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domenica 8 novembre 2009

BARI - Spedizione contro gruppo di cingalesi


di Francesca Savino
Un blitz con calci, pugni e taniche di benzina al seguito per punire un gruppo di cittadini cingalesi, colpevoli di aver urtato inavvertitamente il paraurti di un´auto parcheggiata e di essersi subito dopo dichiarati pronti a pagare i danni attraverso l´assicurazione. Il quartiere Libertà a Bari ieri è stato lo scenario di una violenta spedizione punitiva da parte di dieci ragazzi baresi ai danni di quattro uomini tra i 40 e i 45 anni, tutti originari del Bangladesh ma da tempo residenti in Puglia. Il bilancio finale è stato di due feriti gravi, con escoriazioni multiple, soccorsi nel Policlinico di Bari (uno è stato ricoverato), e di altri due uomini colpiti da calci, schiaffi e pugni da parte degli aggressori.
Ma la violenza non si è fermata alle botte: il commando che intorno alle 20 di ieri sera si è presentato a casa delle vittime, aveva con sé anche alcune taniche di benzina. Le hanno usate per cospargere l´appartamento e per appiccare il fuoco alle stanze: le fiamme sono state spente con la farina, prima che sul posto arrivassero i vigili del fuoco e i carabinieri che ora indagano sull´accaduto.

Il tentativo di incendiare l´appartamento in via Garruba non è stato il gesto peggiore: gli aggressori, adesso ricercati, hanno anche gettato il liquido infiammabile addosso alle loro vittime e forse solo la mancanza di tempo ha impedito che la situazione degenerasse ulteriormente. «Questo episodio, nato da futili motivi, è indice della scarsa considerazione che si ha della vita e dell´incolumità degli immigrati, visti come cittadini di serie B, indegni di godere degli stessi diritti dei cittadini italiani» denuncia la segreteria provinciale di Bari di Rifondazione Comunista che ieri ha diffuso un comunicato sull´accaduto con i giovani comunisti della città. Secondo le associazioni per i diritti che si sono immediatamente interessate alle vittime, l´episodio di sopraffazione non è che l´ultimo di una lunga serie e i quattro cingalesi avevano già denunciato in passato prepotenze ed estorsioni.

