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lunedì 28 giugno 2010

L’acqua entra in borsa

Il titolo sarà gestito dalla multiutility Iride guidata da Ettore Gotti Tedeschi indagato, e poi prosciolto, durante il processo Parmalat.

L’accordo è fatto. L’acqua volerà in borsa e la gestione sarà affidata a Iride, una multiutility, nata dalla fusione di tre società. Gli azionisti principali sono i comuni di Genova e Torino, ma l’accordo porta anche la firma di F2i: una società italiana titolare del fondo per gli investimenti nel settore delle infrastrutture a cui partecipano istituti bancari, casse previdenziali, fondazioni, assicurazioni, istituzioni finanziarie dello Stato, sponsor e management.

Il presidente si chiama Ettore Gotti Tedeschi, vecchio banchiere ora a capo dello Ior, la Banca Vaticana, che è stato prosciolto dopo esser stato scritto tra 71 indagati del processo Parmalat. L’amministratore delegato di F2i è Vito Gamberale, una carriera tra Autostrade Italia, Eni, Banca Italia, Benetton, e un arresto durante Mani Pulite.

Gamberale venne poi assolto dall’accusa di abuso d’ufficio e concussione. Ora, è lui l’uomo che guida l’accordo. Il piano per la privatizzazione del servizio idrico ruota in parte intorno alla Spa di Tedeschi e all’appoggio che questa riceve dalla San Giacomo srl, una società dal nome promettente. Lo scopo della manovra: creare un polo idrico industriale attraverso il delisting: la cancellazione del titolo azionario dal listino del mercato organizzato e la fusione con Mediterranea delle acque, l’azienda che gestisce le acque potabili di Piemonte, Liguria, Emilia e Sicilia.

Solo allora, Iride potrebbe compiere un altro passo e accorpare Enìa, la multiservizi emiliana nata dalla fusione delle Spa della provincia di Reggio Emilia, Parma e Piacenza. Insieme i due colossi delineerebbero un asse “padano occidentale” con 4 miliardi di capitalizzazione di borsa e 2,5 milioni di potenziali “clienti” che, tra Palermo ed Enna, si comprano come caramelle. Le conseguenze di ciò saranno visibili non solo al Sud, dove il controllo dei beni comuni ha già originato scontri tra clan, ma anche al Nord e al Centro dove la quotazione in borsa del servizio idrico stimolerà una famelica ricerca di profitto che farà dell’acqua un privilegio.

In un documento del 1973 si rilevava l’esistenza di 1.469 pozzi che attingevano alla falda freatica della fascia costiera italiana. Acque destinate ad essere inserite nell’elenco delle risorse pubbliche ma che ancora oggi sono lasciate nelle mani nei “guardiani” e dei “fontanieri” meridionali. Eppure, il Sud soffre la sete, decine di dighe sono incomplete da oltre vent’anni mentre altre hanno condotte mai collaudate o a “colabrodo”, che causano perdite idriche del 50 per cento.

I 3 enti regionali, 3 aziende municipalizzate, 2 società miste, 19 società private, 11 consorzi di bonifica, 284 gestioni comunali e 400 consorzi fra utenti predisposti alla gestione del servizio idrico di queste zone hanno fallito il loro compito. Colpa delle amministrazioni che si sono rivelate incapaci di tutelare i beni comuni, dei i governi che, anche su pressione dell’Ue, hanno frettolosamente cercato soluzioni nel settore privato. Tutta colpa del clientelismo che, in Italia, grava sulla gestione di gran parte delle opere pubbliche. Prima di cedere non valeva la pena tentare di sanare il settore pubblico? E se i manager dell’acqua si rivelassero disonesti?

