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mercoledì 31 marzo 2010

PRIMA E DOPO DI LEI IL BUIO…


di Angelo Cleopazzo


Nella mia testa è come se la storia non fosse andata avanti: la storia d’Italia, quella del suo sviluppo, è rimasta ferma lì alle stragi, agli anni di piombo, alla Gladio..;
Nardò e la sua storia sono ferme al palo, quel palo è Renata.
Come se su piani differenti le chiavi segrete del nostro avvenire siano da una parte le verità sulle stragi e su quegli anni, e dall’altra le verità sull’uccisione di Renata Fonte. Ecco, secondo me, senza far luce una volta per tutte su questi accadimenti non ci sarà futuro per le giovani generazioni. Senza verità è un futuro di menzogna e non è il mio.
Studiando la storia recente di Nardò, vivendoci poi, hai come la sensazione che in questo paese gli esempi di vita onesta siano sempre come quello delle lucciole. Spesso penso che prima di Renata e del suo impegno pubblico la scena politica neritina fosse buia e che quella che vien dopo il suo assassinio sia stata tetra. Oggi se ci guardiamo, noi neritini dobbiamo forse solo vergognarci!
E’ da anni che votiamo gente malavitosa o legata al malaffare: votiamo per il ricatto, per il favore, per un bicchiere d’acqua…
Chissà che cosa penserebbe adesso Renata della nostra natura, di quanto sia decaduta!
Ma è anche vero che in mezzo a questo buio “Fitto” cresce la speranza di un migliaio di persone di liberare Nardò dalla tenebra del Medioevo in cui dimora.
Credo che con la forza degli onesti e dei giusti, con la luce della verità Nardò si possa ancora liberare dalle sue ataviche catene.
L’esempio tuo Renata, non sarà vano, è la molla che ci spinge verso una rivoluzione morale che renderà giustizia a te e al nostro paese.

E pur si muove!


di Vincenzo Renna
Care compagne/i,

prima di tutto credo sia un piacere godersi la vittoria del grande Nichi, che passa dalle facce pulite di tutti i candidati di sinistra e libertà, la nostra Claudia in primis, ma anche di quelle dei nostri eletti, che prima ancora di essere craxiani, sono delle persone, che hanno sposato la nostra causa e che ci rappresenteranno nel parlamentino della Puglia..E quindi Forza compagni... aiutateci a crescere nella nostra società...

Ancora una volta, grazie a Claudia Raho che in questa difficile fase genetica di un nuovo ciclo ha profuso e sta profondendo con la sua persona e con la sua Faccia tutta se stessa in un percorso di politica nuova in una città "singolare" come la nostra Nardò.

Parto però dalle considerazioni di disvalore, che potrei chiosare con una battuta interrogativa "MA SE IL MONDO E' DI DESTRA , NOI CHE COSA ABBIAMO FATTO DI MALE PER NASCERE DI SINISTRA?" per quanto condivisibili sotto traccia, ma molto sotto, mi portano a fare una supplica per l'avvenire. Ma perchè dobbiamo credere che tutto sia già deciso, segnato fatto? Che ormai non ci resti che procedere all'infinito in automatico, senza mutamenti di rotta, seguendo le indicazioni del navigatore satellitare?Perchè dovremmo credere che ciò che vale oggi sia definitivo e irrevocabile, che oltre e altrove non si potrà più andare?
Il passato sembra essersi volatilizzato, il futuro si è automatizzato, c'è il tentativo da parte di taluni di privarci di entrambi per sottometterci al presente. Possiamo modificare (forse) il passato ma non il futuro. Possiamo pentirci del passato ma non possiamo mutare il futuro. Attenti! Vogliono liberarci dal passato; liberiamo invece il futuro, lasciamolo libero di andare....
Nichi è l'esempio vivente del nuovo che interviene nel presente e libera il futuro... di una rivoluzione gentile e democratica, mi sembra di sentire il profumo del '68 senza l'olezzo dei lacrimogeni sparati dai Celerini proletari sugli universitari figli della borghesia - in un ossimoro di valori e disvalori che ha sempre caratterizzato la nostra democrazia..

Non sarei né vitalista né nichilista ma "nascista" cioè proteso a nascere e rinascere a fondare e generare. Nichi ci sta insegnando, a me prima di tutto, che è possibile il cambiamento, si può osare a rimettere in discussione, non con il lamentoso tono dei reazionari o la riprovazione sottovoce dei moderati, le intoccabili certezze di questo tempo, i suoi santuari cadaveri e le sue finzioni obbligate. Qualcuno che assalti il nuovo potere (Berlusconismo - Dalemismo) con smalto e slancio, non curandosi di quel che si può dire e di quel che non si può dire, soprattutto, con la cultura dell'ascolto e dell'accoglienza, soprattutto mettendo insieme idee ed esperienze opposte, (per l'appunto da Tedesco Jr a Raho) separando parentele false ed innaturali. Qualcuno che faccia cadere il castello di carte, che faccia saltare il presepe dei media ed il suo gergo, il suo manierismo sciroccato ora c'è si chiama NICHI VENDOLA.... esultiamo per favore....esultiamo ... !


Ora consentitemi di togliermi un sassolino.. ora consentitemi di ricordare a me stesso in ogni iniziativa che faremo che noi siamo il partito del Presidente Vendola, di chi fa nascere le idee di una politica nuova, di chi la produce nelle sue fabbriche e dalle fabbriche dobbiamo farle arrivare nella società, sul mercato..nelle famiglie...

La società è complessa è contaminata da tanti fattori esperienze passioni giuste o sbagliate che siano, sta alla politica fare in modo di ricercare strategie tali che migliorino le condizioni di vita di tutti preservando garanzie e diritti! ergerci in una dimensione superiore e giudicare ora tizio ora caio non produce, a mio modesto avviso, alcun risultato...il Manicheismo o uno sguardo moralizzatore su ogni cosa che accade al di fuori del nostro recinto ci porterà a chiuderci in noi stessi è un errore che oramai non è consentito correre.

Dobbiamo rafforzare l'immagine di Nichi ne ha bisogno Nardò la Puglia ed il Paese tutto.. dobbiamo sforzarci di credere che cambiare è possibile, che chiamarsi Tedesco o essere stati craxiani non è un peccato originale non è una marchiatura indelebile, che contano le condotte gli obiettivi e i valori e chi crede nei nostri valori alla nostra piattaforma politica è ben accolto sempre ....

Buon lavoro e grazie a tutti.

IL “LEGHISMO” CHE AVANZA, IL “BIPOLARISMO” CHE MUORE…

REGIONALI 2010: ANALISI DEL VOTO E POSSIBILI PROSPETTIVE…

REGIONALI 2010: DATI PRESENTI E PROSPETTIVE FUTURE…

di Gaspare Serra
Concluso lo spoglio delle ultime schede elettorali quello che sconcerta di più è come tutti i protagonisti della scena politica italiana rivendichino ragioni per cantar vittoria, comparando dati elettorali magari incomparabili (elezioni regionali, politiche ed europee) purché favorevoli alla propria parte.
Tagliando corto sulle fantasiose interpretazioni politiche dei numeri elettorali, l’unico vero dato incontestabile è che queste ultime elezioni regionali (così come le precedenti elezioni Europee ed, ancor prima, Politiche) sono state vinte dal centrodestra, che ha fatto incassare al centrosinistra l’ennesima pesante “batosta” elettorale!
E’ alquanto surreale che il Pd cerchi ancora caparbiamente di arroccarsi dietro alla fredda somma delle regioni mantenute.
La “sostanza politica”, infatti, è che, nonostante 7 regioni su 6 siano state mantenute dal centrosinistra, le regioni Piemonte, Lazio, Campania e Calabria (le quattro strappate dal centrodestra al centrosinistra) rappresentano, da sole, più elettori delle 7 regioni aggiudicate dal centrosinistra, inoltre, nel complesso delle 20 regioni italiane, oggi il centrodestra governa circa 42 milioni di Italiani su un totale di 60 milioni!

Oltre ogni aspettativa, le elezioni amministrative svoltesi hanno espresso alcune indicazione chiare ed inequivocabili:

I- la Lega Nord è l’unica forza politica che più che vincere “stravince”, conquistando, per la prima volta nella sua storia, non una bensì due regioni (di cui una, il Piemonte, sorprendentemente strappata al centrosinistra, nonostante il rafforzamento della coalizione tramite l’appoggio dell’Udc) ed avanzando ulteriormente al centro Italia (imbarazzanti per la Sinistra i risultati ottenuti dalla Lega in Emilia Romagna).
Nel centrodestra, dunque, si è imposto il modello di governo della Lega, a discapito della leadership indiscussa del Premier, per il quale Umberto Bossi sarà un alleato si fedele ma sempre più ingombrante.
E il merito di tale successo è probabilmente addebitabile all’indiscutibile chiarezza dell’offerta politica proposta dalla Lega agi elettori: slogan chiari ed efficaci e coerentemente perseguiti.

II- il Pdl sostanzialmente “tiene” (resiste agli attacchi e alle delegittimazioni del proprio “leader maximus” provenienti trasversalmente sia dall’opposizione, sia dal proprio interno -dal Presidente Fini-, sia dalla Magistratura).
E’ strumentale comparare il minore risultato conseguito a livello nazionale dal Pdl rispetto ai dati delle scorse elezioni Europee o Politiche.
Alle precedenti elezioni, difatti, non erano presenti le liste civiche collegate ai candidati presidenti di Regione (destinate a sottrarre voti al principale partito di coalizione) ed era presente, inoltre, la lista del Pdl nella Provincia di Roma (la cui mancata presentazione ha fatto perdere circa 1 milioni di voti, pari a 3 punti percentuali su scala nazionale).
Berlusconi, dunque, ha vinto il referendum sulla sua persona in cui ha trasformato la campagna elettorale.

III- Il Pd, per l’ennesima volta, è il vero grande sconfitto, perdendo sia voti su scala nazionale (in Veneto e Lombardia è il terzo partito) sia importante regioni fino ad oggi governate dallo stesso (Piemonte, Lazio, Campania e Calabria).
Vince in Puglia, inoltre, grazie allo straordinaria forza personale del leader indiscusso di ciò che resta della Sinistra italiana, Nichi Vendola, capace di conquistare più voti della propria coalizione.
Anche questa vittoria, però, può leggersi come una mezza sconfitta della linea politica del Pd, visto che la candidatura del governatore Vendola è stata fortemente osteggiata dallo stesso Pd fino a due mesi fa ed ha sconfessato la strategia dei d’alemiani pugliesi di trasformare la Puglia in un laboratorio politico per costruire un’alleanza programmatica con l’Udc.

IV- L’Idv si conferma l’unico partito del centrosinistra capace di incrementare i propri voti, probabilmente “cannibalizzando” il consenso dell’alleato Pd.

V- L’Udc si mantiene una forza politica di nicchia (con un elettorato stimabile intorno al 5%), capace però di sopravvivere giocando a tenere in mano “l’ago della bilancia” nelle regioni più incerte.

VI- Il nuovo “Movimento 5 Stelle” di Beppe Grillo, infine, tra le 5 regioni in cui si è presentato, ottiene un risultato clamoroso in Emilia Romagna (il 6%) ed in Piemonte (quasi il 3%, comunque determinante per la sconfitta dell’ex governatrice Mercedes Bresso), raccogliendo un voto di protesta proveniente soprattutto dall’area del centrosinistra.