da LaRepupubblicaBari

All'Elba, pesci morti nelle reti dei pescatori

È il cinque luglio scorso. Il battello della Ong tedesca Green Ocean ha appena avvistato la nave tedesca Toscana - battente bandiera maltese - mentre getta almeno un container in fondo al mare, di fronte all'isola d'Elba. Passano appena 48 ore e i pescatori di Marciana vedono i pesci morire. Forse un caso o, molto probabilmente, l'ulteriore conferma che il crimine ambientale delle navi dei veleni non è una leggenda dei mari. La denuncia arriva direttamente da chi ha avvistato il mercantile armato di gru, alle prese con i movimenti sospetti di containers al largo della costa toscana. «Ho parlato con i pescatori - racconta Robert Groitl, comandante della nave Thales della Green Ocean - e mi hanno confermato tutto». Non solo. Fino a qualche settimana fa «anche i pescatori di Livorno hanno raccontato che nei giorni successivi all'individuazione della nave Toscana nelle loro reti hanno visto molti pesci morti».
Almeno uno dei container abbandonati probabilmente dal Toscana è ora a 120 metri di profondità, a nord dell'Elba. È stato individuato dalla nave Alliance della Nato, intervenuta su richiesta dell'Ente parco dell'Arcipelago toscano, guidato da Mario Tozzi. La moria della fauna marina è ora il sintomo preoccupante dell'eventuale presenza di rifiuti tossici all'interno del contenitore gettato in mare. Un allarme che ovviamente dovrà essere confermato da analisi mirate e urgenti. «Ma qualcuno ha effettuato dei prelievi dell'acqua? Qualcuno ha analizzato il pescato», chiede Robert Groitl.
Il ricercatore della Green Ocean il mare lo conosce bene. Conosce anche molto bene il mondo della navigazione, essendo stato capitano di mercantili. «Accade molto spesso di vedere buttare in mare rifiuti tossici - racconta - è una cosa comune. Qualcuno paga molto bene l'equipaggio, fa caricare i container per scaricarli in mare». Quello che colpisce è però il luogo scelto. In un recente reportage della televisone franco-tedesca Arte sono state mostrate le immagini di navi europee che scaricavano centinaia di bidoni al largo dell'Atlantico, dove le fosse oceaniche raggiungono profondità altissime. Perché dunque puntare sul Tirreno? «Dipende dalla rotta, chiaramente», spiega Robert Groitl. «La posizione della zona a nord dell'Elba - continua - è poi ideale, perfetta. Ci sono tanti residui della guerra, bombe, aeroplani, sommergibili, c'è tanta roba sott'acqua in quella zona, relitti segnati sulle carte nautiche». Come al largo della Calabria, dove la storia del relitto di Cetraro - ancora da chiarire in molti aspetti - è stata chiusa dal ministero dell'Ambiente spiegando che si trattava per l'appunto di una nave affondata nel 1917. «Se buttano qualcosa vicino ai vecchi relitti gli strumenti si confondono - continua il racconto il ricercatore tedesco - è difficile individuare container o fusti». È come il famoso racconto di Poe, la lettera rubata: per far sparire qualcosa devi metterla magari in evidenza, ma dove però nessuno andrebbe a cercare.
Ora sappiamo che in un punto individuato da una nave della Nato c'è un container probabilmente buttato a mare dall'equipaggio della nave Toscana, intestata all'armatore tedesco Bertling FH, come risulta da un'ispezione della nave effettuata in Lituania lo scorso luglio; sappiamo che in quella zona starebbero morendo dei pesci, come raccontano alcuni pescatori. E sappiamo che chi ha buttato quel container ha cercato di speronare il battello degli ambientalisti tedeschi mentre cercavano di fotografare l'operazione. Il ministero dell'ambiente non ha, però, ancora attivato nessuna procedura d'intervento, perché «ad oggi non è stato ancora avvisato», spiega il portavoce del ministro Stefania Prestigiacomo. Eppure la Capitaneria di Porto è stata subito allertata e immediatamente, già a luglio, si è attivata inviando una relazione alla Procura di Livorno. L'inchiesta dei magistrati è già partita da questa estate con l'acquisizione del materiale fotografico realizzato dall'equipaggio della Thales. E la stessa capitaneria, subito dopo la segnalazione, cercò di raggiungere il mercantile, intervenendo immediatamente. All'appello manca solo il ministero della Prestigiacomo, che, d'altra parte, a Cetraro è intervenuto dopo un mese e mezzo dal ritrovamento del relitto. La Ong tedesca sta seguendo da vicino l'intera vicenda, anche perché in Germania la storia delle navi dei veleni non è passata innosservata. Robert Groitl - che per primo denunciò il caso - è stato minacciato direttamente, subito dopo l'avvistamento del Toscana. «Mi sono arrivate due o tre telefonate anonime - racconta - dicendomi di stare zitto, di fare attenzione alla mia nave, e alla mia vita». Chi organizza i traffici criminali di rifiuti sa che in questi casi il silenzio e le coperture sono essenziali.

