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sabato 3 ottobre 2009

NARDO' - ANCORA SUGLI OPERAI DELLA S.E.S.

Abbiamo ripescato questo articolo scritto nel 2004 su un giornale intitolato “SALENTO CHE FARE?” a cura dell’omonima associazione. Si ha la sensazione di ritornare indietro nella storia dell’uomo, dell’uomo-schiavo.
Ritorniamo ancora a parlare dell’imprenditore Sergio Scorza e di quello che è successo un pò di anni fa.
A me è sembrato interessante; secondo voi ???

SALENTO: E’ SCHIAVITU’, ALTRO CHE RINASCIMENTO.
Negli ultimi mesi del 2004, il Salento è stato alla ribalta della stampa nazionale per i gravi fatti accaduti a Nardò, sede della società Sevar, Grandi e Italgerci che fanno capo ai fratelli Sergio e Pietro Scorza, arrestati per estorsione aggravata e riduzione in stato si schiavitù dei lavoratori dipendenti.
Secondo l’accusa, promossa anche da un giudice dell’antimafia, i fratelli Scorza avrebbero conseguito un ingiusto profitto pagando in maniera inferiore al dovuto i lavoratori, minacciati con la perdita del posto di lavoro ed altre condotte vessatorie. I fratelli Scorza – sempre secondo i magistrati – avrebbero creato un clima diffuso di intimidazione, tale da costringere i lavoratori dipendenti ad accettare intollerabili condizioni lavorative, illecite imposizioni, prestazioni indebite, decurtazione della retribuzione. E ciò sarebbe venuto sotto il ricatto, esplicito o meno, della perdita del posto di lavoro.
In base alle indagini dei carabinieri, gli 86 dipendenti erano obbligati dagli Scorza a lavorare fino a dodici ore al giorno dal lunedì al venerdì presso i cantieri della società che si occupa di scavi e posa di tubi delle reti del gas. Inoltre, il sabato dovevano lavorare presso la masseria del padrone spalando letame e caricando pietre. Come i “lavori forzati” , dice un lavoratore secondo il quale la masseria deve diventare un agriturismo a cinque stelle (ecco su cosa si basa lo sviluppo turistico).
I turni durante la settimana erano massacranti: dalle 05:30 alle 17:30. Gli straordinari venivano pagati poco, il lavoro del sabato quasi mai.
Come la vecchia usanza dei proprietari terrieri che pretendevano il lavoro per la padrona, il lavoro, cioè, che il bracciante agricolo doveva svolgere gratuitamente dal tramonto del sole fino al buio totale in onore della moglie del padrone (da ciò trae origine la canzone popolare “E lu sule calau”).
Oltre al lavoro massacrante, i lavoratori erano costretti a vivere una situazione a dir poco sconcertante. Secondo le indagini dei carabinieri ai lavoratori gli veniva negata anche l’acqua da bere.
E proprio l’acqua avrebbe fatto esplodere il caso.
L’estate del 2003 la ricordiamo tutti come il periodo più caldo degli ultimi decenni. Il 8 luglio di quell’anno, un operaio degli Scorza si è sentito male sul lavoro ma è stato soccorso solo dai carabinieri che lo hanno portato in ospedale. I medici del pronto soccorso inizialmente hanno accertato solo uno svenimento dovuto allo stress. Ma dopo un’attenta visita hanno riscontrato sul corpo dell’operaio contusioni allo scroto e all’inguine. Era successo che qualche giorno prima, mentre stava lavorando su una strada in aperta campagna, con il caldo terribile, l’operaio stava posando l’asfalto a duecento gradi. Aveva sete e non c’era acqua. Allo stremo, è andato a cercare una bottiglia ma al ritorno è stato aggredito dal caposquadra che lo teneva e un altro lo colpiva e ciò per essere andato a prendere l’acqua.
Sembra che lo stesso operaio in precedenza non si fosse sottomesso a svolgere in un giorno il lavoro che andava fatto in tre giorni.
Da quanto riscontrato dai medi del pronto soccorso è partita la denuncia che ha dato il via alle indagini dei carabinieri, culminate con i provvedimenti dei magistrati che hanno disposto l’arresto dei due padroni Scorza accusati di estorsione aggravata e riduzione in stato di schiavitù dei lavoratori.
Il lavoratore pestato è stato licenziato.
Tale situazione è a dir poco gravissima. Ma ancor più allucinante è l’omertà esistente.
Il padrone Sergio Scorza siede nella giunta dell’Assonidustria leccese. I lavori in cui erano addetti gli operai erano commissionati da enti pubblici. Quindi, il denunciato sfruttamento – o schiavizzazzione, secondo i magistrati – è avvenuto alla luce del sole senza che nessuna istituzione muovesse un dito in favore dei lavoratori. Anzi.
La sinistra tace o sta con i padroni. I Democratici si sinistra sono dalla parte del padrone che è difeso da un avvocato si sinistra sostenitore di D’Alema. Il sen DS Alberto Maritati, già magistrato, si è pronunciato solo contro l’arresto dei padroni Scorza. Il sindaco di Lecce, Poli Bortone di AN, si chiede cosa fa il sindaco. I sindacati danno la colpa alle amministrazioni comunali essendo loro i committenti degli appalti. Secondo la CGIL non “si era accorta” accorta delle condizioni di lavore imposte dagli Scorza nemmeno quando l’operaio pestato e licenziato si è rivolto a loro per impugnare il licenziamento.
Poi, il silenzio totale.
Davanti a questi gravi fatti la società civile avrebbe elevato barricate e compiuto permanenti rivolte.
Invece, nulla. Nessuna protesta, niente sciopero e nemmeno manifestazioni di solidarietà con i lavoratori. Nessun dibattito, nemmeno delle scuole. I salentini sono troppo presi dalle tarantole, dalle pizziche e dalle danze per cui vengono guardati in televisione come un circo equestre. Sono troppo presi da questo successo di attarantolati e non possono distrarsi per parlare di libertà e dignità. Non solo, ma la denuncia dell’operaio sfruttato, picchiato e licenziato sembra aver dato fastidio per aver creato uno scandalo che, comparendo sui giornali, ha macchaito l’immagine del Salento, pubblicizzata come terra di “sole, mare e vento”. Che con la Pizzica sta vivendo un nuovo “rinascimento”.
Così, l’operaio in questione ha avuto ancora più paura ed è stato costretto ad emigrare fuori provincia lasciando a Nardò la famiglia.
Questi fatti dimostrano, invece, che il Salento è terra di lavoro nero e sfruttamento, ipocrisia, omertà e schiavitù. Altro che “rinascimento.

