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giovedì 10 febbraio 2011

FABRIZIO DE ANDRE' - RIFLESSIONI SULLE VARIE MAGGIORANZE E MINORANZE CHE COMPONGONO L'UMANITA'













Quando muoiono i bambini

Muoiono quattro bambini rom. Il sindaco sgombera, la magistratura inquisisce i genitori, che sostengono che l'incendio potrebbe essere doloso
Una vicenda che ricorda da vicino quella analoga avvenuta a Livorno nell'agosto del 2007: anche allora morirono quattro bambini, anche allora i genitori dissero che si trattava di un attentato. Arrivò persino la rivendicazione. In galera ci finirono comunque madri e padri.
E ricorda - per fortuna senza vittime - quella accaduta a Torino nell'ottibre del 2008.


Roma, 6 febbraio. Quattro bambini bruciano vivi in una baracca ai margini del nulla metropolitano.
Siamo a Tor Fiscale. Assi, plastica, poche povere cose. Basta una scintilla, un braciere acceso per tenere lontano l’inverno, e il fuoco si mangia tutto.Il resto è copione già visto. La disperazione dei parenti, l’indignazione del sindaco post fascista della capitale, che strilla che servono poteri speciali per fare campi sicuri, che si infuria contro la burocrazia. Un alibi traballante ma poco importa. In fondo sono solo zingari.
La mattina dopo arrivano le ruspe e tirano giù tutte la baracche. L’ordine è ripristinato.
Arriva anche la magistratura, che mette sotto inchiesta il padre e le due madri: abbandono di minore. La madre di tre dei bambini e nonna del quarto non crede all’incidente: il braciere era lontano, le fiamme sono divampate troppo in fretta.
Una vicenda che ne ricorda un’altra di quattro anni fa.
Quattro bambini rom morirono nell’incendio di una baracca di legno sotto ad un cavalcavia, vicino alla raffineria di Stagno, a Livorno, l’11 agosto del 2007. I genitori vennero arrestati con l’accusa di abbandono di minore e di incendio doloso, nonostante avessero detto di essere stati aggrediti. Prosciolti dall’accusa di incendio doloso, patteggiarono e vennero scarcerati perché incensurati. Sulla vicenda calò il silenzio nonostante il rogo fosse stato rivendicato del GAPE – Gruppo Armato di Pulizia Etnica.

Quando ci sono di mezzo i rom viene sfogliato l’intero florilegio di pregiudizi razzisti nei loro confronti. Se i bimbi muoiono è colpa loro, che non ci badano, che vanno in giro a rubare, che li fanno vivere in roulotte e baracche.
Come se qualcuno – davvero – potesse scegliere di vivere di elemosina in una baracca senza nulla.
Esemplari le dichiarazioni razziste di Tiziana Maiolo, di Futuro e libertà, dopo il rogo di Tor Fiscale. Per lei i bambini Rom che fanno pipì sui muri sono meno educati del suo cagnolino.
Nel luglio del 2008 una bambina rom, appena sgomberata da una ex fabbrica abbandonata in via Pisa a Torino, disse “almeno per un po’ ho vissuto in una casa vera”. Una casa con il gabinetto. E porte, finestre, luce… Dopo lo sgombero la riportarono lungo il fiume in una baracca piena di topi.

A Torino, il 14 ottobre del 2008 andò a fuoco un campo rom in via Vistrorio. Tre molotov in punti diversi e l’insediamento sulle rive del torrente Stura dove vivevano 60 persone andò in fumo.
Non andò peggio perché un ragazzo diede l’allarme. I giornali allusero alla possibilità che il campo l’avessero bruciato gli stessi rom, per forzare la mano al comune ed ottenere posto nell’area allestita per l’emergenza freddo. Le prove? Non era morto nessuno!
Qualche mese dopo, la magistratura, dopo decine di aggressioni a immigrati e tossici, mise gli occhi sul gruppo fascista “Barriera Domina”: nei telefonini di alcuni di loro trovarono le scansioni dei giornali che parlavano del rogo di via Vistrorio. Due righe in cronaca e poi l’oblio. Chi ha dato ha dato, chi avuto avuto.
Sulla vicenda il sito Ojak, oggi purtroppo non più attivo, fece una controinchiesta.

Quelli come Alemanno vogliono i campi. Altri vorrebbero cacciare tutti. I più chiudono gli occhi e non guardano, magari si commuovono anche un po’. I bambini fanno sempre tenerezza.

Il rogo di Tor Fiscale, come già quello di Stagno, ha fatto notizia perché i bambini erano quattro, altrimenti sarebbero bastate poche note in cronaca, ordinaria amministrazione.
Un bambino muore di freddo, un altro bruciato, un altro se lo porta via una banale influenza.
Infinito l’elenco dei campi rom andati in fumo. A volte distrutti da bravi cittadini, decisi a fare pulizia. Etnica. Altre volte bruciati dalla povertà che non concede sicurezza.

Resta il fatto che quei quattro bambini sono stati ammazzati. Resta il fatto che ogni giorno, in qualche dove, c’è qualcuno che muore. Muore di povertà.
La povertà non è un destino.
I responsabili siedono sui banchi dei governi e nei consigli di amministrazione delle aziende.
Nessuno si creda assolto, perché l’indifferenza è complicità.


Related Link: http://senzafrontiere.noblogs.org
da Indymedia

TONY TROJA -Marchionne (du du du)

mercoledì 9 febbraio 2011

Tahrir: atteso in piazza l'eroe di Google


da fortresseurope.blogspot.com
CAIRO - “La libertà è una benedizione per cui vale la pena lottare”. Twitter, 8 febbraio 2011. Sono le prime parole postate in rete da Wael Ghonim, il nuovo eroe di piazza Tahrir, che lunedì ha commosso l'Egitto con una sua intervista a Dream Tv. È il numero uno di Google in Egitto, e da 12 giorni era semplicemente scomparso. Di lui non si sapeva più niente, se fosse stato ucciso o arrestato. Ieri ha raccontato di essere stato sequestrato la notte tra il 27 e il 28 gennaio, all'una di notte, da quattro agenti in borghese che lo hanno acciuffato per strada mentre aspettava un taxi con un amico. Lo hanno portato via bendato e ammanettato, e la benda dagli occhi non gliel'hanno tolta per tutti i dodici giorni di detenzione, durante i quali è stato sottoposto a insistenti interrogatori, accusato di essere un cospiratore al soldo degli Stati Uniti o dell'Iran.
Al pubblico ha chiesto di non stampare manifesti con la sua immagine, di non fare di lui un eroe. Perché gli eroi sono altri. Sono i ragazzi morti in piazza sotto gli spari dei cecchini di Mubarak e delle bande criminali dei baltagia.

Quando ieri nell'intervista a Dream Tv, la conduttrice Mona al Shazly ha fatto scorrere le immagini dei martiri, Wael non ce l'ha fatta a trattenersi ed è scoppiato in un pianto liberatorio. “Voglio dire a ogni padre e a ogni madre che ha perso suo figlio, che non è colpa nostra. Lo giuro su dio, non è colpa nostra. É colpa di tutti quelli che tengono in mano il potere con avidità e non lo lasciano andare”. Con lui si è commosso tutto il paese. Perché Wael è il simbolo di questa rivoluzione. Trentenne, capo esecutivo di Google per il Medio Oriente, sposato con un'americana, è l'amministratore del gruppo facebook più importante in Egitto. Si chiama “Tutti noi siamo Khaled Saied” e conta più di 540.000 iscritti. È da qui che è nata la rivolta. Ben prima della rivoluzione in Tunisia.

Comincia tutto il 7 giugno 2010. Siamo a Alessandria. Quella sera Khaled Saied (il ragazzo della foto) si presenta al solito internet caffé a Sidigaber.
Arrivano due poliziotti, si chiamano Mahmoud Alfallah e Awaad Elmokhber. Chiedono a tutti i documenti con la solita arroganza. Khaled rifiuta di mostrare le proprie carte e per questo viene aggredito brutalmente. Prima lo riempiono di calci e poi gli fracassano la faccia contro un ripiano di marmo. Dopodiché lo trascinano ancora sanguinate dentro la macchina, diretti al commissariato di polizia, dove lo finiscono inferociti. A quel punto, per non destare sospetti, abbandonano in mezzo alla strada il cadavere martoriato dalla violenza. Non è il primo caso, nè l'ultimo. Ma stavolta qualcuno trova il coraggio di far circolare le fotografie del volto massacrato di Khaled. E il resto lo fa la rete.