Allora, il prezzo della privatizzazione salirebbe alle stelle. Non si tratta di un’affermazione figlia di un anticonfromismo da quattro soldi. Ce ne renderanno conto quando il consigliere municipale di turno non sarà più in grado di elargire informazioni sull’acqua che esce dai rubinetti case, degli ospedali e delle scuole e quando, per risparmiare, sarà meglio non lavarsi le mani. E se ne accorgeranno anche i Comuni non appena dovranno pubblicamente rinunciare al ruolo di “imprenditori-gestori” di beni per agire da veri azionisti. Perché, per dirla con Massimo Mucchetti sul Corriere, ricorrendo al privato per nascondere i difetti del pubblico, “il Comune non sarà più responsabile e garante di un servizio e di un diritto per tutti i cittadini ma solo uno dei tanti soci che attende l’assemblea di aprile per sapere quanto incasserà sotto forma di dividendo”.

da Indymedia

Psicologia da pagliacci


di Augusto Illuminati

«Un problema psicologico». Questo era la crisi per Berlusconi, questo è la disfatta sudafricana per Lippi. Stessa faccia, stessa razza. Mai come adesso il fallimento politico è una metafora di quello sportivo (e viceversa, ma quella sarebbe banale).

Con la crisi, un Berlusconi non ce lo possiamo più permettere. Faticosamente il ceto dirigente italiano se ne sta rendendo conto e opera con cautela per sganciarsene.

Dal momento, però, che non sa come uscire dalla crisi –un limite comune a tutti gli attori strategici europei– non riesce a decidere né i tempi né i modi del ricambio. Cerca tuttavia di apprestarne gli strumenti tecnici e ideologici, con il grosso problema di non aver ancora trovata una leadership sostitutiva, per di più dopo anni di esasperata personalizzazione della politica: un logo servirebbe e come!
Dal momento, però, che non sa come uscire dalla crisi –un limite comune a tutti gli attori strategici europei– non riesce a decidere né i tempi né i modi del ricambio. Cerca tuttavia di apprestarne gli strumenti tecnici e ideologici, con il grosso problema di non aver ancora trovata una leadership sostitutiva, per di più dopo anni di esasperata personalizzazione della politica: un logo servirebbe e come!


Che Berlusconi, al momento in vacanza-premio, perda colpi è lampante: bloccato di fatto sulla legge per le intercettazioni, sputtanato sul legittimo impedimento dalla goffaggine di Brancher, silente sulla manovra economica (quando non scivoli in balle stratosferiche come l’Italia paese più ricco d’Europa o il presunto veto alla tassazione europea sulla finanza), oscurato all’inutile G8-G20 in Canada, incastrato fra Napolitano, Bossi e Fini sull’azione di governo e nel contempo impossibilitato a indire elezioni anticipate, il pagliaccio di Arcore cerca affannosamente un’occasione di rilancio che peraltro non arresterebbe il declino irreversibile della sua strategia politica e mediatica. Il quando della sua caduta è diventato meno rilevante del la configurazione del dopo Berlusconi. I concorrenti alla successione o i kingmakers sono decisamente più inquietanti del leader al tramonto. L’aria è quella sbrigativa del «dopo-Cristo» evocato da Marchionne in abbigliamento casual e ghigno decisionista, del Fini in kippà proclamante prioritaria la sicurezza di Israele, dell’uscita dal Novecento ideologico e scioperato cui aspirano Tremonti, Marcegaglia e Sacconi. Il contenuto: la rapida correzione dei conti pubblici a costo di frenare il Pil, una scelta di austerità piuttosto che di rilancio dello sviluppo –l’inverso della linea Usa e delle proposte di Soros e Krugman. Il tutto garantito dalla debolezza del mercato del lavoro causa disoccupazione. Per fortuna, ci sono troppi galli a cantare. Per di più con un contorno di polli starnazzanti, economisti rintronati, colonnelli aennini alla sbando, ladroni colti con il sorcio in bocca, giornalisti ahimé senza bavaglio, capezzoni in cerca del prossimo padrone.