Riassumendo, mentre la coalizione di centrodestra “avanza” (grazie alla forza trainante della Lega), in controtendenza sia rispetto al resto d’Europa (dove le ultime elezioni greche e francesi hanno premiato la Sinistra) sia rispetto alla tradizione consolidata per cui le elezioni di medio termine si trasformano sempre in un “boomerang” per il Governo nazionale (così è stato per il centrodestra nelle Regionali del 2000 e per il centrosinistra per le regionali del 2005), la coalizione di centrosinistra “regredisce”, e ciò per la debolezza ormai atavica di quello che è nato per essere il partito a “vocazione maggioritaria” e pilastro portante del centrosinistra, ossia il Pd.
Spesso, tra l’altro, si enfatizzano i contrasti interni al centrodestra tra i due cofondatori del Pdl, Berlusconi e Fini, tralasciando di ricordare, invece, che uno dei due cofondatori del Pd insieme a Piero Fassino, Francesco Rutelli, a queste elezioni si è presentato fuori dal Pd e con un proprio partito!

In ultima analisi, queste elezioni rappresentano la “morte” definitiva del bipolarismo (già duramente “azzoppato” dopo le ultime elezioni Europee).
Per l’ennesima volta, difatti, gli elettori hanno premiato le forze politiche più estreme e radicali (Lega ed Idv), frantumando il proprio voto e penalizzando le forze maggiori dei due schieramenti (Pdl e Pd), inoltre l’astensionismo si conferma il primo grande partito del Paese, che ha ormai raggiunto il 36% dei “non votanti” (essendosi recati alle urne solo il 64% degli aventi diritto al voto contro il 72% delle precedenti Europee, dato più che allarmante in un Paese con una forte propensione al voto come l’Italia!).
Il fatto che gli astenuti abbiano coerentemente penalizzato sia il centrosinistra che il centrodestra (significativo il dato del Lazio, dove i numeri degli astenuti lasciavano prevedere una sconfitta della Polverini), infine, conferma come il forte astensionismo sia la “cartina tornasole” di un Paese profondamente insoddisfatto sia della classe politica che lo governa che della capacità riformatrice di questo “bipolarismo”, incapace (dal ‘94 ad oggi, in pratica dalla discesa di Berlusconi in campo) di garantire quel rinnovamento a lungo auspicato.

La mia previsione è che questo bipolarismo “morente” (o “malato”, oramai quasi sinonimo del “berlusconismo”) è destinato ad avere una vita breve, collegata a stretto filo alla sopravvivenza politica del Cavaliere.
Non appena Silvio Berlusconi deciderà di farsi da parte, dunque, arriverà il momento in cui le carte in gioco saranno destinate a stravolgersi profondamente (il quadro politico sarà profondamente diverso da quello attuale, e mieterà tra le prime vittime proprio il Pdl ed il Pd): il partito emergente (che, probabilmente, deve ancora nascere…) sarà quello che riuscirà a raccogliere i frutti dell’astensionismo, conquistando il voto di molti di coloro che oggi esprimono con la scelta di non votare disillusione e “disaffezione” nei confronti della politica.

Per Carmelo: i miei non auguri di Pasqua ad un amico ergastolano


Vorrei poterti dire “Ti capisco” ma sarei ipocrita perché anche se mi sforzo non potrò mai capire appieno la tua sofferenza.
Non posso capirla perché non sono in carcere da 20 anni come te,
non posso capirla perché non ho mai avuto le manette ai polsi come te,
non posso capirla perché non ho mai preso le botte che hai preso tu,
non posso capirla perché non ho preso i calci e i pugni che hai preso tu,
non posso capirla perché non ho mai preso gli insulti e gli sputi che hai preso tu,
non posso capirla perché non sono mai stata all’Asinara come te,
non posso capirla perché non sono mai stata tra gli escrementi di topi come te,
non posso capirla perché non sono mai stata nella cella liscia come te,
non posso capirla perché non sono stata in 41 bis come te,
non posso capirla perché non ho mai parlato ai miei cari da dietro ad un vetro come te,
non posso capirla perché non ho mai patito la fame e il freddo come te,
non posso capirla perché non ho mai dovuto fare lo sciopero della fame per ottenere una cosa che mi spettava di diritto come hai dovuto far tu,
non posso capirla perché non sono mai stata in isolamento come te,
non posso capirla perché la sera nessuno mi chiude in faccia un blindato come invece fanno con te,
non posso capirla perché mai un magistrato mi ha rifiutato un permesso dopo 20 anni come invece è accaduto a te,
non posso capirla perché non ho vissuto rinchiusa in una cella stretta come invece vivi tu da 20 anni
non posso capirla perché io non sono crocefissa alla croce dell’ostatività da 20 anni come te.

Per questo, in occasione di questa Pasqua non ti faccio nessun augurio Carmelo, amico della mia anima e del mio cuore
In occasione di questa Pasqua voglio fare un augurio a me stessa.
Che questa Pasqua sconfigga il mio egoismo e mi apra il cuore a te e alla tua sofferenza
Che questa Pasqua distrugga la mia pigrizia e mi dia la forza di lottare ancora di più per te e con te.
Che questa Pasqua mi apra gli occhi e mi faccia comprendere nell’intimo la tua tristezza, i soprusi che patisci ogni giorno, la tua croce, il tuo giogo, il tuo lungo calvario, le tue stimmate, le tue catene.


Ti voglio bene mille,

Mita

(Pasqua 2010)

BOB MARLEY



Franca Rame : "Chiedo le dimissioni del papa"


Perchè chiedo le dimissioni di Papa benetto XVI? Il futuro papa Benedetto XVI, quando era arcivescovo di Monaco, era al corrente del trasferimento in un'altra parrocchia di padre Peter Hullermann, già accusato di pedofilia.

Sono le nuove accuse pubblicate oggi sul sito del New York Times, all'indomani dell'inchiesta sui suoi presunti silenzi sul caso di un prete americano. Secondo il giornale americano, che cita due prelati, il cardinale Ratzinger "era stato messo a conoscenza che il prete, che lui stesso aveva approvato fosse mandato in terapia per curarsi dalla pedofilia, sarebbe invece tornato a un lavoro pastorale a pochi giorni dall'inizio del trattamento psichiatrico. Il prete - prosegue il quotidiano - fu poi dichiarato colpevole di aver molestato ragazzini in un'altra parrocchia".Nelle scorse settimane un comunicato delle arcidiocesi di Monaco e Frisinga aveva attribuito la piena responsabilità della decisione che permetteva al prete di riprendere l'incarico pastorale all'allora vice di Ratzinger, reverendo Gerhard Gruber. "Ma una nota - scrive il New York Times - la cui esistenza è stata confermata da due prelati, dimostra che il futuro papa non solo gestì un incontro il 15 gennaio del 1980, in cui fu approvato il trasferimento del prete, ma fu anche informato della riassegnazione del prete" a un'altra parrocchia. "Quale ruolo Ratzinger abbia avuto nel prendere la decisione e quanto interesse abbia mostrato nel caso del prete pedofilo, che aveva molestato numerosi ragazzini nel suo precedente incarico, non è chiaro", ammette il giornale. (Ansa)

Io chiedo le dimissioni del Papa, perchè queste accuse, se fondate, non sono ammissibili per un Capo spirituale che è portatore di infallibilità, come recita la Dottrina Cattolica.

da Indymedia

Un complotto contro il Vaticano?

La reazione del Vaticano allo scandalo sugli abusi dei preti pedofili è simile a quella adottata da Silvio Berlusconi per affrontare i suoi problemi giudiziari. Consiste nel negare la verità e nel denunciare complotti immaginari. L’articolo di Richard Owen per Internazionale.

Molti in Vaticano e nella chiesa cattolica italiana pensano che ci sia una spiegazione ovvia agli scandali sugli abusi sessuali da parte di esponenti del clero: è tutto un complotto.

Padre Federico Lombardi, portavoce di Benedetto XVI, è stato il primo a parlare di “ignobili attacchi per screditare il Papa”. Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di stato Vaticano, ha detto invece che “qualcuno sta cercando di minare la fiducia nella chiesa”. Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), ha detto che la chiesa “non tollererà campagne per screditarla”. Il cardinale José Saraiva Martins, ex prefetto emerito della Congregazione delle cause dei santi, ha denunciato l’esistenza di un “piano ben ideato con un scopo evidente”.

Perfino la stampa italiana laica, a proposito delle rivelazioni sui presunti abusi sessuali su minori, scrive di “attacchi” da parte della stampa tedesca, statunitense e britannica. Ma gli attacchi non esistono. E non esiste un complotto, un piano. Esistono solo dei fatti riportati dai mezzi d’informazione e la rabbia di ragazzi cattolici vittime di abusi molti anni fa, e che oggi chiedono giustizia.

Il complotto immaginario
I giornali non hanno inventato queste storie, le hanno semplicemente riferite. La tendenza a vedere complotti ovunque è profondamente radicata in Italia e nel Vaticano.

Ma per credere che questo scandalo sia il risultato di una congiura, allora bisognerebbe accettare l’idea che una misteriosa organizzazione abbia costretto molti preti ad abusare di tantissimi bambini per decenni e che la stessa mente diabolica sia riuscita poi a convincere importanti figure della chiesa a insabbiare il tutto. Infine, i cospiratori sarebbero riusciti a far credere all’opinione pubblica che era stato lo stesso Benedetto XVI a coprire lo scandalo, sia come arcivescovo di Monaco sia in veste di capo della Congregazione per la dottrina della fede.

La realtà è che migliaia di preti in tutto il mondo hanno usato per decenni il loro potere per abusare di bambini indifesi, in alcuni casi sordomuti, come nel Wisconsin e a Verona. La realtà è che Benedetto XVI, all’epoca cardinale Joseph Ratzinger, consentì a padre Peter Hullerman, noto prete pedofilo, di trasferirsi da Essen a Monaco perché si sottoponesse a terapia senza impedire che fosse riassegnato alla sua diocesi poco tempo dopo.

La realtà è che padre Hullerman è stato condannato nel 1986 per molestie sessuali su minori ma ha continuato fino a poche settimane fa a svolgere l’attività pastorale. E non ci sono dubbi sul fatto che come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede il cardinale Ratzinger decise di non sospendere un prete accusato di abusi su duecento bambini sordi in una scuola della diocesi di Milwaukee.

Uccidere il messaggero
Secondo i sostenitori della teoria del complotto ci sono delle verità che i mezzi d’informazione non dovrebbero pubblicare perché sconvenienti. Silvio Berlusconi e i suoi sostenitori la pensano così. L’anno scorso, quando è stato colpito dagli scandali che hanno portato la moglie Veronica Lario a chiedere il divorzio, Berlusconi ha accusato la stampa italiana e straniera di complottare contro di lui.

Ma nessuno poteva mettere in dubbio il fatto che il premier era stato alla festa di compleanno di Noemi Letizia, aspirante showgirl e modella, e che aveva fornito spiegazioni contraddittorie su come e quando l’avesse conosciuta.

Nessun giornalista lo aveva costretto ad andare a Casoria né ad andare a letto con Patrizia D’Addario, una escort di Bari, la notte della vittoria di Barack Obama, nel novembre del 2008. E nessun giornalista ha costretto Berlusconi a dare a David Mills, suo consulente fiscale in Gran Bretagna, 600mila dollari in cambio di dichiarazioni false in suo favore in un processo per corruzione.

Nemmeno la fervida immaginazione di Dan Brown potrebbe immaginare un complotto dietro lo scandalo dei preti pedofili o gli avvenimenti che hanno coinvolto Berlusconi e che hanno messo in imbarazzo lui e l’Italia.

Il Vaticano e Berlusconi hanno adottato lo stesso meccanismo di difesa: in caso di cattive notizie, uccidi il messaggero. Se i giornali scoprono qualcosa di imbarazzante, accusali di complottare. Questo bizzarro ma comune meccanismo di difesa fu rivelato molto tempo fa da Shakespeare, in Antonio e Cleopatra, in cui un personaggio dice a un messaggero: “Sebbene sia azione onesta, non è mai bello portare cattive notizie”.