Grazie all'attivismo di Wael Ghonim e del suo gruppo su facebook, emergono altri casi di tortura e iniziano a circolare dati come quelli raccolti dall'Organizzazione egiziana per i diritti umani, che dal 1993 al 2007 ha documentato 567 casi di tortura nei commissariati di polizia, 167 dei quali finiti con la morte della vittima. Ne nascono accesi dibattiti sui forum online. Viene rimessa in discussione la legge di stato di emergenza che governa il paese dalla salita al potere di Mubarak nel 1981, si apre una discussione sulla corruzione. E non solo sulla pagina di Ghonim.

Su facebook infatti c'è un altra importantissima pagina. Si chiama "I ragazzi del 6 aprile", conta più di 90.000 iscritti, ed è nato nel 2008, da un'idea di Ahmed Maher e Ahmed Salah, come gruppo di sostegno allo sciopero generale lanciato dai lavoratori di Mahalla el Kubra, città industriale a un'ora dal Cairo, per il 6 aprile appunto. È un'iniziativa sovversiva, in quanto sotto la legge di emergenza gli scioperi sono vietati. Internet diventa l'unico mezzo per organizzarsi e aggiornarsi in tempo reale sulle proteste messe in piedi in molte città d'Egitto. La giornata finisce con due morti ammazzati dalla polizia a Mahalla e con l'arresto di decine di attivisti e blogger, compreso il coordinatore di Kifaya, un movimento di opposizione nato nel 2004.

Tutte queste forze riunite lanciano su internet una grande manifestazione contro la tortura e la violenza della polizia e per la fine della legge di emergenza. Viene scelta la data del 25 gennaio appunto, che in Egitto è la festa della polizia. È una festa istituita dallo stesso Mubarak, due anni fa, nel 2009, per commemorare la strage dei 50 poliziotti ammazzati il 25 gennaio del lontano 1952 dall'esercito inglese dopo aver rifiutato di ritirarsi dal commissariato di Ismailia.

Nel frattempo però scoppia la rivoluzione in Tunisia e il 14 gennaio Ben Ali abbandona il paese. L'esito vittorioso di quella rivoluzione alimenta le speranze dei giovani egiziani. Lo stesso può accadere anche in Egitto. E allora i social network alzano la posta in gioco e rilanciano un appello per la fine del regime. Il resto lo fa la gente. Perché non avrebbe senso oggi cercare i leader della piazza. La protesta è ormai dilagante e spontanea e coinvolge tutta la popolazione e tutto il paese. Non c'è organizzazione, né ci sono leader, dietro ai milioni di persone che in queste due settimane sono sces in piazza a chiedere la testa di Mubarak. Quella protesta oggi entra nel suo quindicesimo giorno con l'aspettativa di una grande concentramento a piazza Tahrir, dove potrebbe prendere la parola lo stesso Wael Ghonim.

Ad accoglierlo ci saranno le immagini di decine di martiri. I nuovi manifesti sono iniziati a circolare due giorni fa, dopo le pubblicazioni delle prime biografie sul quotidiano Almasri Alyoum. Alcuni ritraggono ragazzi sorridenti, altri invece mostrano le crude immagini di volti insanguinati e senza vita delle vittime. Gli slogan scritti sopra le foto sono gli stessi: “Il sangue dei martiri non va perduto”. Oppure: “Non ti dimenticheremo”. C'è la foto del bambino di 10 anni ucciso a Rafah, Bilal Salim Aisa Muhamad. C'è la foto di Islam Refaat Mahmud, 35 anni, ucciso a Alexandria. E poi Hitham Hamidi, 33 anni, proprietario di una piccola ditta di materiali elettronici, asfissiato dai lacrimogeni il 28 gennaio al Cairo. Hussein Mohammed, 25 anni, investito da un'automobile della polizia al Cairo il 28 gennaio. E poi ancora Ali Fathi, Karim Bnuna, Hussein Qawni Mohammed, Ahmed Sherif Mohammed, Mahmud Mohammed Hasan, Seif Allah Mustafa, Habiba Mohammed Rashid e la ragazza uccisa dai baltagia a piazza Tahrir mercoledì scorso, Sali Zahran.

Quelle immagini danno coraggio alla piazza. Nessuno da qui sembra disposto ad andarsene prima della caduta del regime. Qualcuno ha scritto su un cartello: “Dio perdonami perché avevo paura e ho taciuto”. Bene, la paura adesso non c'è più. E la settimana si annuncia carica di nuove manifestazioni in tutto l'Egitto.

In strada oggi torneranno anche gli attivisti del Hisham Mubarak Centre arrestati giovedì scorso dalla polizia militare e finalmente rilasciati sabato, senza accuse a loro carico, dopo 48 ore di ansia in cui nessuno sapeva che fine avessero fatto. La conferma arriva da Nadim Mansur, coordinatore delle attività di ricerca del centro che dal 1999 fornisce supporto legale a migliaia di cittadini, grazie alla sua rete di avvocati in tutto il paese. Alla sede del centro, in via Suq Tawfiqiya, tutti hanno colto il messaggio intimidatorio delle autorità egiziane, ma sono decisi a riprendere il lavoro, nonostante le mille difficoltà. L'irruzione di giovedì scorso ha portato all'arresto di 25 attivisti del Hicham Mubarak Centre e dell'Egyptian Center for Economic and Social Rights, compresi due militanti di Amnesty International, uno di Human Rights Watch e due giornalisti francesi. Con le pistole puntate addosso e sotto la minaccia di morte, sono stati caricati sui mezzi militari e portati in un centro dei servizi militari, al Cairo, dove hanno subito un interrogatorio, fortunatamente senza subire torture.

I militari hanno anche sequestrato tutti i computer del centro, lasciando poi il resto del lavoro a una banda di criminali assoldati per l'occasione, i famosi baltagia, che armati di spranghe e coltelli hanno portato via dal centro tutto quello che c'era da rapinare. Al punto che oggi, il primo problema è capire come riorganizzare il materiale degli oltre 700 casi che gli avvocati del centro hanno seguito durante gli ultimi dodici mesi. Ma qui nessuno si arrende. E anzi stanno tutti tornando a lavorare sul dossier che molto probabilmente sta alla base della spedizione dei militari della settimana scorsa.

Si tratta del file sulla strage dei martiri. Secondo le informazioni raccolte dal centro, le vittime sarebbero almeno 200 al Cairo, e tra i tre e i quattrocento in tutto il paese. I bollettini degli ospedali del Cairo parlano di 145 morti censiti nei cinque principali ospedali e di altri 60 negli ospedali minori. A cui vanno aggiunti le decine di morti nelle altre regionoi, soprattutto a Suez e Alexandria. L'obiettivo è lanciare una campagna di informazione che possa poi portare anche e soprattutto a delle azioni legali contro i responsabili del massacro.

Perché dietro alla strage c'è un preciso disegno del governo. Che prima ha ritirato la polizia dalle strade della città, per poi liberare i prigionieri dalle carceri e mandarli affiancati da poliziotti in borghese a terrorizzare la gente in piazza e nei quartieri. Fortunatamente la gente si è organizzata, con i comitati di quartiere che per giorni hanno controllato 24 ore su 24 gli accessi a tutte le strade e i palazzi, armati di spranghe e mannaie. Adesso la situazione è rientrata, ma qualcuno inizia a essere stanco di questa situazione di stallo. Le banche sono chiuse, le scuole pure. Qualcuno inizia a dire che sì siamo d'accordo con i ragazzi della rivoluzione, ma visto che Mubarak non parte, piazza tahrir deve svuotarsi, perché dobbiamo tornare a vivere in tranquillità. Mubarak lo ha capito. E sta prendendo tempo. Ma la piazza è ancora calda, ogni giorno transitano dal sit in almeno centomila persone e nessuno è disposto a mollare questo pacifico assedio.

