficio Volanti, Marco Pirani, ispettore della polizia incaricato il 16 gennaio 2006 dal procuratore capo Severino Messina di affiancare il pm Guerra nelle indagini, Marcello Bulgarelli, che il giorno della tragedia era responsabile della centrale operativa 113.
A loro, nel marzo 2009, si aggiunge Luca Casoni, quella notte capoturno delle volanti. I reati ipotizzati dalla procura estense sarebbero di natura dolosa.
Ora si dovranno attendere i 20 giorni di rito (che, con la pausa estiva, fanno slittare i termini a inizio ottobre) per presentare memorie, produrre documenti, depositare documentazione relativa ad investigazioni del difensore, chiedere al pubblico ministero il compimento di atti di indagine, nonché di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio. Dopodiché verrà fissata l’udienza preliminare davanti al gip che deciderà sulla richiesta di rinvio a giudizio accogliendola o decretando l’archiviazione.

da Indymedia

La pillola non va giù

«Ora che l’Aifa ha deciso, in scienza e coscienza, di consentire anche in Italia
l’utilizzo della pillola Ru486, nessuno, tanto meno il governo, cerchi rivincite». L’auspicio di Benedetto Della Vedova, uno dei pochissimi esponenti del Pdl che giudica normale e corretto il sì dell’Agenzia del farmaco, fa capire che il fronte del no - Chiesa, destra, vetero e neo fondamentalisti - la rivincita la cercherà eccome. Il rampino a cui si attaccherà sarà l’articolo 8 della legge 194 che prescrive che l’intervento abortivo debba svolgersi in ospedale. Interpretato con razionalità e buon senso, l’articolo implica che debba avvenire in ospedale l’intervento chirurgico o la somministrazione della coppia di farmaci (Ru486 e, successivamente, le prostaglandine) che inducono il distacco e l’espulsione dell’embrione. Nella maggior parte dei casi l’espulsione si verifica due-tre giorni
dopo l’assunzione, in day hospital, delle prostaglandine. Avviene a casa (non
per obbligo, ma per scelta delle donne). Tanto basta alla sottosegretaria al
welfare Eugenia Roccella per sostenere che l’aborto farmacologico è «intrinsecamente domiciliare», quindi «clandestino», quindi contro la 194. Mai legge fu tanto apprezzata dagli stessi che, fino all’altro ieri, l’avevano condannata. La guerra al day hospital, la pretesa che le donne restino ricoverate a lungo sarà lo stratagemma per «disincentivare» la Ru486.
Lo si capisce dalla lettera indirizzata ieri ai vertici dell’Aifa dal ministro del welfare Sacconi. In essa si ricorda il parere del Consiglio superiore della
sanità secondo il quale la sicurezza dell’aborto farmacologico è pari a
quella del metodo chirurgico «solo se l’intera procedura si svolge all’interno
della struttura sanitaria». A quel parere, aggiunge Sacconi, dovranno conformarsi le linee guida per l’uso della Ru486.
In qualunque modo abortiscano, le donne e i medici che collaborano meritano
per la chiesa cattolica l’automatica scomunica. Non è una novità e giovedì sera, subito dopo il sì dell’Aifa, monsignor Sgreccia si era incaricato di ricordarlo. Ieri sulla prima pagina dell’Osservatore romano è tornato sull’argomento
monsignor Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia della Vita: «La Chiesa non può assistere in maniera passiva a quanto avviene nella società». E’ chiamata a reagire alla «triste tendenza» che si sta imponendo poco alla volta «in alcuni frammenti» della cultura contemporanea: la tendenza alla «banalizzazione». Restando agli uomini di chiesa, merita una citazione il vescovo di San Marino-Montefeltro Luigi Negri che bolla la Ru486 come «un pesticida umano». Il vescovo deve essere un assiduo lettore del Foglio che di quella definizione, coniata da «un grande genetista», ha fatto una sua insegna. Il commento più politicamente impegnato, che divide il governo tra buoni
e cattivi, l’ha pubblicato l’Avvenire sul suo sito on line: «Un nuovo scempio
contro la vita umana», che l’Italia «non meritava» e di cui portano la responsabilità alcune componenti politiche che «non hanno fatto quello che