da Indymedia

La Monferrato del Sud


di Norma Ferrara -
San Filippo del Mela: 101 morti d'amianto e nuovi esposti alle fibre killer.
"Ci dicevano che su quei sacchi di juta contenenti amianto e cemento potevamo persino mangiare. Ci dicevano che era sicuro, non avevamo nulla da temere”. Ricorda così quegli anni trascorsi ad impastare cemento e amianto nella fabbrica dell'ex Sacelit a San Filippo del Mela (Me) Domenico Nania, presidente del comitato ex esposti, animatore di una battaglia silenziosa e meno conosciuta di quella della tristemente nota: l' Eternit di Casale Monferrato (i titolari saranno a processo il prossimo 10 dicembre a Torino).
La Sacelit fu in attività per 34 anni producendo materiali per edilizia, in calcestruzzo e amianto, in Sicilia nella provincia di Messina, a San Filippo del Mela, una striscia di terra che divide Milazzo da Barcellona pozzo di Gotto (Me). La fabbrica sorgeva in contrada Archi, stretta fra una raffineria di petrolio (ancora funzionante – La Raffineria Mediterranea) impianti dell' Enel (Oggi Edipower) e un'acciaieria. 17 anni dopo la chiusura di quella che da queste parti venne chiamata “la fabbrica della morte”; metà degli operai (e mogli di operai) che lavorarono in quel distretto industriale sono morti e altri sono stati recentemente nuovamente esposti.

L'ultimo decesso è della scorsa settimana. Si chiamava Andrea Salvatore Benedetto, aveva lavorato per 25 anni nella Sacelit addetto alla produzione dei tubi, allo scarico dei sacchi di amianto. "Con Andrea sono 101 su 220 gli ex dipendenti deceduti nella "Fabbrica della Morte" di San Filippo del Mela - si legge in una nota del comitato ex esposti amianto - mentre la ASP di Messina, pur spesse volte sollecitata [...] ritarda di sottoporre ai controlli gli ex dipendenti che hanno lavorato all’interno, dell’azienda Killer e i loro familiari, che solo da pochi mesi siamo riusciti ad individuare".

Anche il presidente del comitato, Domenico Nania, ex operaio Sacelit è affetto da una malattia causata dalle fibre killer. Ci convive, continuando le sue battaglie intraprese negli anni '90 con il prezioso sostegno dell'avvocato Martelli, che ha seguito da vicino tutte le fasi del processo contro la Sacelit. Nel giugno del 2008 si è ottenuto il riconoscimento in sede processuale delle responsabilità penali per la Nuova Sacelit condannata a pagare circa 10 milioni di euro ai familiari delle vittime.

Quella della "Monferrato del Sud "è una storia meno raccontata, dimenticata in un paesino che fa a pugni con le questioni ambientali da decenni, senza trovare una soluzione.Quell'area industriale rappresenta per i comuni limitrofi una preziosa risorsa di posti di lavoro: lo è stata ai tempi della Sacelit, lo è ancora oggi grazie alle aziende rimaste su un territorio ritenuto però “area critica ad elevata concentrazione di attività industriali”, ai sensi dell’articolo 13 del D.Lgs. 334/99 e in cui i morti per tumore e malattie causate dall' inquinamento ambientale sono in continua crescita, tanto che la valle del Mela è ormai stata rinominata "la valle della morte".

La storia non insegna, verrebbe da dire. Non sono bastati i 101 morti di amianto di questi anni per fermare speculazioni e far maturare una coscienza e un'etica del lavoro. Si trova infatti in corso presso il tribunale di Barcellona pozzo di Gotto (Me) un nuovo processo che ha ad oggetto sempre lo stesso terreno sul quale sorgeva la Sacelit. Qui è accaduto l'impensabile. Nel 2002 a fronte di una certificazione di una bonifica mai avvenuta del terreno della ex Sacelit , rilasciata dalla Asl 5 di Messina, l'imprenditore Rosario Runza, presidente della società commerciale “Punto industria srl” decide di comprare quel terreno per farvi sorgere un deposito di derrate alimentari che attraverso il Consorzio “Europa distribuzione” commercializza in tutti i punti vendita di supermercati siciliani. Cibo all'amianto, in breve.