Gente come Ahmed, studente del quarto anno di ingegneria, che ieri sera mi ha tenuto due ore a parlare, mostrandomi sul cellulare i video girati durante gli scontri di venerdì 28 gennaio, spiegandomi le tattiche di guerriglia che avevano adottato per costruire le barricate dietro cui difendersi, facendo inaspettati paragoni con certi videogiochi. E poi le foto della sorella, colpita alla gamba da un proiettile a pallini, di quelli usati per la caccia. Ahmed ci crede ancora, dà per scontata la vittoria e già discute sul dopo Mubarak, con un totocandidato che assomiglia ai titoli in prima pagina sui giornali dell'opposizione di questa mattina.

Personalmente, mentre mi avvio in piazza Tahrir, in testa ho una sola domanda: cosa succederà se questi ragazzi non otterranno niente con questa straordinaria protesta pacifica? Ma poi ripenso a Gramsci, e al pessimismo della ragione affianco l'ottimismo della volontà. Fate circolare queste informazioni, il popolo egiziano merita tutta la solidarietà del mondo.

La Spoon River dei martiri di Piazza Tahrir


da fortresseurope.blogspot.com
CAIRO – Mohamed, Ahmed, Farouk, Eslam, Hamada, Muhammad, Saif. Professione: giornalista, artista, avvocato, studente, autista, medico, disoccupato. Anni: 36, 31, 40, 22, 30, 26, 16. Colpito da un proiettile mentre filmava gli scontri tra polizia e manifestanti. Colpito da un proiettile al collo, poi investito da un'automobile. Bruciatosi davanti al parlamento per protesta. Investito da un'auto. Colpito da un proiettile. Colpito da un proiettile al petto. Colpito da un proiettile. Da oggi anche il Cairo ha la sua Spoon river. È una pagina internet, ospitata sul sito 1000 memories, che sta raccogliendo sul web tutte le notizie relative ai martiri della rivoluzione egiziana.
Per ora sono riusciti a raccogliere i dati di 136 vittime. Nome e cognome, foto, età, professione, luogo dell'omicidio e tipo di incidente. Le informazioni sono caricate direttamente dagli amici e dai parenti dei morti. L'iniziativa è nata da un'idea di Mahmoud Hashim, un egiziano di Toronto, in Canada, che ha voluto creare sul web un tributo virtuale alla memoria dei martiri. Ma la cosa interessante è che in modo spontaneo sta succedendo la stessa cosa anche in piazza Tahrir.

I primi poster dei martiri sono comparsi domenica pomeriggio. Dietro il palco hanno appeso il primo. C'è una foto di un ragazzo sorridente. Mustafa Samir El-Sawi. C'è scritto “Non ti dimenticheremo, sei un maritre eroe, un martire della libertà, un amico del corano”. Non lontano, per terra qualcuno ha scritto la parola shuhada', martiri, con le pietre che fino a qualche giorno fa venivano usate per la sassaiola. Accanto hanno fatto sdraiare due bambini, i piedi nudi e gli occhi chiusi, immobili, fingono di essere morti, ognuno ricoperto dalla bandiera egiziana. In mezzo a loro, un'altra bambina di sei sette anni, sulle spalle del papà, canta gli slogan della rivoluzione, incoraggiata da decine di passanti.

Anche la stampa oggi dedica uno speciale ai martiri. Sul quotidiano Almasri al Youm, c'è un'intera pagina con le storie e le foto di 11 dei martiri, compresa una ragazza. In piazza molti hanno appeso quella pagina sui muri perché la gente legga. Altri la portano in giro come se fosse un manifesto. I parenti delle vittime invece in giro portano le loro storie.

Come i due fratelli maggiori di Amir Magdi AlAhwal, 24 anni, della città di Abu Awali. Sono venuti apposta da Minufiyah, dopo aver fatto il funerale di Amir, ucciso giovedì scorso dai cecchini di Mubarak non lontano da Tahrir. Chiedo a uno di loro di scrivermi il nome completo del martire sul taccuino. Aggiunge un commento, in arabo: “mio fratello è morto martire per domandare la libertà e la dignità del cittadino dalla corruzione del governo”. Il dolore è ancora tanto per aggiungere altre parole.

Le parole invece non mancano al professor Shadi, collega di Ahmed Basiouny, ucciso da un proiettile dei cecchini di Mubarak lo scorso 28 gennaio. I suoi studenti si sono ritrovati oggi in piazza per appendere uno striscione con la sua foto e le sue ultime parole postate su facebook prima di essere ammazzato. “Era un genio dell'arte, un talento di quelli che nascono una volta in ogni generazione. All'università ci insegnava la libertà, perché l'arte è libertà, e in piazza era venuto per lo stesso motivo”. Pittore e brillante musicista di elettronica tra i più in vista della scena contemporanea, quel venerdì era uscito preparato al peggio. L'ultima fotografia lo ritrae con la maschera antigas per i lacrimogeni e un cappotto pesante per le manganellate della polizia. Non è stato sufficiente. Una pallottola al collo gli ha tolto la vita. Oltre ai suoi studenti, e ai suoi amici - più di 4.000 hanno sottoscritto la sua pagina facebook - lascia la moglie e due bambini, uno di sei anni e una bimba appena nata, di un mese. I suoi studenti organizzano per oggi una commemorazione pubblica, dopo i tanti messaggi di solidarietà aririvati sul web sulla pagina di 1000 memories. Mentre 100 Radio Station sta mandando in onda una playlist con i suoi pezzi.

da fortressEurope

Haiti, la società civile alza la voce

In Italia i rappresentanti della società civile haitiana raccontano il Paese a un anno dal terremoto

Il terremoto e la situazione politica disastrosa. Poi gli aiuti umanitari e il colera. Infine, le difficoltà legate all'elezione di un nuovo presidente: nulla sembra essere dalla parte della popolazione a Haiti.
In tanta confusione però, c'è ancora qualcosa che si può salvare: il lavoro di Aumohd (Action des Unités Motivées puor une Haiti de Droit), un'organizzazione totalmente composta da volontari, che si occupa della difesa dei diritti dei più deboli.
A raccontare il lavoro dell'associazione ci ha pensato il suo presidente, l'avvocato Evel Fanfan, invitato in Italia per una conferenza tenutasi presso la sede della Cisl a Milano.
La sua preoccupazione maggiore è l'assoluta mancanza di dialogo fra le parti, in questo caso fra le autorità e la società civile, mai interpellata per tastare il polso della situazione reale del popolo.

L'avvocato Fanfan, che a causa dei suoi innumerevoli dossier sulle malefatte della polizia e della Minustah (la Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite in Haiti) ha subito minacce e attentati, ha le idee chiare: "Non ci può essere ricostruzione senza giustizia sociale".
Questo è il messaggio che l'avvocato e la sua associazione vorrebbero far arrivare anche a Bill Clinton, ambasciatore Onu per Haiti e coordinatore insieme all'ex presidente Usa, George W. Bush, degli aiuti umanitari per l'isola.
È proprio quello della giustizia sociale il nodo da sciogliere a Haiti prima che tutto si sfasci completamente. Si chiede l'avvocato: "Come è possibile che ad un anno dal terremoto ci siano ancora decine di migliaia di persone costrette a vivere in tendopoli dove le condizioni igieniche sono tremende?". Difficile dare una risposta. Impossibile risolvere un problema tanto grande soprattutto se si tiene in considerazione, come ricorda Fanfan, che "gli aiuti economici arrivati dalla comunità internazionale sono stati utilizzati male e per ora non hanno dato alcun risultato positivo".