Ma uccidere il messaggero non cancella il problema. Come dice il messaggero di Shakespeare nella sua risposta: “Ho fatto il mio dovere”. Anche padre Lombardi ha ammesso che la stampa ha fatto il suo dovere: “La chiesa”, ha detto, “deve fare ammenda”. E ha aggiunto: “L’argomento è di natura tale da attirare di per sé l’attenzione dei mezzi d’informazione, e il modo in cui la chiesa lo affronta è cruciale per la sua credibilità”.

I preti e i politici che si nascondono dietro ridicole teorie del complotto dovrebbero ascoltare le sagge parole di padre Lombardi.

Richard Owen è il corrispondente in Italia del quotidiano britannico The Times. Traduzione di Stefano Valenti

da Internazionale

Delitto Pasolini e il capitolo di "Petrolio" la Procura di Roma sentirà Dell'Utri


Gli inquirenti ascolteranno il senatore dopo le sue dichiarazioni su un manoscritto
destinato a far parte del romanzo-inchiesta e del quale sarebbe venuto in possesso


Una settimana fa la lettera di Veltroni ad Alfano: "Continuiamo a cercare la verità"
e la risposta positiva del Guardasigilli che ha annunciato nuove indagini


ROMA - Un'inchiesta già riaperta da oltre un anno. Alla quale stanno per aggiungersi nuovi elementi. Gli inquirenti della Procura di Roma hanno intenzione di sentire, come testimone, il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri nell'ambito dell'inchiesta sul delitto di Pierpaolo Pasolini, ucciso nella notte fra l'1 e i 2 novembre del 1975 all'idroscalo di Ostia, sul litorale romano.Un passaggio istruttorio che sarà compiuto anche in seguito ad un'istanza presentata dalla famiglia dello scrittore formalizzata dall'avvocato Guido Calvi, che fa riferimento sia a quanto dichiarato dallo stesso Dell'Utri a proposito di un manoscritto scomparso dello scrittore, che ad un'interpellanza parlamentare fatta da Walter Veltroni alla quale ha risposto positivamente il ministro della Giustizia, Angelino Alfano.

Obiettivo degli inquirenti è chiarire la questione sollevata qualche settimana fa dal senatore del Pdl, che aveva detto - l'occasione era stata l'inaugurazione della XXI Mostra del libro antico di Milano - di avere (o di aver letto) un manoscritto scomparso di Pasolini, destinato a costituire un capitolo del romanzo incompiuto Petrolio: 78 pagine in cui si farebbe riferimento ad alcune vicende che riguardano l'Eni, a cominciare dalla morte di Enrico Mattei. Un fascicolo su Pasolini da più di un anno è all'attenzione del pm Francesco Minisci, che lo ha ereditato dalla collega Diana De Martino passata alla Dna: un procedimento nato da un'istanza presentata, come privati cittadini, dall'avvocato Stefano Maccioni e dalla criminologa Simona Ruffini che hanno lavorato sulle carte dell'inchiesta di Pavia sulla morte di Mattei. Maccioni, pochi giorni fa, è tornato dal magistrato per sollecitare ulteriori indagini partendo proprio dall'audizione di Dell'Utri.
Quanto al capitolo mancante di Petrolio, "l'ho letto ma non posso ancora dire nulla - aveva detto qualche settimana fa il senatore - è uno scritto inquietante per l'Eni, parla di temi e problemi dell'azienda, parla di Cefis, di Mattei e si lega alla storia del nostro paese". E nella richiesta di Maccioni e Ruffini si faceva riferimento proprio alla tesi secondo la quale lo scrittore sarebbe venuto a conoscenza dei mandanti dell'omicidio Mattei indicandoli nel proprio romanzo.

Una settimana fa era stato Walter Veltroni a inviare una lettera al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, chiedendo la riapertura del caso. Oggi "la scienza può dirci la verità su quel delitto" ha scritto l'ex sindaco di Roma, anche perché - ricorda - dalla condanna di Pino Pelosi per l'uccisione dello scrittore emergeva con forza "la prova che quella notte, all'Idroscalo, Pelosi non era solo". Secondo Veltroni, l'inchiesta "faceva acqua da tutte le parti": per questo ha chiesto al Guardasigilli di "continuare a cercare la verità". Di lì a breve era arrivata la risposta positiva di Alfano che aveva annunciato nuove indagini sul caso sottolineando che "accertare la verità è sempre non soltanto utile ma necessario ed ancor più lo è quando la verità vale non soltanto ad accertare le responsabilità penali, ma a far chiarezza sul piano storico-politico oltreché su quello giudiziario".

da La Repubblica

martedì 30 marzo 2010

REGIONALI: Tutti i dati delle liste e dei candidati eletti

Boom di SINISTRA ECOLOGIA E LIBERTA'



RIEPILOGO REGIONALE CANDIDATI PRESIDENTI

RIEPILOGO REGIONALE LISTE

CANDIDATI ELETTI PER LISTE

E' palese: Nichi Vendola presidente 2010

“I risultati confermano che in Puglia abbiamo un laboratorio di buona politica. La Puglia fa la differenza nel Mezzogiorno d’Italia. Una regione che non è assimilabile a uno stereotipo negativo di un Mezzogiorno tutto cooptato in un cono d’ombra fatto di malaffare e di cose negative. C’è un Sud che è in piedi e che orgogliosamente rivendica le proprie eccellenze, i propri talenti e cerca la strada del proprio futuro.Il laboratorio di buon governo che abbiamo messo in campo in Puglia viene oggi premiato dal consenso degli elettori.

La Puglia si è voluta bene, e adesso ho bisogno di una momentanea sparizione, in un luogo dove poter stare qualche giorno a riprendermi la mia vita. Ho bisogno di ritrovarmi, di ritrovare sulle mie mani i miei libri, ho bisogno, ho diritto credo di qualche lettura buona, di un buon libro di poesie, ho una lunga astinenza, ho bisogno di trovare un po’ di buona musica. Mi è venuta una nostalgia della buona musica, e di trovare il mio spazio per riprendermi il pentagramma della bellezza e non dell’orrore.

Poi, ci dobbiamo trovare, dobbiamo convocare gli “stati generali delle fabbriche”, ritrovarci qui e discutere che fare. E’ difficile pensare di scioglierle, sono luoghi di cui io per primo sentirei la nostalgia. I partiti per quanti sforzi, per quanta fatica facciano, e devo dire che non ne fanno molto, non riescono ancora a costruire una relazione virtuosa. Decideremo insieme cosa fare di questa esperienza, di metterla a valore, di trasformala in qualcosa che valga per tutta Italia. Ho le mie idee, ma voglio sentire le vostre. Le fabbriche devono espandersi in tutta Italia, il cantiere e’ ora quello di un’Italia migliore”.

Nichi Vendola

venerdì 26 marzo 2010

Frutto del nostro lavoro

di Nichi Vendola
Leggo irretito le dichiarazioni del Premier su un quotidiano di oggi in merito alla marcia indietro del Governo sul nucleare: ‘Partiamo dalla Puglia per chiarire che la regione non ha bisogno di una centrale nucleare perché è già energeticamente autosufficiente’: ha detto. Ne deduco che, forse involontariamente, Berlusconi ha rivolto i suoi personali complimenti alla mia Giunta per il lavoro svolto nella produzione di energia pulita.
Perché se oggi la Puglia è ‘energicamente autosufficiente’ il merito è tutto nostro. Basta scorrere i dati relativi al solo fotovoltaico: i 799 kilowatt prodotti qui fino al 2007, sono diventati ad oggi 188.000 kilowatt. Un risultato che, sommato a quelli ottenuti nell’eolico, ha portato la Puglia a essere la prima regione in Italia per produzione di energie rinnovabili e a coprire al 188% il fabbisogno energetico dei pugliesi.
Un lavoro solo frutto della tenacia della mia Giunta visto che le Regioni attendono le linee guida del Governo in materia dal 2003. Noi ci abbiamo creduto: per questo, il risultato di oggi è un riconoscimento alla Giunta Vendola che con lo sviluppo della green economy ha scongiurato una volta per tutte l’istallazione delle centrali nucleari in Puglia.

Un poeta per la Puglia

Il quotidiano francese Le Monde parla delle elezioni regionali in Puglia: “Chi oserebbe usare la parola ‘poesia’ in uno slogan elettorale? Chi si presenterebbe alle elezioni con un orecchino e una fedina al pollice della mano sinistra?”.

“Chi parlerebbe agli elettori della sua omosessualità dichiarata e della sua fede tormentata? Una persona sola: Nichi Vendola, 52 anni, che si ricandida come governatore della Puglia ed è il favorito alle elezioni nella sua regione. Cresciuto in una casa dove in cucina c’erano sia la foto di Jurij Gagarin sia quella di papa Giovanni XXIII, Vendola è diventato il simbolo delle vicissitudini dell’ex Partito comunista italiano”.

L’Economist affronta la questione elezioni dal punto di vista dell’informazione: “Le elezioni regionali del 28 e 29 marzo, a detta dello stesso Silvio Berlusconi, saranno un test d’importanza nazionale, una grande prova del nove sulla sua popolarità dopo un 2009 travagliato. Il 20 marzo ha richiamato i suoi sostenitori in piazza a Roma per una grande manifestazione ma il risultato è stato deludente. E l’esito delle elezioni sembra sempre più incerto”.

“In un clima simile ci si potrebbe aspettare dal primo canale della tv pubblica una copertura della vita politica a tutto tondo. Invece il suo unico programma d’informazione politica comincia alle undici di sera e dura cinque minuti. La prima serata è dedicata ai quiz e ai reality show. Lo stesso accade sulle altre due reti Rai e sui canali Mediaset. Non potrebbe risultare più evidente lo stretto controllo che Berlusconi esercita sui mezzi d’informazione”.

da Internazionale

Razzismo: A Treviso niente cous-cous in piazza

Una festa per la pace nel Sahara con il cous cous più grande del mondo da preparare in piazza. Dove? Purtroppo (per gli ideatori) a Treviso. Dove il sindaco Giampaolo Gobbo, leghista erede di Giancarlo Gentilini (quello delle panchine rimosse per non far sedere gli immigrati), ha immediatamente risposto: «Non se ne parla proprio». L'idea era stata del leader della comunità marocchina trevigiana Abdallah Kerzaij, che voleva finire sul Guinness dei primati utilizzando piazza dei Signori, il salotto cittadino. «Non ho ancora ricevuto la richiesta, ma una cosa è certa: in Piazza dei Signori non si fa, possono andare sulle mura», ha detto il sindaco. A dargli man forte è arrivato anche Gentilini, anche se con qualche inaspettata apertura: «In Piazza dei Signori lo escludo, la facciano sulle mura dove abbiamo già organizzato la sagra della salamella. Quando si tratta di specialità culinarie e non di moschee o di burqa non ho problemi, basta che non ci sia di mezzo la religione. Mangiare e bere va sempre bene, tra l'altro il cous cous non l'ho mai assaggiato e sarei anche curioso di farlo». Sulle mura, quelle che «hanno difeso la città dagli invasori».

da Indymedia

Afghanistan, narcotrafficanti sotto contratto Nato?


Impresa privata tedesco-albanese che da anni fornisce servizi logistici alle basi Isaf in Afghanistan, sospettata di traffico internazionale di eroina

di Enrico Piovesana
In Germania è scoppiato uno scandalo - subito silenziato - che rafforza i sempre più diffusi sospetti sul coinvolgimento delle forze d'occupazione occidentali in Afghanistan nel traffico internazionale di eroina - di cui questo paese è diventato, dopo l'invasione del 2001, il principale produttore globale.