Il contorno clownesco del “ricambio”, ben poco mutato rispetto all’èra berlusconiana, non deve offuscare la sostanziale pericolosità di un’operazione dei poteri forti che è economicamente dissennata quanto socialmente devastante. Senza contare gli effetti politici su forze di opposizione che, anch’esse prive di un leaader, anelano disperatamente a ritrovare un ruolo qualsiasi, a costo di rovinare ulteriormente il loro radicamento. Esse infatti non sembrano affatto prepararsi bene al nuovo round. Non ci soffermiamo tanto sul patetico annaspare del Pd intorno a scadenze parlamentari superficialmente ripensate (intercettazioni e riforma universitaria) e accadimenti quali Pomigliano, mancati oppure occasione di divisioni e pessime profezie, quanto su strategie che si vorrebbero più radicali e di base. In un vibrante articolo sul manifesto del 26 giugno Marco Revelli, con accenti quasi weberiani traccia un elogio nostalgico del confronto conflittuale “moderno” fra imprenditore produttivo e lavoratore fordista, depositari dell’innovazione schumpeteriana e della dignità di classe, che si rispettano a vicenda perché innanzi tutto rispettano se stessi. Che Marchionne svilisca l’epica industriale aggrappandosi ai quaquaraquà del sindacalismo giallo è probabile, ma l’intelligente resistenza di Pomigliano andrebbe forse letta non come baluardo residuale dell’etica del lavoro, piuttosto come aggressivo opportunismo post-fordista.

Di questo ha paura la Fiat, che non se la sente di affidare alle schiene ossequiose dei sindacati firmatari la «nuova Panda schiavi in mano» –secondo il beffardo cartello innalzato nello sciopero del 25 giugno. Non paventa il ritorno della modernità industriale, del Novecento keynesiano, dell’avanti-Cristo, magari del lavoro e persona, per dirla con Tronti, del rispetto dell’uomo e della promozione del lavoro, per dirla con il cardinal Bertone, ma della guerriglia materiale, dell’inaffidabilità che è il prezzo della precarizzazione, del declassamento sistemico delle competenze. Siamo tuffati nel mondo di Sacconi e Gelmini, del regresso ai lavori umili e all’apprendistato (lo stesso fanno in Cina con la forza lavoro intellettuale inoccupabile), ma allora ha ragione Sergio Bologna a gettar luce sul degrado dei rapporti di forza e, sì, della dignità umana che consegue, inavvertito da un paio di decenni, dalla flessibilizzazione del lavoro. Di qui deve partire la resistenza e sotto questa luce l’opportunismo di chi ha dosato i no e i sì a Pomigliano, gettando nel marasma Fiat, governo e krumiri senza prestarsi a fare da capro espiatorio, assume un inedito rilievo. La gestione del referendum in una fabbrica chiusa da due anni è stato un capolavoro, un prender di traverso la riorganizzazione del lavoro meno drammatico ma più efficace dell’arrampicarsi sui tetti o di gesti che si ha pudore a citare, come i suicidi di Telecom-France e della Foxconn di Shenzhen.


L’incomprensione di fondo che la Fiom ha trovato nella Cgil e nel Pd marca perfettamente la sua (non sempre consapevole) estraneità alla tradizione fordista-keynesiana e al conservatorismo politico di quelle organizzazioni e l’affinità virtuale con altre forme di lotta del precariato nei settori già prima non garantiti, nei servizi e soprattutto nella Scuola e nell’Università. Pomigliano –ripetiamolo– non è l’ultimo bagliore di un mitizzato Novecento, ma un momento ancora ambiguo di un’ondata di insorgenze contro la precarizzazione e il neo-liberismo che percorre tutto il mondo globalizzato. Contro la quale si allestisce la battaglia preventiva, in termini di unità nazionale, rigore e sacrifici, con cui i ceti dirigenti italiani vorrebbero uscire dalle secche del berlusconismo e della crisi.

da GlobalProject