É un fiume in piena l'avvocato. La possibilità di raccontare la reale situazione del Paese ad una platea straniera, è un'occasione che non poteva perdere. E allora per chi ascolta è difficile calarsi in quel paese e nella sua gente. Fanfan è un personaggio scomodo ad Haiti non c'è dubbio. Lo è soprattutto per le sue inchieste su fatti di cronaca nera che riguardano gli abusi della polizia e della Minustah.
Ad esempio Aumohd ha accertato le responsabilità della polizia sul massacro di Martissant-Grand Ravin dove la polizia sparò sulla gente causando la morte di 100 persone. Oppure il dossier sul massacro di Plateau Central-Belladere, dove le ex Forze Armate di Haiti e gli ex militari massacrarono centinaia di civili. E ancora dossier sui crimini commessi dalla Minustah a Cité Soleil e l'assoluta mancanza di rispetto dei diritti dei lavoratori ala Cd Apparel dove sono stati licenziati in 500.
L'associazione punta molto sulla diffusione del codice del Lavoro fra tutti i lavoratori haitiani. Fanfan per rendee partecipe la popolazione e istruirla al meglio si è inventato una cosa: ha preso il codice, l'ha tradotto dal francese al creolo haitiano, l'ha stampato e lo ha diffuso. Fino a oggi sono oltre 20 mila i lavoratori che grazie all'opuscolo hanno ben chiari quali sono i loro diritti e i loro doveri di lavoratori. E grazie a queste conoscenze oggi sono più in grado di farsi rispettare.

da PeaceReporter

venerdì 4 febbraio 2011

La rivolta anti-Mubarak


Sotto il cielo il caos...
di Slavoj Zizek

Quel che salta subito all'occhio nelle rivolte di Tunisia e d'Egitto è la massiccia assenza del fondamentalismo islamico: secondo la migliore tradizione laica e democratica la gente si è limitata a rivoltarsi contro un regime oppressivo, la sua corruzione e la sua povertà, chiedendo libertà e speranza economica. La cinica convinzione occidentale secondo cui nei paesi arabi la coscienza genuinamente democratica si limiterebbe a piccole élite liberal, mentre le grandi masse possono essere mobilitate solo dal fondamentalismo religioso o dal nazionalismo si è dimostrata erronea.
Il grosso interrogativo è naturalmente: che succederà il giorno dopo? Chi ne uscirà vincitore?
.Quando a Tunisi è stato nominato un nuovo governo provvisorio, ad essere esclusi erano gli islamisti e la sinistra più rivoluzionaria. L'autocompiaciuta reazione liberal fu: bene, sono fondamentalmente la stessa cosa, due estremi totalitari - ma davvero le cose sono tanto semplici? Il vero, eterno, antagonismo non è piuttosto tra islamisti e sinistra? Ammesso pure che adesso siano uniti contro il regime, una volta vicini alla vittoria si divideranno, e si scontreranno tra loro in una lotta mortale spesso più feroce di quella contro il nemico comune.
Non abbiamo forse assistito proprio a una lotta del genere dopo le ultime elezioni in Iran? Le centinaia di migliaia di sostenitori di Moussavi lottavano per il sogno popolare che ha puntellato la rivoluzione di Khomeini: libertà e giustizia. Anche se quel sogno era un'utopia, significava la salutare esplosione della creatività politica e sociale, esperimenti di organizzazione e dibattiti tra studenti e gente comune. Quella genuina apertura che aveva liberato forze inaudite di trasformazione sociale, in un momento in cui «tutto sembrava possibile», fu poi completamente soffocata dall'andata al potere dell'establishment islamista.
Anche nel caso di movimenti chiaramente fondamentalisti, dovremmo stare attenti a non confondere la loro componente sociale. I taleban vengono puntualmente presentati come un gruppo fondamentalista islamico che impone la sua legge con la forza - però, quando nella primavera del 2009, s'impadronirono della Valle di Swat in Pakistan, il New York Times scrisse che «avevano organizzato una rivolta di classe sfruttando le fratture profonde presenti nella società tra un piccolo gruppo di ricchi proprietari terrieri e i loro fittavoli senza terra». Se «approfittando» della situazione contadina, i talebani avevano «lanciato l'allarme su quel rischio in Pakistan, che rimaneva in larga parte feudale», cosa impediva ai liberal in Pakistan così come negli Stati Uniti di «approfittare» di questa causa ed aiutare i contadini senza terra? Il fatto è che in Pakistan le forze feudali sono il «naturale alleato» della democrazia liberal.
La conclusione inevitabile cui dovremo giungere è che l'islamismo estremista è sempre stato l'altra faccia della scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani. Quando l'Afghanistan viene rappresentato come il paese islamico più fondamentalista, chi è che ancora ricorda che, solo 40 anni fa, era un paese dalle forti tradizioni laiche, perfino con un forte partito comunista andato al potere indipendentemente dall'Unione sovietica? Dov'è andata a finire quella tradizione laica?
Ed è importantissimo leggere su tale sfondo quello che sta succedendo oggi a Tunisi e in Egitto (e in Yemen e... forse, speriamo, perfino in Arabia saudita!). Se la situazione si «stabilizzerà» e il vecchio regime potrà sopravvivere con un bel po' di chirurgia estetica, la cosa finirà per sollevare uno tsunami fondamentalista. Perché il nucleo forte dell'eredità liberal possa sopravvivere i liberal hanno bisogno dell'aiuto fraterno della sinistra rivoluzionaria. Per quanto marginalizzata, questa sinistra laica esiste a Tunisi così come in Egitto, dove hanno lasciato sopravvivere alcuni piccoli partiti di sinistra a patto che rimanessero marginali e che non criticassero il governo troppo concretamente (nomi importanti come quelli di Mubarak erano off limits, eccetera). Bisogna rendersi conto che il loro rafforzamento e la loro inclusione nella nuova vita politica nel lungo periodo sono la nostra unica protezione contro il fondamentalismo religioso.
La più vergognosa e pericolosamente opportunistica reazione ai tumulti egiziani è stata quella di Tony Blair come riferito dalla Cnn: il cambiamento è necessario, ma dovrebbe essere un cambiamento stabile. «Cambiamento stabile» in Egitto oggi può significare solo un compromesso con le forze di Mubarak attraverso un blando allargamento della cerchia di governo. È per questo che parlare oggi di transizione pacifica è un'oscenità: schiacciando l'opposizione, Mubarak lo ha reso impossibile. Dopo aver mandato l'esercito contro i ribelli, la scelta è chiara: o un cambiamento cosmetico in cui qualcosa cambia perché tutto possa rimanere uguale, oppure la rottura vera.
Eccoci allora al momento della verità: non si può sostenere, come fu dieci anni fa nel caso dell'Algeria, che permettere vere elezioni libere coincida col consegnare il potere ai fondamentalisti musulmani. Israele s'è tolto la maschera di ipocrisia democratica appoggiando apertamente Mubarak - e sostenendo il tiranno contro cui si batte il popolo ha ridato fiato all'antisemitismo!
Un'altra preoccupazione dei liberal è che non ci sia un potere politico organizzato in grado di sostituirglisi se Mubarak va via: ma certo che non c'è, se n'è occupato personalmente Mubarak riducendo ogni opposizione a un fatto decorativo e marginale e il risultato suona come il titolo di quel romanzo di Agatha Christie: E non ne rimase nessuno (titolo originale di Dieci piccoli indiani, ndr) L'argomento di Mubarak è «o lui, o il caos», ma è un argomento che gli si ritorce contro.
L'ipocrisia dei liberal occidentali è spaventosa: hanno sostenuto pubblicamente la democrazia, e ora che la gente si rivolta contro i tiranni in nome di una libertà laica e della giustizia e non in nome della religione, sono tutti «profondamente preoccupati»... Perché tanta preoccupazione? Perché non invece la gioia per questa occasione di libertà? Oggi più che mai risulta pertinente il vecchio motto di Mao Ze Dong: «Sotto il cielo il caos - la situazione è eccellente».
Ma dove deve andare allora Mubarak? Qui la risposta è chiara: a L'Aia. Se c'è un leader che merita di sedere lì, è lui!

Traduzione di Maria Baiocchi

Tratto da:Il Manifesto

Maroni ai pastori sardi: “Non sono stato io. Non ho visto niente.”


di isoladeicassintegrati.com da Reset-Italia.net
Il Movimento Pastori Sardi incontra ad Oristano il Ministro degli Interni Roberto Maroni, che promette soluzioni e… scuse. Forse.