Ecolog, servizi alle basi Nato e traffico di eroina. Un servizio mandato in onda a fine febbraio dalla radio-televisione pubblica tedesca Norddeutsche Rundfunk (Ndr) ha rivelato che la Nato e il ministero della Difesa di Berlino stanno investigando sulle presunte attività illecite della Ecolog: multinazionale tedesca di proprietà di una potente famiglia albanese macedone - i Destani, di Tetovo - che dal 2003 opera in Afghanistan sotto contratto Nato, fornendo servizi logistici alle basi militari Isaf dei diversi contingenti nazionali (compreso quello italiano) e all'aeroporto militare di Kabul. E che, secondo recenti informative segrete e rapporti confidenziali ricevuti dalla stessa Nato, sarebbe coinvolta nel contrabbando internazionale di eroina dall'Afghanistan.
"C'è il rischio che sia stata contrabbandata droga, quindi valuteremo se la Ecolog è ancora un partner affidabile per noi", ha dichiarato alla Ndr il generale tedesco Egon Ramms, a capo della Nato Joint Force Command di Brussum, in Olanda.
"Siamo al corrente della questione e stiamo investigando con le autorità competenti", ha confermato un portavoce della Difesa tedesca ai microfoni dell'emittente pubblica.

Dietro l'impresa, il clan albanese-macedone dei Destani. Il servizio della Ndr spiega che già nel 2006 e poi nel 2008, dipendenti della la Ecolog sono finiti sotto inchiesta in Germania con l'accusa di traffico di eroina - centinaia di chili - dall'Afghanistan e di riciclaggio di denaro sporco. E che nel 2002, quando la Ecolog operava in Kosovo al servizio delle basi del contingente tedesco della Kfor, i servizi segreti di Berlino avevano informato i vertici Nato che il clan Destani, strettamente legato ai gruppi armati indipendentisti albanesi (Uck e Kla), controllava ogni sorta di attività e traffico illegale attraverso il confine macedone-kosovaro: dalla droga, alle armi, al traffico di esseri umani.
La Ecolog, che ha la sua sede principale a Düsseldorf (con filiali in Macedonia, Turchia, Emirati Arabi, Kuwait, Stati Uniti e Cina) è stata fondata nel 1998, ed è oggi amministrata, dal giovane Nazif Destani, figlio del capofamiglia Lazim, già condannato a Monaco di Baviera nel 1994 per dettenzione illegali di armi e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Il 90 per cento dei quasi quattromila dipendenti della Ecolog sono albanesi macedoni.

La Ecolog smentisce e fa rimuovere il servizio giornalistico. L'esplosivo servizio della Ndr è stato subito ripreso e amplificato dai mass media tedeschi: dall'emittente nazionale Deutsche Welle al settimanale Der Spiegel.
La reazione della Ecolog è stata immediata e durissima. Thomas Wachowitz, braccio destro di Nafiz Destani, ha bollato come "assurde" e "completamente infondate" le accuse contenute nel servizio, in quanto basate su una "confusione di nomi", e ha chiesto l'intervento della magistratura.
Il 4 marzo, il tribunale federale di Amburgo ha accolto l'esposto della Ecolog, emettendo un'ingiunzione che, senza entrare nel merito del contenuto del servizio giornalistico, impedisce all'emittente Ndr di "sollevare ulteriori sospetti" sull'azienda. La Ndr, dal canto suo, ha dichiarato di ritenere false le argomentazioni della Ecolog e ha annunciato un ricorso contro l'ingiunzione.

da PeaceReporter

La diga che asseta

di Francesco Gastaldon
I rischi del progetto Gibe3, in Etiopia ma con soldi italiani, nell'intervista a Caterina Amicucci, della Campagna per la riforma della Banca mondiale.

Mentre in Italia si manifesta e si organizza un referendum per riaffermare il ruolo centrale dell’acqua come bene comune, in molti Paesi del Sud globale l’acqua e i fiumi stanno diventando un bene sempre più scarso e prezioso. In Etiopia, uno dei Paesi con il reddito pro-capite più bassi al mondo, si sta costruendo la diga Gibe 3, un impianto idroelettrico di dimensioni enormi che rischia di causare danni irreparabili alle vite delle popolazioni della zona. L’impianto sarà realizzato da una azienda italiana (Salini Costruttori) e il governo etiope ha già chiesto un finanziamento milionario al governo italiano (che aveva finanziato l’impianto idroelettrico Gibe 2, sullo stesso fiume).Per ora la Farnesina non si è ancora espressa, aspettando il giudizio delle istituzioni finanziarie internazionali. Proprio per chiedere di non erogare il finanziamento, l’organizzazione italiana Campagna per la Riforma della Banca Mondiale lancia il 23 marzo, all’indomani della Giornata Mondiale dell’Acqua, una campagna di opposizione al progetto Gibe 3. Ne abbiamo parlato con Caterina Amicucci, coordinatrice della campagna.

Perché il governo etiope sta facendo costruire questo impianto?
Gibe 3 fa parte di una strategia particolarmente aggressiva del governo etiope, che punta a sfruttare per intero il patrimonio idrico del Paese, stimato intorno ai 30 mila Mw. Questa potenza supera di moltissimo il fabbisogno energetico dell’Etiopia. La vera logica di una tale strategia, infatti, è la produzione di elettricità per l’esportazione verso i Paesi limitrofi.

Puoi illustrarci brevemente le caratteristiche del progetto Gibe 3?
La diga verrà costruita sul fiume Omo, nel sud dell’Etiopia. Al momento, i lavori per la nuova diga sono al 30% una volta completato l’impianto dovrebbe arrivare a produrre circa 1.870 Mw. Il suo costo si aggirerà intorno ai 2 milardi di dollari. Per questo il governo etiope ha bisogno che intervengano investitori quali la Banca Mondiale, la Banca Europea degli Investimenti e la Banca Africana per poter portare a termine il progetto, affidato alla azienda italiana Salini Costruttori. Noi, ovviamente, ci auguriamo che i soldi non arrivino e che il progetto venga bloccato.

Quali sono le conseguenze di una diga di tali proporzioni?
Il progetto avrà un impatto devastante nella regione della Valle dell’Omo in Etiopia, basti pensare che il flusso del fiume Omo si ridurrà 70%. Alcune comunità locali verranno del tutto cancellate perché saranno private delle loro fonti di sussistenza (il fiume Omo e le sue piene, ndr) e delle risorse necessarie all’agricoltura. Inoltre, il governo etiope non ha previsto alcuna misura di mitigazione dell’impatto, cioè soluzioni alternative per le comunità che vivono nella Bassa Valle dell’OmoUna delle obiezioni comuni è che “le dighe non bloccano l’acqua ma la lasciano fluire il fiume”. Tuttavia il problema è rappresentato dal bacino. Per Gibe 3, il bacino conterrà 11 miliardi di metri cubi d’acqua. E’ stimato che serviranno 5-6 anni per riempire il bacino idrico.
Secondo molti, l’acqua diventerà un bene sempre più raro in Africa a causa di processi di desertificazione e cambiamento climatico.

Qual è dunque il senso di un investimento idroelettrico di questa portata? Gibe 3 non rischia di essere progetto è anche miope dal punto di vista della produzione energetica?
Sì, e purtroppo questo è un punto che hanno in comune molti dei progetti idroelettrici attualmente in corso tutta l’Africa Sub-sahariana, non solo in Etiopia ma anche in Paesi come l’Uganda o la Repubblica Democratica del Congo. Nessuno di questi progetti fa i conti con il fatto che in futuro l’acqua sarà un bene sempre più raro e che tutti gli studi idrogeologici analizzano fenomeni in rapido cambiamento. Spesso, poi, si basano su dati del passato. Quest’anno, ad esempio, non si sono verificate le periodiche esondazioni del fiume Omo, necessarie all’attività agricola, perché nel nord del Paese non è piovuto abbastanza. La strategia energetica dell’Etiopia si basa solamente sulla produzione idroelettrica e non c’è nessuno studio o investimento sulla diversificazione energetica e sull’introduzione di forme alternative di produzione energetica.

Qual è la reazione delle popolazioni sul territorio?
Ci sono vari gruppi attivi sul territorio, che stanno cominciando a far sentire la loro voce e cominciano ad avere credibilità. Oltre ai Friends of Lake Turkana, che sono gli iniziatori del movimento, ci sono vari altri gruppi con cui siamo anche in contatto che stanno facendo un importante lavoro di informazione a livello locale Questo è particolarmente vero in Kenya, dove le comunità stanno dicendo la loro sul loro futuro. Purtroppo in Etiopia la situazione è molto diversa, la situazione politica è molto difficile. Il governo di Meles Zenawi è noto per il suo atteggiamento repressivo e sono state varate nuove leggi che impediscono di fatto il lavoro di gruppi e associazioni di base. A maggio ci saranno anche le elezioni ed è un momento particolarmente teso.

Già in Etiopia i danni saranno enormi. Ma quali le conseguenze a valle della diga?
Il lago Turkana nel nord del Kenya riceve il 90% delle sue acque dall’Omo. Secondo le previsioni, il livello del lago si abbasserà di 10-12 metri. Ci sarà anche un aumento della salinità dell’acqua. Questo sarà molto grave, perché l’acqua del lago è usata per utilizzo potabile, perché si è in mezzo ad un vero e proprio deserto e non c’è altra fonte d’acqua per le comunità. Inoltre, è usata per l’agricoltura, per l’allevamento, per la pesca. Con il cambiamento della quantità e della qualità dell’acqua le 300 mila persone che vivono in una vastissima regione rimarranno senza la principale fonte di acqua. Le attività di pesca, che danno reddito direttamente e indirettamente a 100 mila circa, saranno compromesse in modo molto serio dalla diminuzione di pesci nel lago. Già alcuni anni fa, per una piccola diga costruita in Kenya, la zona del lago era stata colpita da siccità e questo aveva causato scontri piuttosto seri fra le comunità per l’accesso alle risorse fondamentali.

La questione dei conflitti per l’accesso all’acqua è piuttosto rilevante. Si inizia sempre più a parlare di future “guerre per l’acqua”. Credi che sia questo lo scenario che si sta profilando nella regione al confine fra Kenya ed Etiopia?
Le comunità della zona hanno una lunga storia di conflitti per la gestione delle risorse fondamentali, fra cui l’acqua, perché queste risorse sono molto scarse. Ciò è vero sia nel nord del Kenya che nel sud dell’Etiopia. Una delle preoccupazioni più grandi è che gli effetti del progetto Gibe 3 potrebbero risvegliare ed esacerbare dei conflitti latenti, in una zona che si basa su un equilibro economico e ambientale molto precario.

La CRBM sta per lanciare una campagna di pressione e sensibilizzazione contro Gibe 3. In che cosa consisterà questa campagna?
Il 23 marzo (oggi, ndr) verrà lanciata una petizione internazionale insieme ad un cartello di organizzazioni internazionali. Fra queste ci sarà anche Survival International, che ha cominciato a mobilitarsi soprattutto per l’impatto che il progetto avrà sulle comunità locali in Etiopia. La campagna sarà rivolta principalmente al governo etiope, che sta facendo costruire la diga, ma anche alle istituzioni internazionali ed altri possibili finanziatori. A loro chiederemo di non finanziare il progetto. Le firme raccolte sul nostro sito www.stopgibe3.org verranno consegnate ai diversi attori coinvolti, fra cui c’è anche il nostro governo. Organizzeremo una consegna pubblica delle firme al Ministero degli Esteri e alla Banca Europei degli Investimenti.