Raccolta clandestina


Questo è un articolo del 13 agosto de Il Manifesto che descrive la situazione dei braccianti extracomunitari in un altro paese del foggiano; dopo Palazzo San Gervasio abbiamo scoperto Rignano Garganico.Di seguito un articolo più recente -16 settembre- apparso sulla Gazzetta Del Mezzogiorno. Le situazioni di terzo mondo si ripetono ovunque quando i soggetti interessati sono invisibili, bisognosi e impotenti.

La clandestinità è reato da qualche giorno in Italia ma a Rignano Garganico, vicino Foggia, il lavoro prosegue come ogni anno. Contando sulle tante braccia di immigrati che per lavorare accettano qualsiasi condizione

di Giusi Marcante - FOGGIA
Baracche di cartone e nylon tenute insieme da fasce di plastica nera, le stesse che si vedono abbandonate sui campi dove fino a qualche giorno fa c'erano i pomodori. La clandestinità è reato da qualche giorno in Italia ma a Rignano Garganico, una decina di chilometri a nord est di Foggia, la raccolta prosegue come ogni anno.Contando sulle tante braccia di immigrati senza documenti che per lavorare accettano qualsiasi condizione e si spostano da una parte all'altra dell'Italia, di raccolta in raccolta in raccolta, di sfruttamento in sfruttamento. La nuova legge non rappresenta un problema per le centinaia di ragazzi che affollano «il ghetto» di Rignano. «Quando hai fame non può essere questa la tua preoccupazione», racconta più di uno. E d'altronde non sembra essere un problema neanche per i «caporali» che lucrano sui magri guadagni dei raccoglitori, e per le aziende dei produttori perché il pomodoro va raccolto altrimenti marcisce. Da fine luglio agli inizi di settembre c'è bisogno di più manodopera possibile.

Lo chiamano il ghetto e una ragione c'è. E' un alternarsi continuo di costruzioni in muratura semi diroccate e di baracche dove di solito vanno ad abitare gli ultimi arrivati. Se passate da queste parti vedrete diversi uomini che spingono dei passeggini, non ci sono neonati dentro anche se c'è qualche bambino che abita tra le baracche. Servono a caricare il bidone dell'acqua, bene tra i più preziosi e che il Comune ha portato sotto forma di cisterne di plastica dopo che i sindacalisti della Flai Cgil sono andati a denunciare che lì non c'era neanche quello. Qualcuno gode del lusso di una casetta tutta (o quasi) per sé. E' del «capo nero», qui chiamano così il caporale non italiano, sul muro qualcuno ha scritto con della pittura rosa e verde «Nigeria». Le stime dicono che al ghetto ci sono un migliaio di persone, sono tutti africani, quasi tutti maschi. Qualche ragazza c'è, anche lei dalla Nigeria: «Non vogliamo avere niente a che fare con loro», spiega un ragazzo del Ghana alludendo a un modo di guadagnare che lui non condivide. E' l'11 agosto: martedì pomeriggio e sono circa le sei al ghetto, molti lavoratori sono rientrati dalla campagna. Chi ha avuto la «fortuna» di lavorare tutto il giorno può aver passato anche dodici o quattordici ore in campagna. Ha riempito una decina di cassoni con i pomodori. Il cassone è il grande contenitore di plastica che poi finisce dritto sul camion, i tir arrivano sul campo e caricano direttamente per poi scaricare alle aziende di trasformazione. Sulla strada da Foggia a Salerno in questi giorni è una processione continua di camion ma da due anni un imprenditore salernitano ha impiantato qui un'azienda che trasforma l'oro rosso. Contraddizione tra le contraddizioni: a Foggia non esisteva una fabbrica che lavorava il pomodoro. Tra i cassoni il più diffuso è quello da tre quintali. Al lavoratore immigrato vanno tre euro, a volte tre euro e mezzo su cinque complessivi: questo significa che il caporale succhia due euro da ogni cassone.

Dhembelè, così dice di chiamarsi, non ha i documenti. E' un ragazzo di 23 anni e viene dal Mali. Martedì ha iniziato a lavorare alle 12, ha fatto solo mezza giornata. Meglio di Lafya che ha 30 anni e viene anche lui dal Mali: «Il n'y a pas de travaille aujourd'hui». Non c'è lavoro ed è rimasto a terra, come lui altri ragazzi che abitano in una costruzione accanto ad una chiesa vuota sempre nella campagna di Rignano. Non è il ghetto ma la situazione non è diversa: niente elettricità, niente acqua corrente. In quella che forse poteva essere la canonica ci sono alcune tende, in un'altra stanza ci sono centinaia di scarpe e alcuni panni stesi ad asciugare. I ragazzi, qui ci abitano in centocinquanta, giocano a dama. Due sono appoggiate per terra, come pedine hanno i tappi delle bottiglie d'acqua, quelli bianchi e quelli rosa. «Non ho i documenti - spiega Lafya - sono in Italia dal 2007, quando finisce il lavoro qui io torno a Rosarno (in Calabria dove c'è la famosa cartiera trasformata in baraccopoli, ndr) e poi inizio la raccolta dei mandarini». L'irragionevolezza del reato di clandestinità sprofonda negli occhi di questo ragazzo che si sente in una trappola da cui crede di non poter uscire «in Italia se vuoi lavorare devi avere i documenti e se non hai i documenti niente lavoro». La raccolta per questo 2009 è un po' tardiva, il tempo ha fatto sì che i pomodori stiano maturando con un lieve ritardo. Il boom del lavoro è atteso dalla settimana prossima. Ma è numerosa anche l'offerta di braccia e quel che emerge è la sua diversificazione.

«Quello che sta avvenendo nelle campagne è anche una guerra senza confini tra poveri - spiega Daniele Calamita, segretario della Flai Cgil di Foggia - oltre ai lavoratori di origine africana ci sono i comunitari: romeni, bulgari, polacchi e albanesi. Per loro ci sono maggiori possibilità di lavoro perché non hanno problemi con i documenti». Gli africani quindi sono l'ultimissimo gradino di questa piramide di sfruttamento ma Calamita fa parlare i dati per fornire un altro segnale che è arrivato dalle campagne del foggiano. Dopo l'estate del 2006, le inchieste giornalistiche (come quella di Fabrizio Gatti) che hanno svelato la realtà della piana della Capitanata ci sono stati maggiori controlli. A suo tempo l'ex ministro Giuliano Amato aveva addirittura emanato una circolare in cui esortava i questori a rilasciare permessi di soggiorno per motivi di protezione sociale agli stranieri che denunciavano i loro sfruttatori. I numeri raccontano che dai 4500 immigrati iscritti negli elenchi anagrafici dell'Inps nel 2006 si è passati ai 16 mila del 2008. «Ma per la maggior parte di questi lavoratori i padroni hanno fatto figurare alla previdenza solo pochi giorni di lavoro, due o tre - prosegue il segretario - è evidente che non è così. Per questo dico, il numero dei lavoratori iscritti è aumentato ma per loro quante giornate verranno denunciate?». I produttori si lamentano, dicono che il pomodoro viene pagato una miseria. «Le aziende parlano di nove centesimi al quintale ma i soldi che vengono dati ai lavoratori sono sempre quelli anche quando il pomodoro valeva molto di più».

Nelle campagne non ci sono solo invisibili, si possono trovare lavoratori che hanno i documenti e ci sono diversi rifugiati politici. Assicura di avere il permesso di soggiorno anche Prince, trentenne del Ghana, che con un quaderno «coordina» il lavoro di altri connazionali in un campo sul Gargano non lontano da Lesina. «Vengo da Milano, ho lavorato in una fabbrica che adesso ha chiuso - racconta - adesso sono qui ma io vorrei tanto poter lavorare in una radio». Al ghetto intanto nel tardo pomeriggio arriva un camioncino stipato di gabbie di plastica dove ci sono circa duecento polli, vivi. Attorno al camion si accalca una ressa di persone, è una lotta autentica non per prendere e portare via ma per acquistare. Un pollo, un euro e ogni ragazzo ha in mano il denaro. In pochi minuti vengono venduti tutti ma all'italiano con occhiali e cappellino che è stato sommerso da questi ragazzi non va bene. «Non è possibile lavorare così, non si può in questo modo, quanti mi saranno fuggiti senza pagare. Io lo so, qui in mano non ce li ho tutti i soldi che avrei dovuto avere. Io ve lo dico se si continua così non torno più». Il venditore di polli queste parole le pronuncia metà in italiano, metà in dialetto. Ma non è un problema, per chi parla inglese e francese e mastica l'italiano comprendere quello che dice un foggiano arrabbiato non è difficile. «Hai ragione non succederà più» assicura un abitante del ghetto. I polli intanto sono spariti dentro le baracche, qualcuno prende le pietre e le dispone a cerchio. Poi prende una pentola con dell'acqua e accende il fuoco. Anche qui a Rignano il sole si prepara a tramontare.

il manifesto 13 agosto 2009
http://www.ilmanifesto.it


Inferno per immigrati a Rignano Garganico

di GIANLUIGI DE VITO Mercoledì 16 Settembre 2009
Nessuno s’aspettava il ghetto dei nuovi schiavi alle porte della città. E invece succede che la vergogna mette tenda anche sotto gli occhi dei residenti. Via Pitagora, Trinitapoli: il giorno dopo la scoperta ci si interroga. Un buco come water.

Dovevano dividersi quel buco un centinaio tra romeni e bulgari. 68 tende, 112 neocomunitari che lavorano come stagionali nella vendemmia e nella raccolta degli ortaggi e che per abitare in quel «lager» pagavano 15 euro a settimana. Come è possibile? I carabinieri hanno denunciato il pensionato proprietario del suolo, ma questo non basta a dare risposte.

Il Foggiano, la nuova provincia della Bat e il Nord Barese non si liberano del marchio infame di terre ostili che si prestano a impiantare township. Poco più di cinquanta chilometri più avanti e un altro ghetto a Rignano, questa volta più noto, ripropone scene che vorresti appartenessero al passato remoto. E invece è la Pummarò Valley. Più feroce che mai. È il crocevia di manodopera negra. È la più grossa africopoli rimasta a ridosso di Foggia. Le altre sono più in là, verso la costa garganica, nella zona di Manfredonia e nella valle dell’Ofanto, a Cerignola.

A Borgo Tre Santi, vicino a Cerignola, appunto, la Regione ha fatto nascere un albergo diffuso. Così pure a Torre Guiducci, a pochi chilometri da Foggia, sulla direttrice per Manfredonia. Si tratta di ostelli per stagionali. Altri ne sono previsti, ma per ora sono rimasti sulla carta. «Ospitano poco più di 40 immigrati, solo col permesso di soggiorno. Troppo poco», tuona Daniele Calamita, segretario generale della Flai provinciale di Foggia.

I numeri del 2009 che lo stesso Calamita ritraggono bene la schiavitù che non passa in archivio: 4mila i soggiorni autorizzati dal decreto flussi per gli stagionali. A questi vanno aggiunti 7mila neocomunitari (romeni, bulgari e georgiani in testa) e almeno 5mila irregolari. Quasi tutti sono richiedenti asilo in attesa della decisione della commissione territoriale per i rifugiati o con un diniego verso il quale hanno fatto ricorso. E comunque l’esercito dei Pummarò Valley quest’anno tocca una quota poco al di sotto dei 20mila. Erano di più lo scorso anno quando le giornate erano meglio retribuite. La crisi pesa.

«Ma la pagano i più deboli, i clandestini», incalza Calamita. Anche qui basta farsi sorreggere dalle cifre per capire. Gli ettari destinati a pomodoro sono stati 25mila quest’anno, in Capitanata; 30 mila nel 2008. Gli agricoltori giustificano la contrazione dicendo che è sempre più costoso assicurare un prodotto che non vada a male. Troppi virus, e troppo cari i pesticidi. E questo spiegherebbe perché la Pummarò Valley si sta spostando verso il Gargano e all’interno del Tavoliere: Lesina, Poggio Imperiale, San Severo, Lucera. Qui le terre non sono ancora state sfruttate dalle colture intensive e il rischio di virus alle piantagioni di pomodoro è più basso.

Il fatto è che delocalizzare non vuol dire sfruttare meno. Anzi. I produttori dicono di guadagnare, quest’anno, dai 9 ai 12 centesimi di euro al chilo a fronte dei 17 centesimi del 2008. Il prezzo è quello fissato dai titolari dei pomodorifici, vale a dire dalle industrie della trasformazione che hanno stretto le cinte approfittando della crisi congiunturale. Sta di fatto che la squadra di immigrati viene pagata al capo nero calcolando per ogni stagionale 5 euro al massimo per cassone raccolto. In tasca agli sfruttati finisce in pratica circa un centesimo, due al massimo, per ogni chilo raccolto. E gli altri 7-10?

Lo sfruttamento è una ferita che sanguina. Il caporale trattiene dalla paga del “suo” operaio anche quello che non t’aspetti: gli fa pagare il trasporto, dai 2 ai 5 euro a seconda della distanza; gli fa pagare il cibo, 4-5 euro per un panino con una scatoletta di tonno da discount; anche l’acqua potabile fresca nella tanica di plastica costa 50 centesimi. Quello che non t’aspetti sono i 50 centesimi per ridare energia alle batterie del cellulare scarico. Così va l’era dell’oro rosso. Non che i risultati non ci siano stati. Almeno a giudicare dalle parole delle organizzazioni sindacali. Lo stesso Calamita commenta quello che è accaduto negli ultimi anni: «Gli elenchi anagrafici indicano le persone assunte almeno per una giornata lavorativa e registrano quest’anno 16mila immigrati su un totale di 34mila lavoratori in agricoltura. L’anno scorso erano 14mila su 32mila, e non dobbiamo dimenticare che nel 2007 erano appena 7.474».