Era in corso l’incontro a Oristano tra i sindaci sardi e il ministro per parlare del problema violenza nei paesi dell’isola. Sí, violenza nell’isola. Non era certo in programma discutere dei pastori picchiati e sequestrati a Civitavecchia lo scorso 28 dicembre. Però il Movimento Pastori Sardi c’è andato ugualmente a Oristano, per manifestare a centinaia nella zona del Teatro Garau, dove si svolgeva la riunione.Facciamo un passo indietro. Qualche mese fa i loro problemi furono “magicamente risolti” dal cappellaio magico dell’isola, Ugo Cappellacci: un perfetto sconosciuto eletto al comando della Sardegna ma che ora tutti conosciamo bene per il suo indegno operato, purtroppo. Ricordiamo ai meno informati che, come prassi, le promesse del governatore regionale vengono sempre prontamente smentite a poche ore dagli accordi.

E mentre la pastorizia dell’isola affronta la più grande crisi economica che si ricordi, il movimento minaccia un blocco totale delle produzioni e chiede risposte. Le chiede alla Regione, ma anche allo Stato. Peccato, però, che l’ultima volta che hanno provato ad andare a Roma siano stati picchiati e bloccati al porto di Civitavecchia da uno squadrone della polizia. Una sorta di arresto preventivo. Un sequestro preventivo, per meglio dire.

Maroni ha quindi acconsentito a un incontro con i vertici del MPS: Felice Floris, Maria Barca e Andrea Cinus, che hanno potuto esporre al ministro le loro rivendicazioni riguardo lo scandaloso trattamento riservatogli a Civitavecchia. Il leghista si è tenuto sul vago:

Non sapevo niente… cioè ho appreso la notizia dai telegiornali…

…queste affermazioni sono molto comuni tra i ministri di questo governo…

E comunque, davvero, non ho dato io l’ordine di bloccarvi al porto…

..mmh…

Se la magistratura confermasse che le forze dell’ordine hanno esagerato – dicesi ‘sequestro di persona’ – allora chiederò scusa pubblicamente…

…in piedi, alla lavagna, davanti a tutta la classe?

Nonostante questo approcio da “esterno”, tipico di chi non vede, non sente, non parla, i vertici del Movimento Pastori Sardi si sono detti soddisfatti dell’incontro con Maroni: “Abbiamo parlato della condizione dei pastori sardi e dei problemi del settore, ed il ministro ha dato la sua disponibilità a farsi portavoce delle nostre rivendicazioni nei confronti del Governo e anche a studiare soluzioni e interventi per affrontare la crisi”, riferisce Felice Floris ai giornalisti.

Promesse promesse promesse… sembra che per obbligare un ministro della Repubblica Italiana a fare il suo lavoro sia necessario braccarlo in cento. Circondarlo, insomma. Ma cosa pensate di fare, voi politici, quando saranno in migliaia a mettervi spalle al muro? Che farete?

Forse allora le promesse saranno già carta straccia…

di Marco Nurra
(3 febbraio 2011)

Elio e le Storie Tese - Regime di cuori

giovedì 3 febbraio 2011

Egitto, ancora scontri nella notte: almeno 10 morti e 800 feriti


da Peace Reporter
L'esercito ha effettuato molti arresti. Per oggi si prevede nuova manifestazione pro-Mubarak. El Baradei: "Dopo queste violenze dialogo impossibile"

Secondo fonti mediche egiziane, il bilancio degli scontri tra dimostranti antigovernativi e pro-Mubarak, proseguiti per tutta la notte nel centro del Cairo, è di dieci morti e 800 feriti.
I sostenitori del regime hanno lanciato molotov e sparato contro le migliaia di manifestanti anti-Mubarak che hanno passato la notte in piazza Tahrir, causando secondo testimoni almeno cinque morti, che si aggiungono a quelli di ieri. Tra le vittime ci sono anche due agenti infiltrati tra i dimostranti pro-Mubarak.
La battaglia tra le due opposte fazioni, iniziata nel primo pomeriggio di ieri, è proseguita fino alle tre di mattina nella zona del Museo Egizio: dopo ore di scontri, i manifestanti antigovernativi sono riusciti a riprendere il controllo delle strade attorno al museo.

L'esercito egiziano ha effettuato vari arresti dopo gli omicidi della notte. Non è chiaro a quale schieramento appartengano gli arrestati. La misura sarebbe stata eseguita per evitare ulteriori scontri. Un rischio molto concreto se, come ha riferito questa mattina Al Jazeera, i sostenitori di Mubarak torneranno a manifestare oggi attorno a piazza Tahrir.

Commentando le violenze, il leader dell'opposizione Mohammed El Baradei ha dichiarato che "questi atti criminali" hanno reso impossibile qualsiasi ipotesi di aprire un negoziato con il governo. "Il regime ha perso il senso comune. Non abbiamo alcuna intenzione di avviare un dialogo con questo regime finché il principale responsabile di tutto ciò, Mubarak, non lascerà il paese. Deve andarsene"

mercoledì 2 febbraio 2011

CHE IL BALLO ABBIA INIZIO!!!!!!!!!!!


Il popolo delle libertà ha iniziato la campagna elettorale, ed è così che è giunta in redazione una mail con un bel comunicato firmato PDL Nardò.
I giovanotti del popolo delle libertà (negate)invitano la cittadinanza ad accorrere numerosa nella nuovissima sede per risolvere i complicatissimi problemi della città.
A dare sostegno e a venire in nostro soccorso, ogni sabato, ci sarà l'on. Baldassarre che come babbo natale è pronto ad esaudire qualsiasi desiderio.

Vi riporto di seguito il comunicato


Il POPOLO della LIBERTA’ – NARDO’

Rialzati Nardò!


Il Comitato Organizzativo del PDL, presieduto dal commissario cittadino on. Raffaele Baldassare, sta costruendo, intorno al Popolo della Libertà, una squadra di uomini e donne coesa e compatta, tale da permettere al Partito di ribadire la propria leadership nello scenario politico cittadino.
Per poter garantire una Amministrazione forte e stabile alla nostra Città abbiamo sottoscritto un patto d’onore con Partiti, Associazioni e Movimenti che riconoscono la bontà di un progetto comune. Assieme a questi amici stiamo valutando la possibilità di far convergere intorno ad una proposta condivisa anche gli altri soggetti politici che, naturalmente, intendano lavorare assieme a noi per il bene della nostra Comunità.
Ai tanti che desiderano sostenere il PdL ed il centrodestra in questa intesa per Nardò chiediamo coerenza e vivo senso di appartenenza sia all’area politico-amministrativa sia al progetto per Nardò. Nessuna idea sarà preclusa, anzi ognuno potrà e dovrà sentirsi protagonista, ora fornendo il proprio apporto intorno ad un tavolo e domani dagli scranni dell’Amministrazione Comunale.
Oggi più che mai è necessario l’aiuto dei tanti Concittadini che si riconoscono negli ideali del PdL.
Noi desideriamo conoscere le vostre idee e i vostri suggerimenti affinché il programma che la prossima Amministrazione Comunale si appresterà a realizzare non sia una semplice esercitazione stilistica, ma l’effettiva sottoscrizione delle volontà dei tanti Cittadini che si riconoscono nella squadra del centrodestra.
Affinché il nostro sogno di costruire una Città degna di chiamarsi Nardò in cui il Bene Comune sia guida e ispirazione possa realizzarsi è benaccetta e assai gradita la collaborazione dei tanti autentici appassionati alla nostra Città che invitiamo nella nuova sede in via De Gasperi.
Ogni sabato delle 17,00 alle 20,00 l’on. Raffaele Baldassarre sarà a disposizione degli amici che vorranno condividere con noi il proprio impegno per rimettere in piedi Nardò.

Un caldo e cordiale abbraccio a tutti i Neretini di buona volontà!