Cosa vi aspettate come risultato della campagna?
Noi chiediamo a queste istituzioni di non finanziare un disastro e di usare i soldi per finanziare altri progetti. Vogliamo il governo etiope si convinca che questo approccio alla produzione dell’energia è pericoloso e rischioso, ha impatti molto gravi oggi e non porta grandi vantaggi nel futuro. Si potrebbe di certo ragionare su altre modalità di sviluppo energetico.

da Carta

ALESSANDRO MANNARINO - OSSO DI SEPPIA



ALESSANDRO MANNARINO - OSSO DI SEPPIA

Nato da una scatola in cartone
Ha mosso i primi passi alla stazione
Ha preso quattro calci e un po' di sole
Fino alla mensa santa delle suore

Il pomeriggio poi è stato visto
In via Calvario insieme a un po'ro cristo
Miracolava tutte le vecchiette
Per un po' di vino rosso e sigarette

La sera poi è sparito nella nebbia
Lasciando una lacrima di ghiaccio
Sopra ad una vecchia bibbia
Dopo il concerto del primo maggio

[rit.]
Osso di seppia vai non tornare
C'è una città in fondo al mare
Dove i diamanti non valgono niente
E la doccia è automatica
La pelle si lava da sola
Basta fare sogni puliti
E le donne sorridono tutte
E i desideri, quelli più maschi, sono esauditi

E se non era buono per la terra
Che a strade dritte e campi di carbone
Ha preso il mare verso la tempesta
Salpando da uno scoglio alla stazione

Seguito dai pirati della strada
Nascose il tesoro in un isola pedonale
Una borsetta con la scritta "prada"
E un santino con due tette niente male

Ha sfidato i mostri degli abissi
Nel regno sotterraneo della metro
E non gli hanno fatto male le mani dei teppisti
Negli occhi di chi andava a San Pietro

Una sera poi ha chiuso la sua giacca
Al suono dei tacchi di signora
Ha spento gli occhi e ha detto "'orca vacca,"
"Mi sa che ho preso proprio una gran sola!

[rit.]

giovedì 25 marzo 2010

Detenzione amministrativa - Uno storia di brutalità, violenze e violazioni

Per Joy e per tutte le altre vittime di abusi nei centri di detenzione per migranti, a partire da Amin Saber ucciso nel CPTA di Caltanissetta nel 1998 e dalle sei vittime del rogo al Centro Serraino Vulpitta di Trapani nel 1999.

1. Verso la fine dello stato di diritto: un diritto speciale per i migranti

A partire dal 1998, con la introduzione dei centri di permanenza temporanea e di assistenza (CPTA) per gli immigrati in attesa di espulsione, denominati oggi come CIE, Centri di identificazione ed espulsione, si è diffuso anche in Italia un diritto speciale che sanziona gli immigrati irregolari con una forma di detenzione caratterizzata dalla discrezionalità dell’autorità di polizia, ben oltre i casi eccezionali ed urgenti in cui questo è consentito in base all’art. 13 della Costituzione, che stabilisce limiti precisi per la detenzione amministrativa, precisando che, in mancanza di un atto dell’autorità giudiziaria nei soli casi previsti dalla legge, può essere adottata “in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge” con provvedimenti che devono essere comunicati al giudice entro 48 ore e convalidati entro 96 ore “dall’autorità giudiziaria”. Dopo che fino allo scorso anno l’ingresso o la semplice presenza irregolare sul territorio sono stati sanzionati con una misura amministrativa simile al domicilio obbligato, ma che nella sostanza risulta limitativa della libertà personale, oggi la introduzione del rato di immigrazione clandestina e il prolungamento dei tempi di detenzione nei CIE, fino a sei mesi, hanno ridefinito la funzione sanzionatoria di queste strutture ed hanno alimentato un clima di violenze e di abusi che si è poi tradotto in disperate rivolte ed in un numero imprecisato di atti di autolesionismo, fino al suicidio. Si è generalizzato l’uso già denunciato da anni degli psicofarmaci, per tenere tranquilli gli “ospiti” di queste strutture, ed è calato una plumbea cappa di censura su quanto avviene ancora oggi all’interno dei centri, al punto che le denunce dei movimenti antirazzisti e le iniziative di protesta sono state etichettate come atti di sovversione e come tali perseguiti penalmente.

Già nel 1998 si richiamava l’art. 5 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, che avrebbe consentito al legislatore nazionale l’adozione di misure limitative della libertà personale nel caso di arresto o detenzione “legali” di una persona “per impedirle di penetrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione”. Questa disposizione va però interpretata in senso coerente con il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona umana contenuto nelle convenzioni internazionali e nelle norme costituzionali nazionali.
In realtà non sembra possibile qualificare la situazione di trattenimento nei centri CIE come un caso di “arresto o detenzione legale” perché il termine “legale” dovrebbe significare una piena conformità a tutte le leggi di un determinato ordinamento giuridico, ed ai principi del diritto internazionale, senza trascurare il dettato costituzionale. In particolare, tale conformità della detenzione amministrativa alla legge fondamentale deve escludersi nel caso delle norme italiane che nel tempo hanno previsto e regolato prima i CPT, oggi i CIE, affidando per intero alla discrezionalità amministrativa, e dunque alle decisioni di Prefetti e Questori una materia delicata e costituzionalmente rilevante come la libertà personale.

La detenzione amministrativa, così come oggi è praticata in Italia nei CIE, viola gli articoli 3 ( parità di trattamento), 13 ( obbligo di controllo giurisdizionale sui provvedimenti amministrativi limitativi della libertà personale ed eccezionalità di tali provvedimenti) e 24 ( diritto di difesa per tutti, senza possibilità di differenze tra cittadini e stranieri) della Costituzione italiana. Le norme regolamentari e le prassi amministrative sono andate ancora oltre e sono innumerevoli i casi nei quali per effetto di provvedimenti amministrativi poi risultati illegittimi sono stati violati la riserva di legge ( solo la legge può stabilire la condizione giuridica dello straniero) ed il diritto di asilo, riconosciuti dall’art. 10 della Costituzione, rispettivamente al secondo ed al terzo comma.
Malgrado la Corte costituzionali nel 2001 con la sentenza n.105, abbia “salvato” i centri di permanenza temporanea, indicando modalità di applicazione delle norme orientate in senso conforme alla Costituzione, nella generalità dei casi queste prescrizioni vengono ancora oggi disattese. Nonostante il trasferimento delle competenze ai giudici di pace, sono sempre numerosi i casi di mancata convalida dei provvedimenti di trattenimento nei CIE, ed è ancora recentissima una sentenza della Corte di Cassazione che impone l’obbligo di una convalida effettiva con la comparizione dell’interessato e con il rispetto del principio del contraddittorio.( così la sentenza n. 4544 del 24/2/2010). .

La normativa italiana sui centri di identificazione ed espulsione, proprio per le modalità di applicazione da parte delle autorità di polizia, risulta ancora in netto contrasto con il dettato costituzionale. Le procedure amministrative relative al trattenimento rimangono infatti prive di una effettiva sede di ricorso, dal momento che gli immigrati trattenuti nei CIE spesso non vengono neppure condotti davanti al giudice della convalida, in quanto sono “costretti” a rinunciare alla partecipazione all’udienza, ed i difensori non sono messi nelle condizioni di esercitare effettivamente i diritti di difesa previsti dall’art. 24 della Costituzione, perchè non vengono mai avvertiti delle udienze con il necessario anticipo.

Gli immigrati trattenuti nei CIE, malgrado il ricorso contro l’espulsione o il respingimento, possono essere ancora oggi accompagnati in frontiera anche in pendenza del ricorso giurisdizionale. L’art. 24 della Costituzione, che stabilisce “per tutti” e non solo per gli italiani il diritto di far valere in giudizio i propri diritti ed interessi legittimi, è di fatto contraddetto in tutte le fasi del trattenimento nei CIE. In molte sedi i giudici civili ritengono che il ricorso contro il respingimento differito disposto dal Questore sia di competenza dei tribunali amministrativi, mentre i giudici amministrativi ritengono che si tratti di competenza dei giudici ordinari, con la conseguenza che spesso i migranti rimangono privi di un giudice che stabilisca la legittimità dei provvedimenti di allontanamento forzato, presupposto dell’internamento nei CIE.

A causa della cronica carenza di interpreti ufficiali non è garantito neppure il diritto alla comprensione linguistica, talvolta sono proprio gli scafisti o gli immigrati con precedenti penali a svolgere il ruolo di interprete. Generalmente l’immigrato trattenuto nel CIE, durante l’udienza di convalida, non percepisce neppure la differenza tra il giudice, l’avvocato d’ufficio e gli agenti di polizia in borghese (1) Eppure tutte le convenzioni internazionali e in particolare la Raccomandazione n. 1624 del Consiglio d’Europa nel 2003 indicano la necessità di una assistenza linguistica attraverso “interpreti indipendenti” durante i procedimenti di espulsione. La stessa Raccomandazione, ed adesso la direttiva sui rimpatri richiamano la necessità dell’effetto sospensivo ( dell’espulsione) del ricorso giurisdizionale e del patrocinio gratuito per dare effettività ai diritti di difesa.
Nei centri di detenzione amministrativa hanno libero accesso gli agenti diplomatici e consolari dei paesi dai quali si ritiene provengano gli immigrati, con la conseguenza che i potenziali richiedenti asilo sono spesso intimiditi e minacciati di gravi ritorsioni qualora insistano nella volontà di formalizzare la loro richiesta di asilo.

Come è dimostrato da diversi processi in corso e da numerose indagini giornalistiche, sembra che l’art. 13 terzo comma della Costituzione secondo cui “ è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” , non abbia alcun valore all’interno dei CIE (come durante le operazioni di allontanamento forzato degli immigrati irregolari). Nella maggior parte dei casi anche sporgere denuncia è difficilissimo, per paura di ritorsioni e soprattutto perché l’accompagnamento forzato in frontiera costituisce una minaccia tanto grave che consiglia agli immigrati di fare tutto il possibile per evitarlo, incluso il silenzio sulle violenze subite o alle quali si è assistito.

2. Espulsione e detenzione amministrativa nel quadro del Regolamento Schengen
Sulla base di una diffusa giustificazione, fondata anche sugli obblighi di esecuzione degli accordi di Schengen, oggi Regolamento delle frontiere Schengen del 2006, che impongono agli stati aderenti di dare effettiva esecuzione ai provvedimenti di respingimento e di espulsione, si è alimentata anche in Italia una spirale securitaria, come se i centri di detenzione amministrativa costituissero un efficace strumento di contrasto della clandestinità e della criminalità, associata sempre più spesso al diffondersi della condizione di irregolarità dei migranti. Sotto questo punto di vista, al di là della diversità dei toni, le politiche dei governi che si sono succeduti in Italia dal 1998 ad oggi sono state sostanzialmente omogenee, sulla base del comune presupposto della ineliminabilità dei centri di detenzione

Dopo le dichiarazioni favorevoli ai CIE dell’attuale Presidente della Repubblica prima che fosse nominato alla più alta carica dello Stato, si sono moltiplicate da parte di autorevoli rappresentanti dell’attuale opposizione, come Francesco Rutelli e Giannicola Sinisi, già responsabile immigrazione per la Margherita, ed anche da parte di numerosi esponenti del PD, che i CIE non sarebbero eliminabili. Si dovrebbero soltanto graduare i requisiti per il trattenimento, riservando queste strutture “a coloro che sulla base di un provvedimento del prefetto, siano ritenuti pericolosi, per i quali le altre misure siano ritenute inadeguate, ovvero che non hanno osservato le misure di minore afflittività, ovvero hanno violato le prescrizioni impostegli”.