Le campagne di tutela danno i frutti e anche la legge regionale sull’emersione dal lavoro nero, voluta dall’ex assessore della giunta Vendola, Marco Barbieri, ha in qualche modo inciso. Ma resta il fatto che la Puglia non ha ancora una legge regionale sull’immigrazione mentre il lavoro contadino nostrano si modifica, diventa espressione di una riorganizzazione in chiave neoliberista che vede l’espulsione del lavoro autoctono dequalificato dalle campagne e lo sfruttamento delle braccia immigrate specie nelle zone limitrofe all’insediamento dei centri di ingresso via mare. La Puglia come la Sicilia e la Calabria. Il Foggiano e il Salento come il Trapanese, il Ragusano e il Crotonese. Sfruttamento in salsa mediterranea.

Fonte: lagazzettadelmezzogiorno.it

Chiuse indagini per Cuffaro. I pm pensano a una nuova richiesta di rinvio a giudizio

Un avviso di conclusione delle indagini e la possibile imminente richiesta di rinvio a giudizio. Così per Totò Cuffaro è arrivata una nuova doccia fredda.

Il medico di Raffadali che si era dimesso da capo del governo regionale dopo la condanna per favoreggiamento a singoli mafiosi (ma aveva poi trovato “ospitalità” a Palazzo Madama), probabilmente sperava che di quel fascicolo accantonato in procura non se ne facesse più niente. Invece no. Per il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo e il suo sostituto Nino Di Matteo ci sarebbero altre prove per dimostrare che l’ex presidente della Regione ha costituito per almeno un decennio un punto di riferimento importante per l’organizzazione mafiosa. Il fascicolo a carico dell’ex Governatore era stato aperto dopo la condanna dell’imputato, all’indomani della spaccatura del pool che aveva rappresentato in aula l’accusa di primo grado nei suoi confronti. Il dissenso tra i magistrati era costituito dalla divergenza di idee sulla contestazione di reato da muovere al politico. Per Di Matteo, durante la fase dibattimentale, erano emersi elementi inconfutabili sulla sua concorrenza esterna alla mafia e per questo si sarebbe dovuto procedere con l’aggravamento del capo d’accusa. Non d’accordo con questa linea gli altri colleghi: l’aggiunto Pignatone e i due sostituti De Lucia e Prestipino. Una controversia che alla fine portò all’amara decisione da parte di Di Matteo di lasciare quel procedimento, che si è poi concluso il 18 gennaio 2008 con la condanna per Cuffaro a 5 anni e 8 mesi, e all’apertura dell’inchiesta bis per il politico che si è conclusa proprio ieri.
Ora alla base delle nuove contestazioni per l’ex Presidente siciliano, oltre ai suoi rapporti con il capo mandamento di Brancaccio Giuseppe Guttadauro e l’ingegnere al servizio di Provenzano Michele Aiello (condannato nello stesso processo a 14 anni per associazione mafiosa e di recente radiato dall’ordine degli ingegneri, ndr), ci sarebbero anche altre circostante tutte da approfondire. Alcune delle quali non affrontate adeguatamente nel primo procedimento che, all’epoca de fatti, era già alla fase finale. Si tratterebbe delle dichiarazioni dell’ex reggente del mandamento provinciale di Agrigento Maurizio Di Gati e delle intercettazioni ambientali di Rotolo e Bonura registrate nel box di lamiera nel 2005 che fanno il paio con altri elementi già ampiamente avvalorati in processi di mafia come quelli relativi ai racconti dei pentiti Francesco Campanella e dell’ex “ministro dei lavori pubblici” di cosa nostra Angelo Siino. Il nuovo faldone inoltre potrebbe contenere i recenti sviluppi investigativi sugli affari del gas legati a don Vito Ciancimino, dal cui figlio Massimo l’allora onorevole Cuffaro avrebbe ricevuto dei soldi a titolo di mazzette, unitamente ai suoi due fedeli alleati politici gli onorevoli Romano e Cintola. Tutte circostanze che la procura sta cercando di chiarire scavando tra le carte di Ciancimino junior ma anche attraverso la testimonianza del prof. Gianni Lapis e dell’avvocato Livreri (ex legale dei soci della Gas spa), ascoltati dai magistrati in qualità di testimoni di reato connesso.

di Silvia Cordella da AntimafiaDuemila

Puttane

E dunque, Patrizia D’Addario è stata alla fine intervistata ad Annozero e massacrata in diretta su una televisione italiana. Dopo, Bruno Vespa ha dovuto fare, su richiesta di Palazzo Chigi, una puntata riparatrice di Porta a Porta per massacrare a sua volta Michele Santoro e di nuovo, la mestissima D’Addario [comunque, come hanno scritto quelle del blog «Femminismo a sud», la più simpatica in studio: «una mortisia bionda»].
La trasmissione di Vespa si è aperta con la domanda giusta: ma che credibilità può avere una puttana? Le puttane, si sa, devono stare zitte. Il silenzio fa parte del patto non scritto con il maschio che paga.
Una volta scelta quell’arena, non è che ci si possa aspettare qualcosa di diverso da un massacro, soprattutto se al centro del problema c’è una donna. Perché in tv [e nel paese] sono gli uomini che parlano. Conducono eleganti, in giacca e cravatta. Insultano, giudicano sprezzanti. Solo se serve chiamano al loro fianco la donna intellettuale [Maria Latella?] ma più spesso, al loro fianco c’è una ragazzina sorridente e svestita. La televisione è la fabbrica del berlusconismo, non si può chiederle di demolirlo. Quando va bene, può servire a svelarne i punti deboli e i meccanismi: l'altro giorno ad Annozero quei meccanismi non sono stati messi in discussione, e il violentissimo linguaggio usato è stato lo stesso. Il film «Il corpo delle donne» di Lorella Zanardo e il libro «Ancora dalla parte delle bambine» di Loredana Lipperini hanno già analizzato come si distrugge a colpi di immagini la dignità delle donne e dei corpi femminili, se ne mortifica l’intelligenza, la forza, la dignità, perfino la bellezza. Una trasmissione su questo, Santoro non sarebbe in grado di farla mai.

Romania, la cultura come antidoto al razzismo

Com’è possibile che nell’arco di pochi anni la comunità di immigrati che sembrava potersi integrare più facilmente nel tessuto sociale italiano - per motivi linguistici, religiosi e culturali – si sia trasformata nella più temuta?

Colpa della politica? Dell’ignoranza, forse reciproca? Della superficialità dei giornalisti, troppo spesso indulgenti verso stereotipi e banalità di carattere xenofobo? O forse il clima di diffidenza tra romeni e italiani, spesso sconfinato in atti di violenza, è un inevitabile corollario di un fenomeno migratorio di enormi dimensioni? Una risposta unica non esiste: è la conclusione che si può distillare dall’incontro “Roma-Bucarest. Andata e ritorno”, andato in scena venerdì pomeriggio alla sala Estense. Moderato con leggerezza e ironia da Beppe Severgnini, il dibattito ha toccato argomenti diversi: dalla libertà di stampa ai rapporti economici, dalla questione della minoranza rom alla percezione reciproca tra i due paesi.

Di tutto questo hanno discusso Gabriela Preda, corrispondente della televisione romena Prima Tv e collaboratrice di Internazionale, Ovidiu Nahoi, direttore della versione romena della rivista Foreign Policy e Mircea Vasilescu, direttore del settimanale Dilema Veche e professore di letteratura all’università di Bucarest.

Risultato? Serve tempo e conoscenza. Le campagne di comunicazione sono utili, citare la dimensione degli scambi commerciali serve e c’è bisogno di giornalisti capaci di raccontare la realtà nella sua complessità. Ma è soprattutto la cultura che dovrà avere un ruolo chiave: i film di Mungiu, i libri di Cartarescu, i saggi di Eliade, i racconti di Manea sono gli ambasciatori migliori di un paese che vuole farsi conoscere per quello che è davvero.

da Internazionale

ALLUVIONE MESSINA: I MORTI SONO 18 LA PROCURA INDAGA: DISASTRO COLPOSO

(AGI)Messina, 2 ott. - Sono 18 le vittime accertate finora dell'alluvione a Messina. Lo ha comunicato l'Unita' di crisi allestita dalla prefettura. E purtroppo il bilancio e' ancora provvisorio. Secondo altre fonti, infatti, una trentina sarebbero i dispersi e circa settanta i feriti ricoverati negli ospedali. Gli sfollati sono quantificati in 400. La procura della Repubblica di Messina ha aperto un'inchiesta sul disastro. "Ho disposto - ha detto il procuratore capo Guido Lo Forte - un procedimento penale nei confronti di ignoti. L'ipotesi di reato e' di disastro colposo". Particolarmente gravi le condizioni di un uomo ricoverato al Policlinico di Messina e poi trasferito a Palermo. Sono 700 le persone rimaste senza casa ed evacuate. Si tratta di abitanti dei villaggi di Giampilieri Superiore, di Briga e di Scaletta, dove sono crollati circa dieci edifici e molti altri sono invasi dal fango e inagibili. "La situazione e' drammatica - riferisce il capo della protezione civile regionale Salvatore Cocina - Si scava anche con le mani senza pausa e senza fermarsi mai tra i detriti e il fango per cercare i dispersi con l'aiuto dei cani". L'unica via d'accesso a Messina e' la strada statale 166: interrotta l'autostrada A19, la strada statale 114 e la linea ferroviaria per Catania. Centinaia di persone sono rimaste nelle loro auto, senza poter andare avanti ne' tornare indietro. In prefettura e' stata istituita un'unita' di crisi. Alcuni feriti sono stati portati in salvo con la motovedetta della polizia di stato. I residenti hanno riferito di essersi arrampicati sui tetti per sfuggire alla piena. Sull'autostrada A18 Messina-Catania molti automobilisti hanno passato la notte nelle loro auto, anche in questo caso senza poter essere soccorse a causa delle frane. Il Consiglio die ministri ha dichiarato lo stato di crisi. Mercoledi' mattina il sottosegretario con delega alla protezione civile Guido Bertolaso riferira' alla Camera.