Nardò, 02 Febbraio 2011


il Popolo della Libertà - Nardò

"Classi solo per i fiorentini". La prof simula le leggi razziali

Voleva far sentire ai suoi ragazzi come la Storia possa bruciare ancora sulla pelle. Così l’altra mattina, giovedì, la giornata della Memoria, la prof è entrata in classe e ha detto: "È arrivata una circolare che un po’ mi preoccupa: entro il 15 di febbraio ciascuno di voi deve portare il certificato di nascita e di residenza". Perché? A cosa serve? Si sono insospettiti fra i banchi. E la professoressa: "Non so se sia per il federalismo o cosa, ma pare che il ministero non paghi più la scuola se non siete nati a Firenze e se non sono prevalentemente nati a Firenze anche i vostri genitori e i vostri nonni. Ci faranno finire l’anno e poi ciascuno di voi deve tornare nei Paesi di provenienza della famiglia...». Sconcerto fra i banchi, del liceo artistico di Porta Romana. «E’ uno scherzo?» e la professoressa Marzia Gentilini seria: «No affatto, vale anche per noi insegnanti. Io dovrò tornare in Emilia Romagna». Stava simulando in classe le leggi razziali del 1938.

Dall’incredulità alla rabbia: «Ma prof, allora io devo tornare in Cina?». «E io in Eritrea dove non conosco nessuno?», «E io a Napoli?». Uno ha posto un problema: «Mio nonno è Piemontese e mia nonna è nata in Calabria: io dove dovrei andare?». Qualcuno ha cominciato a credere di non essere più in una democrazia, qualcuno si è messo a piangere, qualcuno ha abbracciato il compagno in lacrime e gli ha fatto coraggio: «Anche mio nonno è di Napoli, ti ospito a casa mia». Dalle prime file hanno lanciato accuse di razzismo: «Una circolare così è ingiusta, ribelliamoci». Qualcuno ha sospettato: «Prof possibile che la tv non abbia detto niente?». E i giornali? e internet? Lei ha preso in mano un foglio, fingendo fosse una circolare: «è scritto qui».

La simulazione è durata meno di mezz’ora, poi l’insegnante ha svelato il senso di quella strana lezione: «Ragazzi, è andata più o meno così, un po’ di anni fa, in Italia, quando sono state applicate le leggi razziali...adesso forse lo capite meglio».
«Quell’insegnante ha avuto un’idea geniale la promuove l’assessore all’istruzione di Palazzo Vecchio, Rosa Maria De Giorgi mi piacerebbe incontrarla. La giornata della Memoria non deve essere un appuntamento rituale che si ferma a una pagina di un libro. La professoressa del liceo ha trovato la strada migliore per bucare lo schermo e attirare l’attenzione dei ragazzi, ha fatto indossare loro la follia di quel momento storico». Infatti è stato uno shock. Una vertigine. Le lacrime di qualche alunno raccontano meglio delle parole, il dolore, la paura, la solitudine, il muro che si alza quando ti mandano via dal tuo mondo.

Fonte: Repubblica Firenze
da Antifa

Lettera di minacce alla Boccassini: "Morirai in un rogo, rosso come la tua toga"


"Morirai in un rogo - un fuoco rosso - come la tua toga". Una lettera di minacce rivolta al pm di Milano Ilda Boccassini è stata recapitata ieri mattina alla redazione del 'Resto del Carlino' a Bologna. Il documento, scritto a mano su un foglio quadrettato, era contenuto in una busta rossa smistata il 28 gennaio al Centro meccanizzato postale (Cmp) del capoluogo emiliano.
Il plico era privo di mittente e la lettera, non firmata, aveva un'intestazione scritta in stampatello: Fuan, come il movimento universitario del vecchio Msi. Sull'attrobuzione molta cautela da parte degli investigatori della Digos, che hanno sequestrato il materiale.

''La Boccassini deve morire''. ''Farai una brutta fine - scrive l'anonimo - Morirai in un rogo - un fuoco rosso - come la tua toga''. Le minacce sono accompagnate da insulti e non ci sono riferimenti alla vicenda Ruby e al fascicolo che vede indagato il premier Silvio Berlusconi, di cui la Boccassini si sta occupando assieme ad altri colleghi della Procura milanese.

Fonte: Repubblica Bologna
da Antifa

martedì 1 febbraio 2011

BOB MARLEY - RAT RACE



BOB MARLEY - RAT RACE

Ah! Ya too rude
Oh what a rat race
Oh what a rat race
This is the rat race
Some a lawful, some a bastard
Some a jacket
Oh, what a rat race, rat race
Some a gorgan, some a hooligan
Some a guine-gog
In this rat race, yeah!
Rat race
I'm singing
When the cats away
The mice will play
Political violence fill ya city
Yea-ah!
Don't involve rasta in your say
Say
Rasta don't work for no C.I.A.
Rat race, rat race, rat race
When you think is peace and safety
A sudden dastruction
Collective security for surety
Yeah!
Don't forget your history
Know your destiny
In the abundance of water
The fool is thirsty
Rat race, rat race, rat race
Oh it's a disgrace to see the
Human race in a rat race, rat race
You got the horse race
You got the dog race
You got the human race
But this is a rat race, rat race

TRADUZIONE

Ah! Troppo violento
Oh, che corsa di topi
Oh, che corsa di topi
Questa è la corsa dei topi
Alcuni perbene, alcuni bastardi
Alcuni mascherati
Oh, che corsa di topi, corsa di topi
Alcuni mostruosi, alcuni banditi
Alcuni provocatori
In questa corsa di topi, si!
Corsa di topi
Sto cantando
Quando il gatto non c'è
I topi ballano
La violenza politica riempie la città
Sì!
Non coinvolgete i rasta nelle vostre chiacchiere
Chiacchiere
I rasta non lavorano per la CIA
Corsa di topi, corsa di topi, corsa di topi
Quando pensi sia tutto pace e sicurezza
Un'improvvisa distruzione
Sicurezza collettiva quale certezza
Si!
Non scordate la vostra storia
Conoscete il vostro destino
Quando l'acqua abbonda
Lo stupido è assetato
Corsa di topi, corsa di topi, corsa di topi
Oh, è una disgrazia vedere la
Razza umana in una corsa di topi, corsa di topi
C'è la corsa dei cavalli
C'è la corsa dei cani
C'è la corsa degli uomini
Ma questa è una corsa dì topi, corsa di topi

Parma - BiOsteria. Per una riconversione ecologica degli spazi sociali.

Apre la BiOsteria della Casa Cantoniera Autogestita

La Biosteria non è una normale trattoria ma un progetto ambizioso per cambiare il mondo partendo da noi stessi!