Si è anche sostenuto che la chiusura dei CPT comporterebbe addirittura il ritorno alla legge Martelli del 1990 ” ed alla assolutamente inefficace e puramente simbolica intimazione a lasciare il territorio dello Stato”. Nessuno sembra ricordare che la direttiva comunitaria sui rimpatri prevede forme diverse di rimpatrio volontario prima di ricorrere al rimpatrio forzato, ma in Italia questa direttiva è stata bruciata con la introduzione del reato di immigrazione clandestina. Si può legittimamente dubitare della fondatezza di queste affermazioni, considerando la cifra ormai stabile di stranieri trattenuti in queste strutture, una percentuale assai modesta rispetto a quelli comunque residenti sul nostro territorio in condizioni di irregolarità, ed alla percentuale ancora più modesta di immigrati (attorno alle 6.000 persone, la metà all’incirca degli immigrati che possono essere rinchiusi annualmente nei CIE dopo il prolungamento a sei mesi della detenzione amministrativa), che ogni anno vengono accompagnati effettivamente in frontiera attraverso i centri. Di fronte al fallimento delle politiche migratorie del governo appare quasi patetica la serie di comunicati stampa con i quali il Ministero dell’interno utilizza i principali canali di informazione per rassicurare la popolazione che ogni settimana sono stati accompagnati nei paesi di provenienza tra 40 ed 80 immigrati irregolari. Un numero di persone, non una semplice cifra, sempre in diminuzione (diremmo fortunatamente) se confrontata agli anni precedenti, che conferma il fallimento dell’inasprimento repressivo voluto dal governo Berlusconi e dal ministro Maroni. Dopo gli accordi con la libia anche gli altri paesi hanno rialzato il costo degli accordi di riammissione e pretendono decine di milioni di euro all’anno per accettare la riammissione dei propri cittadini espulsi dall’Italia.
Numeri assai poco significativi rispetto alla consistenza della presenza di migranti in situazione irregolare, come emerge da anni in base ai dati delle regolarizzazioni o delle richieste sulla base dei decreti flussi annuali. Sulla base di questi dati si può stimare che, in assenza di una legge sul diritto di asilo costituzionale e di possibilità effettive di ingresso legale per ricerca di lavoro, il numero degli immigrati presenti in Italia in condizione di irregolarità aumenti annualmente di almeno 150.000 unità. Se dunque si sostiene che i CIE contribuiscono a rendere “effettive” le misure di accompagnamento forzato in frontiera si viene immediatamente smentiti dalle cifre (2).

Gli accordi di Schengen non imponevano peraltro una aberrazione giuridica come i CIE, in quanto si limitavano alla prescrizione che le espulsioni fossero “effettivamente” eseguite. Obiettivo perseguibile anche nel rispetto delle garanzie fondamentali della persona e del diritto di asilo, nell’ambito di procedimenti giurisdizionali , così come imposto dall’art. 13 della Costituzione, ed entro gli stessi termini dettati da quella norma (al massimo 96 ore), a condizione di adottare procedure e strutture idonee al risultato di effettuare un limitato numero di espulsioni. Le attività di polizia finalizzate all’allontanamento forzato degli immigrati potrebbero risultare più efficaci se le espulsioni (ed i respingimenti) fossero comminate per ragioni oggettivamente accertate dal giudice (ad esempio per l’accertamento di una grave responsabilità penale o di una elevata pericolosità sociale) e non per il semplice ingresso clandestino, o in base valutazioni meramente discrezionali dell’autorità di polizia (una discrezionalità spesso priva di motivazione come nel caso del riconoscimento della “presunta” pericolosità sociale). Non si è peraltro riscontrata alcuna valenza dei CIE nel contrasto della criminalità nei territori nei quali sono istituiti, sia per l’elevata percentuale dei migranti rimessi in libertà alla scadenza dei termini.

3. I centri di detenzione amministrativa come strumenti di controllo dell’immigrazione
Se è vero che oltre il 75% degli immigrati oggi regolari in Italia è entrata (e continuerà ad entrare) irregolarmente e se poi, periodicamente, intervengono regolarizzazioni o sanatorie camuffate (come i cd. decreti flussi), le misure di contrasto dell’immigrazione clandestina basate sui centri di detenzione amministrativa non hanno affatto arginato il fenomeno ma sono servite soltanto a creare le condizioni di esclusione e di emarginazione. Anche i mass-media, soprattutto a livello locale, piuttosto che considerare gli immigrati irregolari come vittime di sfruttamento, hanno contribuito ad accrescere stigmatizzazione nei loro confronti, considerando tutti i “clandestini” prima come criminali, adesso come possibili terroristi. Le leggi e le prassi amministrative si sono orientate nella stessa direzione, mentre i controlli di legalità esercitati dalla magistratura sono stati attenuati, svuotati di effetti pratici, avvertiti con insofferenza quando giungevano a censurare l’operato dell’autorità amministrativa (3).
Il controllo giurisdizionale ha assunto un forte connotato politico e l’operato dei giudici di pace, costretti a svolgere il loro lavoro all’interno dei CIE, è rimasto sotto la costante pressione del ministero della giustizia, che in diverse occasioni ha esternato una violenta critica nei confronti di quei giudici che non convalidavano le espulsioni prefettizie o i provvedimenti di trattenimento disposti dal Questore.
Diversi magistrati, a partire dal 2001, sono stati sottoposti ad ispezioni o a procedimenti disciplinari perché avevano osato applicare le leggi in materia di immigrazione in senso conforme alla Costituzione ed ai Trattati internazionali, “disobbedendo” alle linee di politica giudiziaria dettate dal governo, ed in particolare dal Ministro degli interni di concerto con il Ministro della giustizia. Tutti i processi più importanti scaturiti dalla denuncia di abusi subiti all’interno dei CIE sono stati “seguiti” da rappresentanti del Ministero dell’interno che, piuttosto di contribuire alle indagini sugli abusi, ha tentato in tutti i modi di delegittimare le vittime e i giornalisti le associazioni che si erano schierate al loro fianco.

4. La detenzione amministrativa al vaglio della Corte costituzionale
Già la Corte Costituzionale nel 2001 con la sentenza n.105 aveva segnalato la necessità di interpretare la normativa in materia di trattenimento dei migranti irregolari allora vigente in senso conforme alla Costituzione. Per effetto di questa pronuncia i magistrati di Milano che avevano sollevato la questione di costituzionalità delle disposizioni relative all’espulsione con accompagnamento forzato in frontiera ottennero una assoluzione nel procedimento disciplinare che era stato imbastito contro di loro per iniziativa del Ministro della Giustizia.
Secondo la sentenza n. 105 del 2001 “il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea ed assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’art. 13 della Costituzione “ (4).

Successive decisioni degli organi giurisdizionali, che confermavano tale orientamento ed annullavano centinaia di provvedimenti di espulsione o di trattenimento adottati senza rispettare le prescrizioni di legge, suscitavano una violenta reazione da parte delle forze di governo che imputavano ad una parte della magistratura una applicazione eccessivamente “garantista” delle norme in vigore. Gravissimi esempi, questi, di come il potere esecutivo ( già in quel periodo) invadeva l’ambito della giurisdizione, sferrando un pesante attacco allo stato di diritto e ad una delle norme più importanti della Costituzione repubblicana. Questi attacchi si sono intensificati dopo l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini nel 2002, ed oggi dopo l’approvazione dell’ultimo “Pacchetto sicurezza” con la legge 94 del 2009, si è giunti al linciaggio politico e morale di quei magistrati che applicando le leggi in senso conforme ai Trattati internazionali ed alla Costituzione italiana rimettono in libertà immigrati rinchiusi nei centri di detenzione amministrativa.

I successivi provvedimenti del governo Berlusconi, come la legge n.271 del 2004, nel tentativo di “sterilizzare” le censure della Corte Costituzionale, hanno svuotato di fatto i diritti di difesa dei migranti irregolari con una previsione secondo la quale il controllo giurisdizionale (la convalida) del trattenimento si svolge all’interno degli stessi centri, presso i quali devono necessariamente recarsi giudici (adesso i giudici di pace) e gli avvocati (più spesso di ufficio).

Dopo le sentenze n. 222 e 223 del 2004 della Corte Costituzionale, il successivo intervento del legislatore han prodotto “una drastica riduzione degli spazi di intervento della difesa e di interpretazione dei giudici”. Viene ancora trascurato il fondamentale rilievo della Corte secondo la quale “ per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia dell’immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi ai flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale” (così, sulla scorta della precedente sentenza n. 105 del 2001, la sentenza n. 222 del 2004).

Con la legge 271 del 2004 si è cercato al contrario di limitare il ruolo di controllo dell’autorità giurisdizionale, trasferendo la competenza per la convalida dei provvedimenti di trattenimento ai giudici di pace, stabilendo che le convalide vengano effettuate all’interno dei CIE, alla presenza (spesso silente) del difensore d’ufficio, e stabilendo la competenza del giudice di pace del luogo del CIE anche in materia di espulsione e respingimento, anche se questi provvedimenti sono adottati da autorità amministrative lontane migliaia di chilometri (5).

Mentre nei primi mesi di applicazione della nuova normativa si era rilevata una sorprendente capacità di tenuta “costituzionale” di una parte dei giudici di pace rispetto alle pressioni subite dalle autorità di polizia per effettuare le convalide in modo meramente “cartaceo”, oggi molti giudici di pace “ribelli” sono stati rimossi e i nuovi giudici nominati al loro posto si limitano ad esaminare solo formalmente i provvedimenti di polizia sottoposti al loro controllo.
Alcuni giudici di pace hanno comunque sollevato la questione di incostituzionalità della normativa che assegna loro la convalida di provvedimenti restrittivi della libertà personale, provvedimenti che avrebbero dovuto restare di competenza dei magistrati togati, maggiormente garantiti dalla normativa dell’ordinamento giudiziario (e dalla Costituzione) in materia di indipendenza, ma la Corte Costituzionale non si è pronunciata nel merito di queste eccezioni..

Risulta sempre più grave la violazione del diritto di difesa degli immigrati trattenuti nei centri di detenzione amministrativa, una frattura irreversibile con il sistema delle garanzie dettato dall’art. 24 della Costituzione, la base per un diritto speciale applicabile solo agli stranieri irregolari ( in realtà a tutti gli stranieri, a causa dell’estrema facilità con la quale oggi si può perdere il permesso di soggiorno).
Spesso all’immigrato trattenuto nel centro non si comunica neppure la possibilità di nominare un difensore di fiducia o di accedere alla procedura di asilo. In molti casi le delegazioni parlamentari hanno rilevato la mancata tempestiva consegna (notifica) dei provvedimenti amministrativi di trattenimento e delle relative convalide.

Non si contano più i casi di percosse e violenze di ogni genere perpetrate dalle forze di polizia ai danni degli immigrati trattenuti nei centri, non appena si sgretola il muro di omertà costruito dalle forze dell’ordine e dalle associazioni che cogestiscono queste strutture, ma spesso i responsabili rimangono impuniti, o vengono assolti in appello, o ancora condannati a pene insignificanti, basti pensare al caso del Regina Pacis di Lecce, alcuni anni fa.