Onu: "condizioni terribili" in Libia. Ma l'Italia continua a mentire

BRUXELLES - Finora le Nazioni Unite non avevano mai usato tanta chiarezza. Ieri però l’alto commissario per i rifugiati Antonio Guterres, presente al Consiglio giustizia e interni della Ue, per una volta ha lasciato da parte i toni molli della diplomazia, ribadendo “forte riserve” sui respingimenti in Libia. “La nostra posizione è molto chiara – ha detto -. Non pensiamo che in Libia esistano le condizioni necessarie per garantire la protezione dei richiedenti asilo. Guterres ha poi ammesso le “condizioni di detenzione terribili” in Libia e “un grave rischio che i richiedenti asilo vengano rinviati nei Paesi d'origine”. E il commissario europeo per giustizia, libertà e sicurezza, Jacques Barrot, gli ha dato man forte. “Conto sull'aiuto dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati – ha detto Barrot ai cronisti -, per dire ai libici che la situazione attuale non è accettabile e non può perdurare”. Non solo. “Abbiamo ricordato all'Italia - ha aggiunto Barrot - i principi che vietano di rinviare le persone nei Paesi in cui la loro vita è minacciata».

Un duro atto d’accusa a cui per l’ennesima volta il governo italiano risponde con la menzogna. Il pinocchio di turno è il sottosegretario agli interni, Francesco Nitto Palma, presente al Consiglio giustizia e interni dell’Ue al posto del ministro Roberto Maroni, impegnato ai funerali dei militari morti in Afghanistan. Palma ha detto: “Le riconsegne di immigrati finora effettuate sono perfettamente in linea con la normativa internazionale e conformi all'articolo 19 dell'accordo di amicizia tra Libia e Italia, che consente di rinviare sul territorio libico gli immigrati irregolari provenienti dal Paese nordafricano”. Peccato che la Bossi Fini vieti il respingimento di chi richiede una protezione internazionale. Nessun problema, assicura Palma rasentando il ridicolo: “delle 757 persone salite a bordo delle navi italiane nessuno ha chiesto la protezione internazionale o ha dichiarato di essere perseguitato. Tutti una volta giunti su territorio libico hanno confermato che il loro viaggio era finalizzato solo alla ricerca di una vita migliore”. Il sottosegretario ha quindi garantito come a bordo delle navi italiane che raccolgono gli immigrati irregolari “chiunque è libero e in grado di avanzare un eventuale richiesta di protezione internazionale, con personale a bordo atto a recepire domanda”.

Palma si dovrebbe vergognare, e con lui chi gli detta le dichiarazioni da dare alla stampa. Siamo in contatto telefonico costante con i respinti eritrei e somali. E possiamo dire con certezza che tra i 1.329 respinti da maggio c’erano centinaia di rifugiati eritrei e somali. Abbiamo la lista dei nomi di 75 eritrei respinti il primo luglio. Una ventina di loro sono stati feriti dai nostri militari durante il trasbordo sulla motovedetta libica. E le stesse Nazioni Unite hanno verificato l’accaduto. Sappiamo con certezza che almeno 150 somali sono stati respinti in due occasioni: il 12 e il 30 agosto. Altri 43 eritrei sono stati riportati in Libia l’8 settembre. Di altri 24 rifugiati eritrei e somali abbiamo anche documentato le storie, grazie al ricorso presentato alla corte europea dall’avvocato Lana.

Sono 300 potenziali rifugiati. Oggi sono detenuti nei campi di Tripoli, Zawiyah, Zlitan e Misratah. Le loro testimonianze smontano le menzogne di Palma. Le loro vite violate e abusate accusano Palma, il governo italiano e gli uomini della Finanza e della Marina che hanno effettuato i respingimenti. Ma non hanno un po’ di umanità? Come si fa a scaricare a colpi di remi rifugiati, donne, neonati. A vederli caricare dentro carri bestiame in lacrime. E poi a abbracciare proprio figlio quando si torna a casa dalle missioni di pattugliamento?