Avreste mai creduto che un piatto potesse parlare, raccontare di sè, dei suoi ingredienti, delle sue origini e dei suoi viaggi, fino a narrarvi il suo ingresso all’interno di un’osteria o meglio della BiOsteria?
Avreste mai creduto che all’interno dei centri sociali, da sempre luoghi di sperimentazione collettiva di nuove pratiche politiche, spazi di incontro tra donne e uomini uniti dal desiderio di trasformare il mondo, la nascita di un’osteria potesse parlarci direttamente della volontà di costruire un alternativo modo di vivere e quindi di consumare?
Avreste mai creduto che nel tempo della vita messa al lavoro, mercificata e depauperata dalla precarietà, un piatto potesse disegnare concretamente un orizzonte di sottrazione allo sfruttamento?
Avreste mai pensato, che le relazioni tra individui, sempre più confinate nei luoghi che creano profitti privati, riuscissero a trovare nei centri sociali un nuovo luogo dove realizzarsi liberamente attorno ad un tavolo, attraverso la condivisione di cibi e bevande?
Se a tutto ciò non avreste mai creduto, è arrivato il tempo di conoscere la BiOsteria, di assaggiare i suoi piatti, di condividerne il percorso, convinti che sperimentando nuove strade, il desiderio di trasformazione del mondo e delle nostre vite possa divenire realtà.
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Le produzioni agricole e l’alimentazione nel contesto della crisi globale
La crisi non colpisce solo il nostro presente ma annebbia anche il nostro futuro rendendolo incerto su molti piani del nostro essere. Assumendo il dato che tale crisi è endemica e colpisce in primo luogo l’economia, vediamo i suoi risvolti più cruenti abbattersi sulle produzioni agricole e sulla catena alimentare: l’aumento dei prezzi alimentari di prima necessità è sotto gli occhi di tutto il globo. Ciò è dovuto a diversi fattori, in primis l’aumento dei costi energetici e la crescita della classe media nei paesi in via di sviluppo (Cina, Brasile e India). Questo ha incrementato la domanda di proteine animali, la cui produzione, nei grandi allevamenti zootecnici, richiede grandi quantità di cereali. Come se non bastasse i paesi “ricchi” aggravano questa situazione finanziando la produzione di biocarburanti, paventando in essa una soluzione all’inquinamento provocato dall’utilizzo dei vecchi carburanti di derivazione fossile, quali petrolio e carbone. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, la produzione di etanolo derivato dal mais negli Stati Uniti ha contribuito perlomeno all’aumento del 50% della domanda di mais a livello mondiale negli ultimi tre anni. Ciò ha fatto salire il prezzo del mais. È aumentato il prezzo dei mangimi e anche quello di altre colture, soprattutto semi di soia. Tutto ciò compromettendo la stabilità sociale ed economica di paesi che vivono il ricatto di tali scelte di produzione. E’ anche da qui che nascono le rivolte popolari che proprio in questi giorni interessano parti sempre più estese del pianeta.
Bios e Osteria. Per una nuova pratica politica.
La scelta di sperimentare una Bio-Osteria nella Casa Cantoniera Autogestita di Parma avviene inevitabilmente in continuità con tutti i progetti e le attività svolte all’interno dello spazio sociale. Evidente è la sua stretta connessione con il G.A.S. (gruppo di acquisto solidale) che vive all’interno del centro da anni, e soprattutto con la ” Mercatiniera” un mercato delle genuine autoproduzioni, che coinvolge i produttori agricoli delle campagne intorno alla città di Parma. Il mercato è l’esperimento concreto di un nuovo modello di produzione, di consumo consapevole e sostenibile che aggiunge valore in termini di analisi e pratiche reali alla riconversione in un modello di vita alternativa, rispettosa dell’ambiente e continuamente in relazione con esso.
Ma è anche un terreno concreto su cui costruire una riconnessione sociale tra città e campagna , tra spazio urbano e spazio agricolo, tra due modi diversi di intendere il rapporto dell’uomo con la natura, con due mondi che devono entrare in relazione per rivendicare insieme nuove forme di giustizia, sia ambientale che sociale.
E’ partendo dall’utilizzo di un linguaggio capace di consegnare a tutti l’idea della sfida in atto che abbiamo scelto il termine “biosteria”.
Bios una parola in grado di raccontare la complessità sia della vita messa a lavoro, continuamente sfruttata e espropriata dalla violenza capitalistica ma soprattutto in grado di narrare il desiderio di sottrazione dei corpi e delle intelligenze collettive a tale meccanismo.
Una parola che ci rimanda immediatamente alle relazioni della vita umana con le altre forme di vita, con la natura, con la necessaria responsabilità di difendere l’ambiente dallo sfruttamento, le risorse naturali dalla privatizzazione.
Innestare la parola bios in quella osteria è la nostra prima sfida.
L’osteria non è altro che quel luogo pubblico dove si mesce il vino e si consumano i pasti. Un luogo pubblico, e non privato, dove le persone si incontrano, si conoscono, condividono del tempo, si innamorano. Costruiscono la socialità, quell’intensa rete di relazioni che dà vita alle comunità, rompendo la monotonia dell’individualismo e conferendo senso alla propria esistenza, mai solitaria ma sempre in rete con le altre.
Ma l’osteria è soprattutto un luogo che ci racconta anche la specificità della nostra storia, quella di popolazioni che attorno a questi luoghi comuni hanno costruito un modo di essere, narrato le vicende, inventato le rivoluzioni.
Km Zero, Rifiuti Zero, Inquinamento Zero
La BiOsteria costruisce pratiche che devono necessariamente divenire COMUNI come l’utilizzo di materie prime senza filiera (km 0), il non utilizzo di packaging, la promozione di un’agricoltura naturale, la trasformazione di alimenti nel pieno rispetto delle materie prime e della stagionalità degli alimenti, il tutto correlato da una corretta gestione dei rifiuti attraverso la raccolta differenziata, l’abolizione di bicchieri e stoviglie usa e getta e il compostaggio dei rifiuti organici. Tutti accorgimenti che uniti alla prossima realizzazione di pannelli solari, fotovoltaici e termici, realizzeranno una vera e propria BiOsteria ad impatto zero.
Sfruttamento Zero. Reddito e valore sociale del lavoro.
Il progetto della BiOsteria non solo intende costruire un nuovo rapporto con l’ambiente, partendo dalla necessità di rispettarlo e di inventare buone pratiche che ne valorizzino le risorse naturali, entrando in relazione con un mercato alternativo di prodotti naturali e con il g.a.s., ma si assume anche la responsabilità di indagare il rapporto con le forme contemporanee di lavoro.
E’ innegabile che per produrre un qualsiasi bene, sia esso materiale o immateriale, è necessario sviluppare saperi, metterli a verifica nel processo produttivo e confrontarsi con l’elemento che è alla base di tale operazione, ovvero la fatica. E’ altrettanto vero che nel contesto attuale, quello prodotto dalla crisi globale, assistiamo alla riduzione in schiavitù di fasce sempre più estese di popolazione, che con il divenire precario del lavoro, vedono le proprie condizioni materiali di vita raggiungere i livelli di povertà. Il continuo ricatto a cui le generazioni precarie sono costrette ci segnalano la necessità di riprendere in mano la parola lavoro e conferirle un nuovo significato in grado di riconoscere la dignità attraverso nuovi diritti.
Nella BiOsteria vogliamo affrontare il nodo del lavoro riconoscendo il suo valore sociale e facendo i conti con la costruzione di forme di reddito che sottraggano la vita allo sfruttamento. Alla base di tale pratica assumiamo come prioritario sovvertire il meccanismo classico che determina i rapporti tra produttore e consumatore.
Immaginare tale rapporto come uno scambio paritario e quindi non più nell’ottica del profitto privato (elevati prezzi al consumo e continua riduzione dei costi di produzione) ci consegna la possibilità di scambiare conoscenze attraverso la trasformazione di materie prime naturali e di produrre autoreddito grazie a chi usufruisce di tale scambio.
Pratiche territoriali per un comune ecologico
Occorre riportare la centralità su una discussione politica incentrata su un nuovo modello di sviluppo e produzione che non rispecchi più i dettami di un capitalismo ormai messo in totale crisi dal suo stesso essere. Ri-pensiamo la concezione ecologica non più solo come una forma di resistenza alle politiche liberiste che hanno dimostrato il loro fallimento, aumentando le differenze sociali e negando a popolazioni intere la propria sovranità alimentare, ma anche con la capacità di intendere l’ecologia come un nuovo paradigma di COMUNE, reale e sostenibile, raggiungibile solo grazie ad una reale riconversione dei sistemi di produzione in termini di rispetto ambientale e sociale.
Per questo crediamo fermamente che oggi una lotta territoriale dal basso possa realmente cambiare le carte in tavola a livello globale.
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Ogni venerdì e sabato sera
solo su prenotazione
chiamare entro il giovedì per consentire alla BiOsteria di reperire i prodotti naturali.

Menù fisso a 15 euro
elaborato per rispettare la stagionalità dei prodotti
con antipasto, primo, secondo, contorni, vino e caffè
per carnivori, vegetariani e vegani (specificare le esigenze al momento della prenotazione!)