Una commissione di esperti del Ministero dell'ambiente nel gennaio 2007 ha accertato la presenza di rilevanti quantità di amianto sugli alimenti e sui macchinari utilizzati per il trasporto. Com'è stato possibile che accadesse di nuovo che quelle fibre d'amianto contaminassero lavoratori e cittadini?
Lo accerteranno in dibattimento i magistrati del tribunale barcellonese (pm il discusso Olindo Canali) dove il prossimo 25 novembre proseguirà il processo a carico dell'imprenditore e dei tre funzionari medici dell’Asl 5 di Messina che nel tempo hanno certificato l’idoneità del sito, Massimo Bruno, Guido Tripodi e il chimico Francesco Faranda.

Ai quattro imputati è contestato, in concorso, l’aggravante, l’art. 444 del codice penale che punisce il commercio di sostanze alimentari nocive e pericolose alla salute pubblica. Al presidente della “Punto industria srl”, Rosario Runza, è inoltre contestata la violazione delle norme di cui al Dpr 303 del 1956 sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e altre norme connesse a quelle legate all'amianto e alla sicurezza dei lavoratori.

Intanto quel che emerge dalla prima udienza è che tre dipendenti che avevano lavorato nel deposito hanno dichiarato di "non essere stati informati sui rischi e nemmeno sulle precauzioni da adottare sul lavoro, in quanto era stato assicurato loro che il deposito aveva subito i processi di bonifica". A 17 anni dalla messa al bando dell'amianto in Italia, le storie delle "fabbriche della morte" non insegnano e soprattutto sembrano non avere fine.

da AntimafiaDuemila

La moderna danza della pioggia

Studiate, sperimentate e discusse da oltre 50 anni, le tecniche di stimolazione della pioggia stanno guadagnando crescente attenzione in molti Paesi alle prese con gravi problemi di siccità

Il più grande arsenale del mondo di razzi, cannoni ed aerei è nelle mani della Cina, ma, in questo caso, non ha niente a che vedere con gli usi militari.
Stiamo parlando, infatti, di un arsenale “pacifico”, allestito per dare risposte ad uno dei problemi più drammatici con cui convivono numerose comunità umane. Il problema della siccità, delle prolungate stagioni senza pioggia che distruggono i raccolti, compromettono il sostentamento e peggiorano le condizioni igieniche delle popolazioni colpite.

Si tratta di un problema che i mutamenti climatici stanno ingigantendo in diverse zone del mondo, dove i deserti avanzano e le popolazioni migrano alla ricerca di migliori condizioni di sopravvivenza.
Questa situazione, ad esempio, si è manifestata in modo assai grave lo scorso inverno in alcune regioni del nord della Cina, ove le precipitazioni sono diminuite del 90%. Con il risultato che milioni di ettari coltivati e di persone sono rimasti senza pioggia per oltre 3 mesi.

Incrementare le precipitazioni

Il governo cinese si è mosso varando un programma straordinario di interventi, incentrato inizialmente sulla deviazione del corso dello Yangtze. Ma è stata solo una misura tampone in attesa di piogge che le previsioni dei meteorologi, giorno dopo giorno, rimandavano sine die. Di qui la decisione di affidarsi alla tecnologia e di procedere a tecniche di stimolazione artificiale della pioggia.

In pochi giorni circa 2.400 razzi, contenenti agenti chimici stimolanti, sono stati sparati nei cieli delle province di Shanxi, Shandog, Anhui, Jiangsu, Hebei e Gansu, e i risultati sono arrivati sotto forma di precipitazioni modeste, ma sufficienti ad allontanare l’emergenza.

Un intervento così massiccio e su un territorio così ampio ha rappresentato una novità per la stessa Cina che pure negli ultimi anni si è affidata abbondantemente alle tecniche di “inseminazione” delle nuvole.
Incrementare le precipitazioni si pone, del resto, come un obiettivo prioritario del governo cinese che ha oggi l’assoluta necessità, in una situazione di crisi economica internazionale che ha falcidiato milioni di posti di lavoro nelle città, di mantenere stabile il reddito agricolo. Questo spiega perché la Cina sia diventata in poco tempo il Paese leader della pioggia artificiale. Le statistiche del settore dicono che gli aerei del National Meteorological Bureau cinese hanno effettuato 2.840 voli tra il 2001 e il 2005 con un “bottino” di 210 miliardi di metri cubi di acqua riversata su un’area corrispondente ad un terzo dell’intero territorio cinese. Con benefici, peraltro, che non sono andati soltanto alle campagne. È stata con la pioggia artificiale, infatti, che si sono combattuti alcuni grandi incendi sviluppatisi recentemente nelle foreste delle province settentrionali e nordorientali. Ed è stata sempre la pioggia provocata dall’uomo, nel maggio 2008, a “lavare” Pechino dalla sabbia portata dalle grandi tempeste provenienti dall’Asia centrale.

Una storia cominciata in Israele

A credere nelle virtù della “inseminazione delle nuvole” sono oggi molti Paesi. A cominciare da Israele che è ha iniziato ad utilizzare queste tecniche negli anni ’50, ottenendo incrementi di precipitazioni intorno al 20% su base annua.
L’Italia, dal canto suo, è stata tra le prime nazioni mettersi sulla scia delle ricerche israeliane grazie all’attività della Tecnagro, una società di ricerca senza fini di lucro partecipata da importanti aziende e associazioni del mondo chimico e agricolo.
Proprio una équipe italo-israeliana diede vita al “Progetto Pioggia” che fu condotto in alcune regioni del Mezzogiorno e, soprattutto, in Puglia dal 1986 al 1994. Si è trattato di un’attività portata avanti fino ad anni recenti: nel 2003, ad esempio, un accordo raggiunto con l’Aereonautica militare, aveva messo a disposizione della Tecnagro strutture aeroportuali e meteorologiche.

Oggi, però, sono soprattutto le aree più assetate del Medio Oriente e dell’Africa a guardare con interesse a queste tecniche. È stata salutata come un grande successo, ad esempio, la sperimentazione condotta negli Emirati Arabi che hanno potuto godere di quattro giorni di fila di pioggia (un vero record per quelle zone!) dopo la campagna di “inseminazione” aerea condotta nei cieli di Dubai.
D’altra parte, a fronte di questi risultati le cronache registrano anche gli esiti assai modesti di alcune campagne, che hanno fatto gridare allo spreco delle risorse pubbliche.

Nel dibattito scientifico il tema della stimolazione artificiale delle piogge continua ad essere, in effetti, controverso. Ma l’interesse verso queste tecniche resta comunque elevato. Anche perché potrebbero rappresentare in futuro una carta importante da giocare nell’ambito delle politiche di adattamento ai cambiamenti climatici.

Quintino Protopapa (agosto 2009)

Fonte: http://www.enel.it/attivita/ambiente/ecology/impatto177_hp/impatto177/inseminazione/

La tecnica dell’ “inseminazione” dei cieli
La stimolazione delle piogge si ottiene diffondendo nell’aria – al di sotto delle nubi e per mezzo di aerei opportunamente attrezzati – particelle che presentano una struttura cristallina molto simile a quella del ghiaccio.
In presenza di alcune condizioni favorevoli, queste particelle vengono catturate dai moti convettivi dell’aria che li portano in alto, fin dentro le nubi, dove innescano un processo di formazione delle gocce di pioggia.
La sostanza che viene usata per queste operazioni è lo ioduro di argento. Esso viene bruciato in piccole quantità in una caldaia posta sull’aereo e il fumo che ne deriva risulta costituito, appunto, dalle minuscole particelle che vanno a stimolare le nubi.
Sotto il profilo ambientale non sembrano esserci controindicazioni. Si tratta, infatti, di una sostanza inerte e, del resto, se ne usa così poca e in un così vasto volume di aria da risultare quasi non rilevabile.
Per applicare questa tecnologia occorre, però, un’organizzazione efficiente, in grado di cogliere tempestivamente le condizioni atmosferiche favorevoli all’inseminazione. Ovvero, in grado di monitorare l’arrivo delle formazioni nuvolose segnalate dai satelliti, cercando di valutare tempestivamente la presenza di quelle condizioni di quota, umidità e temperatura che si prestano all’intervento. Solo se la lettura di questi dati lascia intravedere un ragionevole margine di successo, si fanno partire gli aerei. E si aspetta, fiduciosi, che lassù qualcosa succeda.