5. La privatizzazione delle frontiere interne
A fronte delle statistiche sulla modesta percentuale di immigrati effettivamente allontanati tramite i centri di permanenza temporanea , queste strutture enormemente dispendiose, che sono costate alla collettività centinaia di milioni di euro, come rilevato a partire dal 2003 anche dalla Corte dei Conti nelle sue relazioni annuali, dimostrano il fallimento delle politiche espulsive basate sul trattenimento forzato(6) .Ma adesso la politica dell’emergenza e l’affidamento degli appalti con procedure da protezione civile ha attenuato i controlli sulla legittimità delle procedure di attivazione e di esercizio dei CIE . Soprattutto dopo il prolungamento della detenzione amministrativa a sei mesi, l’intera capienza dei centri di detenzione italiani non consentirebbe di espellere che una minima parte degli immigrati irregolari presenti sul nostro territorio, stimato oggi in diverse centinaia di migliaia, né appare praticabile la proposta di una loro ulteriore proliferazione che avrebbe costi economici e sociali incalcolabili.
L’emergenza immigrazione non comporta soltanto la violazione dei diritti fondamentali della persona migrante ma si traduce anche in procedure amministrative ai limiti della legalità e dai costi sempre più elevati. La periodica reiterazione dei decreti che stabiliscono la situazione di emergenza in materia di immigrazione consente ai prefetti di allacciare rapporti convenzionali a trattativa “riservata” con ditte di fiducia dell’amministrazione.. Associazioni private di diverso tipo cogestiscono i centri di permanenza temporanea con costi notevolmente diversi a seconda del territorio (dai 35 ai 90 euro al giorno per immigrato), con criteri così poco trasparenti che la Corte dei Conti nelle sue ultime relazioni annuali aveva sollevato numerosi dubbi sui criteri di spesa .

6. Degrado della dignità umana ed abusi nei CIE.
Non si possono ignorare neppure le condizioni igienico sanitarie in cui sono quelli che vengono definiti come centri di identificazione ed espulsione nei quali si può restare rinchiusi anche per sei mesi,,strutture che per legge necessiterebbero di un apposito decreto istitutivo sulla base di requisiti assai rigorosi.
Le ultime visite effettuate da delegazioni di parlamentari o da agenzie umanitarie, al di là dei piccoli sotterfugi posti in essere dalle autorità che gestivano i centri per mostrare una realtà diversa da quella quotidiana, hanno documentato la quasi totale assenza di interpreti e di servizi di mediazione, oltre che la difficoltà di ricevere informazioni sul diritto di asilo o di presentare la relativa istanza; e malgrado eclatanti denunce giornalistiche sono ancora riscontrabili condizioni igieniche scandalose, e regimi detentivi ai limiti del trattamento disumano e degradante (sanzionato dalla Convenzione Europea a garanzia dei diritti dell’uomo).

Dopo anni di denunce da parte delle associazioni indipendenti il rapporto sui centri di permanenza temporanea presentato nel 2009 dalla associazione Medici senza frontiere (disponibile nel sito internet della stessa organizzazione) ha documentato inconfutabilmente la fondatezza delle accuse rivolte al sistema dei centri di detenzione amministrativa. Le stesse accuse sono state documentate e confermate da visite del Comitato per la prevenzione della tortura, dal Comitato diritti umani delle Nazioni Unite e dalla Federazione internazionale dei diritti dell’uomo ( FIDH), oltre che dal Rapporto annuale di Amnesty International(7). Sono ancora in corso alcuni processi penali contro responsabili ed operatori di queste strutture, rinviati a giudizio per gravi abusi commessi ai danni degli immigrati trattenuti nei CIE. . In troppi casi le donne trattenute nei centri di permanenza temporanea vengono “trattate” da personale maschile, con gravi rischi di violenza e pressioni di ogni genere(8). La vicenda di Joy e delle altre immigrate detenute trattenute nel centro di identificazione ed espulsione di Milano, in via Corelli, ed esposte alla minaccia continua del ricatto sessuale non è affatto un episodio isolato e rischia di rimanere ancora una volta senza alcuna sanzione alimentando negli operatori dei centri un pericoloso senso di impunità.

7. Detenzione amministrativa e carcere: un percorso circolare senza vie di uscita.
Al di là dei centri di detenzione amministrativa, l’aumento delle sanzioni penali previste a carico dei migranti irregolari, soprattutto dopo i pacchetti sicurezza e la introduzione del rato di immigrazione clandestina, con pene che vanno ormai ben oltre i criteri della proporzionalità e della adeguatezza, impongono di considerare il circuito CIE-carcere come un ciclo unico di sanzione della mera presenza irregolare sul territorio, dopo il mancato rispetto del primo ordine di espulsione. La detenzione amministrativa si rivela dunque come una sanzione vera e propria e non uno strumento finalizzato a garantire l’effettività dell’espulsione. In questa direzione i centri di permanenza temporanea si sono rivelati fallimentari e per questa ragione i nuovi accordi di riammissione prevedono forme estremamente rapide di allontanamento forzato degli immigrati trovati sul territorio italiano in condizioni di irregolarità, senza trattenimento e senza un effettivo controllo giurisdizionale. I governanti europei si sono ormai accorti della impossibilità di contrastare l’immigrazione dei cd.”clandestini” attraverso lo strumento dei centri di detenzione, ricorrendo a procedure sommarie e collettive di allontanamento forzato in frontiera sulla base degli accordi di riammissione. Si evita così il “transito” in strutture detentive che comunque impongono un sia pur minimo controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’operato delle forze di polizia.
Corrispondono a queste scelte di politica della sicurezza le nuove prassi amministrative adottate dalle autorità italiane che procedono a rastrellamenti sul territorio alla ricerca di gruppi predeterminati di immigrati irregolari da accompagnare in frontiera, con l’espulsione immediata dei cd. clandestini avvalendosi di “voli charter congiunti” organizzati in poche ore per accelerare e rendere ancora più “efficaci” e meno costose le procedure di rimpatrio forzato. A Milano il Sindaco Moratti è giunto a chiedere al governo l’adozione di un decreto legge per estendere anche al reato di immigrazione clandestina, ricordiamo una mera contravvenzione, la possibilità di perquisizioni senza mandato dell’autorità giudiziaria. Una richiesta che strappa ancora una volta l’art.13 della nostra Costituzione.

In altri casi si creano strutture detentive all’interno delle zone portuali e degli aeroporti per trattenere indiscriminatamente quanti arrivano irregolarmente e sono dunque destinatari di un “respingimento in frontiera”. In questo caso il trattenimento amministrativo si svolge al di fuori di qualsiasi garanzia procedurale, in luoghi inaccessibili (anche per i familiari, per gli interpreti e per gli assistenti legali), dove possono essere impunemente violati anche i diritti fondamentali della persona umana. Ma su tutto questo bisognerebbe tacere, forse neppure esercitare il diritto di critica,. Denunciare quanto avviene nei centri di detenzione amministrativa viene considerato una “diffamazione”, se non un aperto incitamento alla sovversione, secondo un preciso “avvertimento” lanciato da una parte della magistratura in sintonia con i vertici di governo, in risposta alle denunce degli abusi commessi nel centro di detenzione italiani.

8. Proposte per il superamento della detenzione amministrativa Malgrado il prevalere delle politiche seuritarie, a fronte del loro evidente fallimento, a parte il vantaggio politico degli “imprenditori della paura”, non si può rinunciare a tracciare una prospettiva di una nuova politica migratoria che comprenda il superamento dei CIE.

La criminalità, il traffico di esseri umani e il terrorismo si sconfiggono con azioni mirate, con la identificazione certa dei sospetti, con l’inclusione ed il coinvolgimento delle comunità degli immigrati . L’internamento in strutture come i centri di identificazione ed espulsione, oggi fino ad un periodo massimo di sei mesi, non sono più funzionali all’attribuzione di identità ed all’esecuzione più rapida dell’espulsione, ma servono solo alimentare esclusione sociale, clandestinità e frustrazione.

L’unica garanzia di sicurezza, per una società democratica, sarebbe costituita dall’adozione di procedure che comportino comunque una identificazione certa dei cd. “clandestini”, agevolando la legalizzazione permanente (e dunque la emersione dalla clandestinità anche in seguito ad autodenuncia) di quanti si trovano già nel nostro territorio e possono vantare una situazione di integrazione sociale ( ad esempio una residenza stabile ed un rapporto di lavoro).

La chiusura dei centri di detenzione amministrativa, con una diversa e più selettiva politica delle espulsioni, non impedirebbe il rispetto degli accordi di Schengen, a condizione di svuotare le sacche di clandestinità con la “regolarizzazione permanente” e con la concreta possibilità di un rientro nella legalità per coloro che sono soltanto responsabili di violazioni amministrative. L’effettività delle espulsioni può essere comunque garantita ricorrendo alla misura del domicilio obbligato per la generalità degli immigrati irregolari, prevedendo nel tempo ipotesi di rientro nella condizione di regolarità e riservando ai casi più gravi, nei limiti del dettato costituzionale, la limitazione della libertà personale.
Bisogna restituire una valenza effettiva alla previsione costituzionale che stabilisce la riserva di legge nella disciplina della condizione giuridica degli immigrati. Per questo non basta modificare le leggi in materia di immigrazione e asilo che oggi concedono margini incontrollabili alla discrezionalità dell’autorità amministrativa sottraendola ad un effettivo controllo giurisdizionale.
Occorre abrogare per intero la legge Bossi-Fini del 2002, senza inutili finzioni nominalistiche, modificando sostanzialmente il Testo Unico sull’immigrazione del 1998 nella parte relativa al controllo degli ingressi, ai casi di respingimento ed espulsione, ai centri di permanenza temporanea.
Una politica migratoria puramente repressiva basata sulle misure di detenzione amministrativa e di allontanamento forzato non può che produrre una reazione violenta che stronca qualsiasi intervento di mediazione ed alimenta il conflitto sociale.
Una disciplina efficace delle espulsioni potrà realizzarsi anche senza la detenzione amministrativa nei CIE, ovvero nei cd. centri di accoglienza (come li continua a chiamare la stampa), siano centri di identificazione (CID) o centri “polifunzionali”. Come è confermato anche dalla Direttiva 2003/9/CE e dal Regolamento Dublino 343 del 2003, le norme internazionali o comunitarie non impongono la privazione generalizzata della libertà personale degli immigrati irregolari e dei richiedenti asilo, ma solo che i provvedimenti di respingimento e di espulsione siano effettivamente eseguiti, conformemente alla legge nazionale . Questo obiettivo è perseguibile più efficacemente con i rimpatri volontari, con misure di allontanamento forzato che non precludano un successivo ingresso regolare e soprattutto con una riduzione dell’area della irregolarità attraverso le procedure della regolarizzazione permanente. Le espulsioni ed i respingimenti devono esser comunque sottoposti ad un diffuso controllo giurisdizionale, senza colpire le vittime del traffico ma contrastando le grandi agenzie criminali nei luoghi dove queste prosperano indisturbate (a Malta ad esempio) con la copertura di quei governi che poi stipulano accordi di riammissione con l’Italia.

Vanno riconosciuti a tutti gli immigrati, regolari ed irregolari, come già prescrive l’art. 2 del T.U. n. 286 del 1998, i diritti fondamentali della persona umana sanciti da tutte le Costituzioni moderne. La detenzione amministrativa deve essere ridotta ai casi e tempi conformi all’attuale dettato costituzionale. Se si vuole davvero garantire la sicurezza e l’ordine pubblico occorre praticare politiche migratorie autenticamente inclusive, combattere l’emarginazione sociale e la discriminazione a base razziale, riconoscere i diritti di cittadinanza sulla base della residenza e non della nazionalità.

Note:
(1) Sulla difficoltà di un effettivo esercizio del diritto di difesa all’interno dei CPT, cfr. Sossi (2002).
(2) Per i dati relativamente alla presenza di immigrati irregolari in Italia con importanti informazioni sulle percentuali di immigrati trattenuti nei CPT effettivamente rimpatriati, si veda il Dossier statistico della Caritas per il 2005 in www. Dossier immigrazione.it e in cartaceo pubblicato dal Centro studi e ricerche IDOS, 2005. Si può calcolare dai dati del Dossier della Caritas che dei circa 15.000 immigrati trattenuti in un anno (precisamente 15.647 nel 2004) nei centri di detenzione italiana soltanto la metà ( appena 7.895) venga effettivamente accompagnata in frontiera. Tutti gli altri vengono rimessi in libertà per la scadenza del termine di trattamento o, in un numero più modesto di casi, per l’ammissione alla procedura di asilo o per l’annullamento dell’espulsione da parte dell’autorità giudiziaria.
(3) Sul rapporto tra legge e prassi amministrativa nella disciplina in materia di immigrazione ed asilo, con particolare riferimento alla detenzione amministrativa, vedi Bonetti (2004:572ss). Per una riflessione sulla riserva di giurisdizione con riguardo alla condizione giuridica dei migranti ed ai nuovi profili della cittadinanza, si rinvia a Ferrajoli (2004:179ss).
(4) Sulla sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale si rinvia a Bascherini (2001,1687).
(5) Sulla nuova legge 271 del 2004 si rinvia a Caputo, Pepino (2004, 13).
(6) La relazione della Corte dei Conti è reperibile nel sito www.cestim.it e nell’archivio di Sergio Briguglio
(7) I rapporti citati nel testo sono reperibili nel sito www.meltingpot.org
(8) Sulle condizioni di trattenimento all’interno dei centri di detenzione italiani si vedano i rapporti di Medici senza frontiere nel sito www.msf.org Si vedano anche le testimonianze del Dossier sul centro di permanenza temporanea serraino Vulpitta di Trapani, nel sito www.cestim.it, alla sezione “centri di permanenza temporanea”

da GlobalProject

Straniera nel suo paese

Igiaba Scego è una scrittrice italiana d’origine somala. Questa è la prima puntata della sua serie Nuovi cittadini.

Queenia Pereira De Oliveira non ha la cittadinanza ma vive in Italia da quando è nata. Qui ha fatto le scuole, ha conosciuto i suoi amici e si è formata come persona. Suo padre è nigeriano, la madre è brasiliana. Non ha la cittadinanza perché la legge non accoglie i figli degli immigrati che, come lei, sono arrivati in Italia da piccoli.

Queenia vorrebbe pensare al futuro ma la legge glielo impedisce. Quando ha compiuto 18 anni ha capito di essere una straniera in Italia. Su Facebook scrive: “Vivere nel mio paese legata a un permesso di soggiorno è come uscire di casa con un paio di chiavi, sapendo che qualcuno è pronto a cambiare la serratura (di casa mia) e lasciarmi fuori”.

Ai ragazzi come Queenia lo stato italiano nega la possibilità d’iscriversi a un albo professionale, di fare un viaggio di lavoro all’estero, di andare a studiare in un altro paese. Sono imprigionati nel loro paese dal permesso di soggiorno.

La cittadinanza in Italia si trasmette secondo il principio dello ius sanguinis, da genitore a figlio. Si è italiani se si ha un genitore (o un antenato) italiano e si riesce a dimostrare il rapporto di parentela. Chi è nato all’estero e non sa niente dell’Italia può avere la cittadinanza perché il suo trisavolo era friulano o calabrese. Invece ragazzi di origine cinese, somala, albanese che sono cresciuti qui, sulla carta sono considerati degli stranieri.

Una proposta bipartisan
La legge è anomala. Se ne sono accorti i parlamentari Andrea Sarubbi (Partito democratico) e Fabio Granata (Popolo della libertà), che stanno portando avanti un’iniziativa bipartisan sulle seconde generazioni.

Nel 2009 hanno presentato un testo che propone il passaggio dal principio dello ius sanguinis a quello dello ius soli, garantendo la cittadinanza ai figli di immigrati regolari che risiedono in Italia da cinque anni. “Stiamo cercando di portare i nuovi italiani al centro del dibattito politico”, spiega Sarubbi. “Nelle amministrazioni locali sono stati approvati degli ordini del giorno che propongono di dare la cittadinanza ai minori”.

Gli impedimenti non sono ideologici: purtroppo è solo una questione di convenienza politica. Intanto Queenia studia per laurearsi. Ma finita l’università, che scriverà sul permesso di soggiorno? Igiaba Scego

da Internazionale

mercoledì 24 marzo 2010

Carlotto: attenti alla Tav, l’ecomostro fa gola alla mafiano tav


Una follia, una devastazione del territorio: va assolutamente impedita». Massimo Carlotto, autore di tanti noir politici sulla corruzione del nord-est, interviene in valle di Susa contro l’alta velocità Torino-Lione, ospite del Valsusa Filmfest dopo Giorgio Diritti e Erri De Luca. E lancia un’accusa: «Attenti, dietro alle grandi opere c’è sempre la mafia. Non quella di Provenzano, che è la preistoria della mafia. Ma la mafia di oggi, che ha bisogno di investire i proventi delle sue attività illecite, col decisivo appoggio di settori del mondo imprenditoriale, finanziario e politico. Per i capitali mafiosi, i grandi appalti sono l’investimento più sicuro».
Al Teatro Fassino di Avigliana, il 20 marzo, Carlotto ha intrattenuto il pubblico per due ore, accompagnato dai fiati jazz di Maurizio Camardi e dell’intenso intervento attoriale di Loris Contarini, voce recitante nello spettacolo “L’Italia ai tempi de L’amore del bandito”, per raccontare lo strazio degli operai dell’amianto, condannati a morte dal business senza scrupoli dell’industria degli anni ’60 e ’70: uomini che ora non avranno più neppure una giustizia postuma, dice Carlotto, «perché la nuova legge cancellerà tutti quei processi: una ferita che non si rimarginerà mai».

Ambiente, salute, tutela dei lavoratori, consumo del territorio. E grandi opere. Dalla contestatissima Torino-Lione alle arterie autostradali del nord-est. «Alla presidenza del Veneto ora arriverà la Lega, con l’attuale ministro Luca Zaia che prima prometteva barricate contro le centrali nucleari ma adesso dice: parliamone. Zaia – aggiunge Carlotto – predica l’agricoltura identitaria, ma come ministro ha fatto un accordo con la McDonald’s per l’hamburger McItaly. Il governatore uscente, Giancarlo Galan, vuole in cambio il ministero delle infrastrutture: speriamo che non lo ottenga, perché Galan è il più micidiale devastatore in azione in Italia, un perfetto serial killer del territorio».

Stop al consumo di terra: parola d’ordine fatta propria dall’inventore dell’Alligatore, detective protagonista di tanti fortunatissimi noir, nei quali Carlotto si incarica di “smascherare” la miscela esplosiva, criminale e affaristica, che produce asfalto e cemento con la connivenza di politica, banche e imprese, a spese del territorio sempre più impoverito. «Siamo pieni di capannoni vuoti, messi in saldo e comprati dai cinesi. La gente pensa che i cantieri siano una risposta positiva alla crisi, invece le nuove infrastrutture servono solo a chi le costruisce. E sapete chi ci guadagna di più?» Indovinato: «La mafia».

Le nuove mafie, naturalmente, quelle su cui i giornali tacciono. Esempi? Ground Zero a New York, il più grande cantiere edile del mondo. «Sapete chi ricostruirà le Torri Gemelle? La famiglia Gambino». O il Ponte sullo Stretto: «E’ successo che la ‘ndrangheta ha battuto Cosa Nostra, che adesso si chiama Stidda, e ha occupato militarmente Messina. I siciliani resistono, ma la guerra la combattono lontano dalle telecamere italiane, in Canada. E intanto hanno perso il controllo dell’affare del secolo, che è in mano ai calabresi, i quali per il narcotraffico sono in affari coi colombiani e, anche se non se ne parla, con la nuova mafia vincente europea: quella del Kosovo».

Col piglio del criminologo, lo scrittore di gialli-verità traccia uno scenario inquietante: «Il Kosovo è un narco-Stato senza legge, retto da tre famiglie. L’Uck, presentata come esercito di liberazione, è in realtà il braccio armato della mafia kosovara, che smista in Europa la droga: sia l’eroina che proviene dall’Afghanistan, sia la coca dei cartelli colombiani, grazie all’alleanza strategica con la ‘ndrangheta». Un’emergenza che sui media nessuno denuncia, anche se «la Germania è indifesa di fronte alla mafia calabrese, perché non ha ancora neppure il reato di associazione mafiosa nel suo codice penale», mentre i kosovari «sono ormai padroni del nord-est e di mezza Europa, fino alla Norvegia». Qualcuno li ha aiutati, accusa lo scrittore, aggiornando sotto il profilo criminale la geopolitica europea: «C’era da fermare la mafia russa, e si è puntato sul Kosovo. Questa è la realtà con cui fare i conti».

Il business criminale? «Innanzitutto riciclaggio illegale dei rifiuti e sofisticazioni alimentari. Poi vengono droga, armi, prostituzione». Cifre da capogiro. Dove investirle? «La globalizzazione dei mercati ha agevolato il riciclaggio: il Mediterraneo è diventato l’area perfetta», la più grande “lavanderia” mondiale di soldi sporchi. «Il miglior affare, per i cartelli criminali, è rappresentato dalle grandi opere: un investimento sicuro. Per questo, nessuna delle grandi infrastrutture è al riparo dal pericolo dell’infiltrazione mafiosa». Che da 15 anni è divenuta organica: «Le mafie non potrebbero agire impunemente su questo terreno se non avessero dei collegamenti ormai di fatto formali, continuativi, con ampi settori dell’imprenditoria, della finanza e della politica».

La Torino-Lione? Non fa eccezione, dice lo scrittore veneto, che aderisce apertamente al movimento No-Tav: «Le grandi infrastrutture divorano il territorio ma non servono assolutamente a nulla, sono solo grandi affari, che arricchiscono i potentati». C’è da combattere una battaglia civile, avverte Carlotto: «Dobbiamo impedire una devastazione che diverrebbe definitiva. Una battaglia da vincere, a tutti i costi, per invertire la tendenza».

Dal Veneto alla Campania, dalla Sicilia alla valle di Susa, c’è un’Italia che si organizza in movimenti di resistenza, «ovunque contrastati con la stessa durezza da parte della polizia: ormai la tutela del territorio è ridotta a una questione di ordine pubblico, chi lotta per difendere la sua terra viene considerato come un eversore». Motivo in più, dice Carlotto, per resistere: «Bisogna trovare la formula per unire tutti i movimenti, sapendo che da questa battaglia dipende il nostro futuro e quello dei nostri figli, che al territorio chiedono benessere e salute». E cita una battuta di una delle Madri di Plaza del Majo: «L’unica battaglia persa è quella che si abbandona».

Come Erri De Luca, Massimo Carlotto scende in campo direttamente, da romanziere: «Io credo che uno scrittore debba attraversare il suo tempo, occupandosene». E visto che i media «non raccontano più le trasformazioni della criminalità in Italia, i suoi collegamenti e le collusioni con alcuni ambienti», qualcuno dovrà pur farlo. Da “Gomorra” ai noir di Lucarelli e De Cataldo, si dipana il “romanzo criminale” dei retroscena italiani, di cui “l’Alligatore” del nord-est è uno degli indagatori più acuti. Obiettivo? «Svelare quello che la gente non sa». Libri che smascherano la corruzione e gli intrecci pericolosi all’ombra del potere: «Oggi – dice Carlotto – si sta creando una comunità di lettori che pretende questo tipo di romanzo, perché racconta quelle realtà che, appunto, non leggono sui giornali e non vedono in televisione».

da: www.libreidee.org

da Infoaut