potevano e dovevano». Il quotidiano della Cei non fa l’elenco dei cattivi. Il
pensiero corre al silenzio totale di Berlusconi e della Lega sull’argomento.
Se il primo era obbligato per le note ragioni «private», quello della Lega è improntato al solito agnosticismo.
Gli ex di An, salvo alcune eccezioni (il sottosegretario agli interni Alfredo
Mantovano), non si sono iscritti in massa al fronte del no. Si è notata, però,
una mezza marcia indietro della ministra della gioventù Giorgia Meloni.
L’altro ieri aveva detto che la Ru486 è da accettare perché rende l’aborto «meno invasivo, meno doloroso, meno lacerante». Ieri la ragazza si è autocorretta: «Che brutta Italia, quella in cui si festeggia un nuovo rivoluzionario metodo per sopprimere la vita». Feste, in giro, non se ne vedono.
Si vede, piuttosto, una caterva di dichiarazioni contro la Ru486 rilasciate
soprattutto da esponenti donne, in genere di seconda fila, del Pdl. Per Gabriella
Carlucci l’Aifa avrebbe ceduto alla «campagna ideologica e relativista della sinistra italiana». Per Elisabetta Casellati, l’Agenzia del farmaco con il suo sì «strizza l’occhio alla cultura della morte». Secondo la senatrice Laura Bianconi, la pillola abortiva oltre a «uccidere una vita umana», mette in serio pericolo «la salute psico-fisica della donna». Tornano un po’ ovunque i famosi «29 decessi» che sarebbero stati provocati dalla Ru486. Ma non si dice dove, quando e, soprattutto, non si precisa a quale platea di utenti vada rapportato il numero delle morti presunte. Si compiangono le donne che abortiranno «in solitudine» a casa loro. Oppure le si randella, dando per scontato che «con leggerezza» abortiranno di più, «con la pillola sarà come bere un bicchier d’acqua», dice il
vecchio Cossiga, che notoriamente se ne intende.
Tutti tralasciano il fatto che la Ru486, nei paesi europei dove si usa da anni, non ha fatto aumentare il numero delle interruzioni di gravidanza volontarie. Ha spostato una quota di aborti da un metodo all’altro. In Francia, paese d’origine della Ru586, le ivg chimiche costituiscono il 56% del totale. In Gran Bretagna si fermano al 15%. In Italia, dove la pillola potrà essere somministrata solo entro
la settima settimana di gravidanza (due in meno rispetto alle direttive europee), non si dovrebbe andare oltre il 15-20%. Molto meno, se passerà la linea di tenere prigioniere in ospedale le donne in attesa che l’embrione venga
espulso.
Tra i commenti dell’opposizione segnaliamo quello, banalmente giusto,
del segretario del Pd Franceschini: «Siccome siamo in un paese che consente
l’aborto per legge, se c’è la possibilità di avere un un sistema meno invasivo
per le donne non vedo un motivo per dire di no».

di Manuela Cartosio da Il Manifesto

Bologna, 2 agosto 1980


Sabato 2 agosto 1980 alle 10,25 un ordigno ad alto potenziale esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna: lo scoppio fu violentissimo e provocò il crollo delle strutture sovrastanti le sale d'aspetto di prima e seconda classe, dove si trovavano gli uffici dell'azienda di ristorazione Cigar, e di circa 30 metri di pensilina. L'esplosione investì anche il treno Ancona-Chiasso, in sosta al primo binario. Il bilancio di questa strage fu di 85 morti e 200 feriti. Le indagini dei magistrati subirono diversi tentativi di depistaggio. Nel 1995, vennero infine condannati all'ergastolo in via definitiva come esecutori della strage i terroristi dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari- formazione di estrema destra) Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Luigi Ciavardini, anch'egli esponente dei Nar e minorenne all'epoca dei fatti, è stato condannato per banda armata ed è stato rinviato a nuovo processo per le responsabilità nell'esecuzione della strage. Per i depistaggi furono condannati Francesco Pazienza, Licio Gelli, il generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte.