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martedì 3 novembre 2009

L'atto finale di un genocidio


Gli indiani Akuntsu, uno di quei popoli incontattati che vivono nelle foreste, nudi, cacciando con archi e frecce, lontani e isolati da tutti, a serio rischio di estinzione

"L'atto finale di un genocidio. Il numero degli Akuntsu scende a 5". Con queste parole inizia la denuncia della Ong in difesa dei popoli indigeni Survival International, allarmata per la sorte degli Indiani Akuntsu, uno di quei popoli incontattati che vivono nelle foreste, nudi, cacciando con archi e frecce, lontani e isolati da tutti (circa un centinaio nel mondo). E che oggi rischiano di scomparire. Da sempre parte integrante dell'Amazzonia brasiliana, nello stato di Rondonia, loro terra ancestrale è ormai mangiata da allevamenti di soia e bestiame. La foresta pluviale si è ormai ridotta a un fazzoletto dove loro tentano di vivere, ormai ridotti a cinque, cinque unici superstiti di un popolo la cui origine si perde nella notte dei tempi. Pochi giorni fa è morto, infatti, Ururú, il loro membro più anziano.

Ururú era il cardine di questo compatto e ormai minuscolo gruppo che vive di caccia, e ne era parte integrante. "Era un combattente, era forte e ha resistito fino all'ultimo momento" racconta a Survival Altair Algayer, capo dell'equipe del Funai, il Dipartimento agli affari indigeni del governo brasiliano che protegge la loro terra. "E, purtroppo, sta molto male anche suo fratello Konibu", spiega.

Gli Akuntsu vivono in piccole maloche di paglia (case comuni). Sono abili cacciatori - pecari, aguti e tapiri sono prede molto ambite - e coltivano manioca e mais in piccoli orti. Raccolgono i frutti della foresta e talvolta pescano nei ruscelli. Costruiscono flauti di legno che vengono utilizzati in danze e rituali e indossano bracciali e cavigliere fatte di fibre ricavate dalla palma. Le collane di conchiglie sono state sostituite da quelle in plastica ottenuta, peraltro, dai contenitori dei pesticidi abbandonati come spazzatura dagli agricoltori.

A sterminare uno dopo l'altro l'intero popolo sono stati infatti i coltivatori di soia e gli allevatori di bestiame, per mano di killer al soldo.
Ururú ha assistito a questo barbaro genocidio giorno dopo giorno. Questa gente ha invaso e distrutto ettari ed ettari di foresta, la loro terra natale, quella madreterra che gli indigeni adorano e rispettano sopra a ogni cosa. Una sciagura, autorizzata da un governo senza scrupoli che, tra gli anni Sessanta e Settanta, ha aperto le porte ai progetti di colonizzazione e alla costruzione della famigerata superstrada BR 364 nello stato di Rondônia. Uno scempio che ha costretto gli Akuntsu a ritirarsi in triangoli di terra sempre più piccoli, a retrocedere davanti all'uomo bianco, alla sua prepotenza, alla sua mancanza di scrupoli. Fino al giorno in cui si spinsero fino alle loro case, con ruspe e fucili, distruggendo ogni cosa e sparando all'impazzata. Gli unici due uomini superstiti di quella mattanza, Konibú e Pupak, portano ancora oggi i segni di quella sparatoria, cicatrici di pallottole che li colpirono mentre fuggivano disperati. Nessuno è capace di comprendere la lingua degli Akuntsu, quindi è impossibile sapere con certezza l'orrore provato, ma gli sguardi, i gesti, le cicatrici, il tono della voce, la dicono lunga.
Inoltre, con Ururú se n'è andata la più grande memoria storica del suo popolo, se ne sono andati i dettagli, i particolari di quegli orrori subiti negli ultimi cinquant'anni e impressi in lui per sempre, ma mai nessuno potrà seppellire quella tragica verità.

Il Funai contattò gli Akuntsu nel 1995. Erano rimasti solo in sette. Gli assassini avevano cercato di nascondere le tracce del loro crimine, ricoprendo con la terra i villaggi distrutti dai bulldozer, ma l'équipe governativa individuò i resti delle case distrutte. E capì.
Come ricompensa demarcarono il territorio indigeno, riconoscendolo ufficialmente, e il Funai poté dunque porsi a difesa di quegli ettari preziosi, continuamente oggetti di tentativi di invasione da parte dei vicini allevatori. Il membro più giovane del gruppo, la figlia di Konibú, è morta nel gennaio del 2000.

"Con la morte di Ururú stiamo assistendo agli atti finali di un genocidio in pieno XXI secolo - ha commentato Stephen Corry, direttore generale di Survival - A differenza degli stermini di massa della Germania nazista e del Ruanda, il genocidio dei popoli indigeni continua negli angoli più remoti del mondo, sfuggendo alla vista e alla condanna dell'opinione pubblica. Anche se i numeri sono inferiori, il risultato non cambia. Le speranze di salvezza dei popoli indigeni cominceranno solo quando le loro persecuzioni saranno state finalmente riconosciute gravi tanto quanto la schiavitù o l'apartheid". Per gli Akuntsu, intanto, nessuna speranza. Tre donne e due uomini, ormai in età avanzata è tutto quel che rimane di una gloriosa tribù. E un'altra parte della stupefacente diversità dell'umanità scomparirà, per sempre.

di Stella Spinelli da PeaceReporter

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