OGGI, 3 OTTOBRE GIORNATA PER LA LIBERTÀ DI STAMPA IN ITALIA E IN EUROPA

Appuntamento nel pomeriggio, alle 15,30, in piazza del Popolo a Roma. Ma anche in altre dodici città italiane ed europee. Con un unico slogan: "No all'informazione imbavagliata”. Lo stesso che sarà stampato sulle magliette bianche che saranno distribuite ai partecipanti dagli organizzatori. Dopo il rinvio del 19 settembre dovuto al lutto per il gravissimo attentato ai nostri soldati a Kabul, la giornata per la libertà di stampa indetta dalla Fnsi (che ha trovato l'adesione dell'Ordine nazionale dei Giornalisti; Cgil e Fim-Cisl; dei partiti dell'opposizione parlamentare dal Pd all'Idv, e dalle forze della sinistra extraparlamentare Sinistra e Libertà, Rifondazione Comunista e Comunisti Italiani e diverse altre associazioni, come Arci, Acli, Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza...) conterà manifestazioni in altre 12 città italiane ed europee (Londa, Parigi, Bruxelles, Monaco di Baviera, Berlino, Barcellona)
A Roma arriveranno giornalisti e cittadini da tutt'Italia, anche a bordo dei 300 pullman appositamente organizzati. La manifestazione sarò coordinata dal giornalista di Rai3 Andrea Vianello e prevede interventi politici e prestazioni artistiche. Tra i nomi in calendario (ma ci saranno anche inserimenti al'ultimo momento) quelli di Dario Fo, Roberto Saviano, dell'attore Neri Marcorè, di Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale. Per gli artisti Samuele Bersani, Teresa De Sio, Marina Rei, Nicky Nicolai, Enrico Capuano, Tetes de Bois. Musica dell'Orchestra di piazza Vittorio.
Inoltre sarà letto un messaggio del direttore di Famiglia Cristiana, don Antonio Sciortino e sarà reso omaggio alla giornalista russa Anna Politkovskaja, uccisa a Mosca tre anni fa per la sua battaglia sulla Cecenia: l'attrice Jasmine Trinca leggerà alcuni testi tratti dai suoi reportages.
Per la Fnsi, interventi del Presidente Roberto Natale e del segretario Franco Siddi, che hanno già dato le prime risposte al duro attacco del presidente Consiglio Silvio Berlusconi il quale ha detto che l'Italia è uno dei Paesi occidentali a più alto tasso di libertà di stampa e che questa giornata non è altro che «una farsa».
«Altro che farsa - ha replicato Natale – Berlusconi sappia che sarà una cosa serissima e che il suo obiettivo è che i cronisti possano continuare a fare il proprio lavoro»
La manifestazione di Roma sarà seguita in diretta televisiva SkyTg24 a partire dalle 16 (canali 100 e 500); da Rai News24; Retequattro a partire 16 fino alle 17,30; sul web da Youdem, dal sito della Cgil e da Repubblica Tv.
In piazza del Popolo ci sarà uno stand di Repubblica.it, con otto postazioni computer ed un videobox. I partecipanti alla manifestazione potranno mandare un messaggio al sito del quotidiano o rilasciare una dichiarazione a Repubblica tv.

Sergio Blasi: "Vendola non si discute"

di Antonio Scotti

E’ il candidato al congresso regionale che con 274 delegati conta il maggior numero di sostenitori. E’ il numero uno della mozione Bersani in Puglia ed è l’uomo di D’Alema nella corsa per la segreteria regionale. Sergio Blasi arriva a Bari. Ad attenderlo, ieri pomeriggio, tutto il parterre dei dalemiani di Bari e provincia. L’ex sindaco di Melpignano, fino a qualche mese fa in aperto contrasto con D’Alema (note le sue dimissioni dalla segreteria provinciale del Pd) si ritrova a pochi giorni dalle primarie nel capoluogo regionale per serrare le fila del partito e tirare la volata. Una sfida non scontata, e che vede come principale competitor Gugliemo Minervini, che con più di 180 delegati è tutt’altro che spacciato nella corsa alla segreteria.

Accanto a Blasi, il coordinatore nazionale della mozione Filippo Penati. Reduce da un battibecco attraverso i giornali con Dario Franceschini. Al milanese Penati non va già che l’attuale segretario nazionale Pd non voglia commentare l’esito delle votazioni dei circoli che hanno sancito la vittoria di Bersani: “450mila persone sono andate a votare – ha detto –. Questi hanno dato una dimostrazione di democrazia del Paese e ciò non può essere archiviato senza una parola di commento”. In prima fila l’ex deputato europeo Enzo Lavarra, l’assessore regionale ai Trasporti Mario Loizzo, l’ex assessore alla Sanità Alberto Tedesco e l’attuale assessore regionale al Bilancio Michele Pelillo.
Sergio Blasi ricorda che la sua non è candidatura di apparato e che la volontà è quella di fare del radicalsimo etico una scelta dirimente per la programmazione del futuro Pd. Per le prossime regionali, l’ex sindaco di Melpignano rinnova la sua totale fiducia nei confronti del governatore Vendola e dissipa ogni dubbio per ciò che riguarda l’appoggio incondizionato alla sua ricandidatura. “Vendola ha coniugato la fedeltà al sogno con la concretezza dell’azione e ha portato una grande rivoluzione in molti campi della sua attività di governo come servizi sociali e formazione professionale”.
Molto interessante, sebbene poco ascoltato, l’intervento di Angelo Petrosino, responsabile provinciale dei giovani, che ha sollevato il coperchio delle tante contraddizioni che animano un partito che presto dovrà fare i conti con la definizione dei contorni della propria cultura politica. “Non possiamo navigare senza una meta - ha detto -. Dobbiamo essere in grado di mettere a valore le radici progressiste del nostro partito con lo straordinario patrimonio dei cattolici con cui stiamo costruendo questa nuova esperienza politica”. “Facciamoci illuminare dal cielo della storia e guardiamo al futuro con speranza”, conclude Petrosino. Davvero un buono auspicio. Che sia troppo grande per il Pd di oggi?