da Stampalibera

Di Pietro dice sì alla ri-candidatura di Vendola

BARI - Italia dei Valori non correrà da sola alle prossime regionali ed è pronta a sostenere la ri-candidatura del governatore Nichi Vendola, ma ad un patto: che si faccia piazza pulita, nella nuova coalizione di maggioranza, di tutti gli esponenti politici e istituzionali sui quali gravano ombre o sospetti di un loro coinvolgimento in inchieste giudiziarie.

Antonio Di Pietro ieri è tornato a Bari per sgomberare il campo dalle ipotesi su una corsa in solitario e fuori dall’alleanza pugliese del suo partito.
«Rispetto e ammiro Clementina Forleo - ha detto, escludendo l’ipotesi che pure era circolata di una candidatura della celebre togata brindisina - ma fa il magistrato e noi abbiamo adottato questa regola: o scegli di fare il magistrato o il politico, e se fai il politico lo fai per sempre. Dovrebbe dimettersi ma è ormai fuori tempo massimo». Niente fughe in avanti, dunque, ma sì alla «costruzione di una coalizione che sappia amministrare bene e non finire sotto i fari della Procura, come accaduto in Calabria, in Puglia ed ora anche in Lazio». Di qui l’invito al Pd a rimboccarsi le maniche: «noi abbiamo indicato le regole con cui andare avanti, senza mettere il cappello con nostri candidati - scandisce il leader Idv - ora tocca al Pd fare sintesi. Di certo non siamo pronti a costruire una coalizione a perdere». Quanto a Vendola, «sul piano personale non ho nulla contro di lui. Ritengo sia una persona per bene e dalle mani pulite. Il problema è che ha sbagliato a fidarsi e a nominare certe persone. Una classe dirigente che ha utilizzato la faccia di Vendola per farsi gli affari propri, oggi è bene che vada a casa politicamente e a rispondere alla magistratura delle proprie malefatte. Alle prossime regionali non possiamo rivedere certe facce che hanno già dato e soprattutto già preso. In questo senso l’Idv si sta facendo promotrice di una rinnovata coalizione, se ci riusciamo. Se non ci riusciamo, è ovvio che l’Idv chiederà direttamente agli elettori il consenso di poter governare la Regione».

La svolta sulla linea dei dipietristi è stata di certo determinata dall’elezione a leader nazionale di Pierluigi Bersani. Col Pd i rapporti si sono fatti più stretti e, parallelamente, è cresciuta la consapevolezza - dentro e fuori il Pd - che non si potesse prescindere dalla ricandidatura di Vendola, con o senza l’assenso dell’Udc. Di qui la sortita di Di Pietro, onde dare uno scossone agli alleati sui tempi ma anche per rassicurarli del fatto che se, arriveranno ostacoli, non sarà l’Idv a crearli.

«L'Idv è una forza politica che sente la responsabilità di costruire una alternativa di governo, non soltanto di fare testimonianza - sottolinea il leader, accompagnato dai parlamentari Pierfelice Zazzera e Pino Caforio e dal consigliere regionale Giacomo Olivieri - ma dev'essere una alternativa vera, basata sul ricambio generazionale delle persone, su un programma credibile e con persone credibili». L'Udc fuori dalla coalizione «larga» auspicata da D’Alema? «L’Udc ha già detto che non sta nè con il centrodestra nè con il centrosinistra, quindi è inutile discutere di qualcosa che non c'è: hanno già detto di no sia a Bersani sia a Berlusconi. Quando parlo di qualcosa di nuovo intendo le persone, non le sigle. Non rincorro quelli che vanno da soli».