Per info e prenotazioni:
3206466309
3333467642

da GlobalProject.org

lunedì 31 gennaio 2011

Dopo la Tunisia,l’Albania, l’Algeria e l’Egitto forse passando per la Libia toccherà all’Iran “La guerra è vicina”


di Marco Barone da Reset-Italia
Vorrei tanto poter credere nella spontaneità di queste rivolte. Vorrei tanto credere nelle rivolte libere ed incondizionate del popolo, che dopo anni ed anni di dittatura, anche tollerata da forze straniere amiche come gli Usa, ora così all’improvviso esplodono in un senso di rabbia che comporterà morti, distruzione e falsa libertà.
Ho la netta sensazione, vista anche la tempistica che caratterizza questi episodi di rivolta, che esiste una sola regia internazionale governata dai servizi americani/israeliani.
E’ in corso operazione accerchiamento. Vedi Tunisia, Algeria ed Egitto.
Ed ecco che in Libia succede che il governo ha abolito tutte le tasse che gravano sul prezzo dei beni alimentari in vendita nel paese. “Questa misura – si legge in una nota diffusa dal governo – ha come obiettivo quello di impedire che il paese risenta dell’aumento del prezzo di questi prodotti causato dalla crisi economia mondiale”.
La Libia cosi’ in via di apparenza non avrebbe motivi per subire una rivolta popolare guidata e voluta da altri interessi che condurranno al non lontano Iran.
Si specula sulla sofferenza del popolo, vi saranno e vi sono vittime sacrificali non per la democrazia e la libertà ma per rafforzare gli interessi di Israele e dell’Arabia, che vogliono colpire l’Iran il prima possibile.
Ed allora ecco una dietro l’altra rivolte nate dal nulla, nate su elementi che incidono direttamente sul grado minimo di sopravvivenza come il costo del cibo, ed il gioco è fatto.
Mirhoussein Mousavi, principale oppositore del governo di Ahmadinejad ha dato il suo appoggio alle manifestazioni egiziane. Sul suo sito web collega gli ultimi eventi in Egitto e Tunisia a quel giugno del 2009 quando gli iraniani per le strade di Teheran chiedevano “Dov‘è il mio voto?” e ammonisce il regime, questo è il tuo futuro.
Mousawi che per quello che è dato comprendere non è ad oggi raggiungibile. Probabilmente lo sarà nel momento in cui la rivolta partirà anche in Iran, nel momento in cui dovrà prendere il potere su volontà indotta dal popolo e su totale ed integrale indirizzo americano ed israeliano.

WIKILEAKS, sostiene che gli Stati Uniti, pur appoggiando in Egitto il governo alleato di Hosni Mubarak, da almeno tre anni sostengono segretamente alcuni dissidenti che sarebbero dietro la rivolta di piazza di questi giorni come parte di un piano per favorire un «cambio di regime» in senso democratico al Cairo nel 2011.
Mubarak è stato difeso fino all’ultimo secondo, da Obama, ciò dovevano farlo e lo hanno fatto per celare il loro diretto coinvolgimento in tale operazione.
Ora direte ma perchè tutto ciò e anche coinvolgendo un governo amico come quello di Mubarak?
Io credo che il tutto è stato programmato nel corso del tempo e studiato nei minimi particolari per
provocare rivolte popolari, sovvertire ordini non democratici con finti governi democratici protetti direttamente dagli Usa ed Israele, far incrementare il senso di precarietà nel popolo e nel mondo affinchè queste rivolte possano nascere ed affermarsi in via inevitabile in Iran.
Quale miglior intervento in Iran se non tramite una rivolta popolare che segue rivolte come quella tunisina o egiziana? Mubarak può essere sacrificato, probabilmente troverà, guarda caso, ospitalità in Inghilterra, si insedierà governo manovrato da forze amiche e da uomini di fiducia degli Usa utilizzando e sfruttando
Mohammed ElBaradei e uomini fedeli alla causa di Stato.

La rivolta albanese, che territorialmente si colloca in zona distante dall’Egitto, Algeria, Tunisia e probabilmente Libia, Libia ad alto rischio a questo punto di rivolta indotta popolare, è nata forse per colpire un premier comunista, forse per conferire la sensazione che in una certa area del mondo, non molto distante dall’Iran, si verificano rivolte popolari; rivolte popolari apparentemente libere, libere di cambiare i governi, di demolire le dittature,e se ciò succede alle porte dell’Europa ed in un paese che è membro della Nato, allora perchè ciò non può accadere in Iran?

Che sia ben chiaro con ciò non voglio difendere le dittature,anzi, ma credo che sia necessario riflettere su alcuni eventi, sulla tempistica, le coincidenze non esistono. Il tempo anche in questo caso conferirà ogni risposta utile, voglio esser il primo a credere nella spontaneità di queste rivolte, ma ho forti dubbi e molte perplessità che lo siano pienamente ed integralmente.
Ho la sensazione che dietro queste operazioni si celi una sola mano, che vi sia una sola regia internazionale con l’unico scopo di proteggere Israele e le sue bombe atomiche, e colpire l’Iran e le sue centrali nucleari.
Soliti giochi di potere, ma con molte vittime reali, tante vittime sacrificali nel nome del loro Sistema di governo del potere mondiale.

http://baronemarco.blogspot.com/

sabato 29 gennaio 2011

venerdì 28 gennaio 2011

Gioia e Rivoluzione: quando la lotta deve partire dagli intellettuali e dagli artisti


di Fernando Bassoli
Prendo spunto, per il titolo di questo articolo, da una bellissima canzone degli Area, che, nella formidabile interpretazione di Demetrio Stratos, segnò un’epoca per certi versi simile alla nostra.

Stratos, che la cantava nell’ormai lontano 1975, preparando la strada a una generazione di intellettuali impegnati, cercava di spiegare che la vera rivoluzione doveva passare, prima di tutto, attraverso le arti.

Nel caso specifico di “Gioia e Rivoluzione”, il “mitra” da utilizzare per sensibilizzare i potenti era rappresentato da un contrabbasso, ma, a pensarci bene, le armi utilizzate per lottare per costruire un mondo migliore potrebbero essere anche il pennello di un pittore o la penna di uno scrittore, lo scatto particolarmente ispirato di un fotografo o il pezzo illuminante di un giornalista libero di scrivere/dire quello che pensa. Perché tutto ciò che riusciamo a fare con passione estrema è una forma d’arte. E se tutti noi siamo arrabbiati e, invece di restare con le mani in mano, cerchiamo di fare qualcosa di utile e concreto, allora iniziano tempi complicati per chi deve amministrare il potere e non lo fa nel migliore dei modi.

Purtroppo stiamo vivendo in un periodo davvero buio per la nostra società, un periodo di decadenza insopportabile e per alcuni aspetti incomprensibile, proprio nell’anno dell’anniversario numero 150 dell’unità nazionale. “Come abbiamo fatto a ridurci così?” viene da domandarsi.

Nell’epoca delle escort di Stato (non è importante sapere se i rapporti venissero consumati o meno), dove viene messa in discussione perfino la Magistratura, l’idea di un’Italia della quale andare orgogliosi, intesa come patria del diritto e culla di una cultura ispiratrice di valori e nobili ideali, è solo un ricordo sbiadito.

UN DISAGIO DIFFUSO - Come diceva Giorgio Gaber nella canzone “Io non mi sento Italiano” oggi, nel 2011, ci sentiamo paradossalmente stranieri in un Paese che dovremmo invece sentire profondamente nostro. Perché non ci riconosciamo più in chi ci amministra e dovrebbe dare l’esempio. Queste persone ci fanno schifo. Vi pare poco?

Il problema è che l’Italia è diventata una Nazione ridicola, derisa dalla stampa di tutto il mondo, impantanata in una situazione assurda, patetica, sulla quale è superfluo soffermarsi, dato che andiamo sostenendo le medesime cose da anni.

Una cosa è comunque certa: per smuovere le acque serve un cambiamento drastico, radicale, cioè le dimissioni di Silvio Berlusconi. Perché a questo punto è difficile accettare il suo morboso attaccamento alla poltrona di premier, neanche fosse questione di vita o di morte. In questo modo – dimettendosi – uscirebbe di scena con un minimo di dignità, come fece Marrazzo, travolto dallo scandalo-trans mentre occupava l’importante incarico di Presidente della Regione Lazio, mica pizza e fichi. Perché così non si può andare avanti. È vero che nell’immediato non esistono alternative valide – sono il primo a denunciarlo da tempo -, ma questo non vuol dire che Berlusconi debba rimanere inchiodato a quella prestigiosa ed evidentemente comoda poltrona, nonostante mezza Italia non lo voglia più al Governo.

IL DOVERE DI LOTTARE - Se non dovesse liberarci della sua presenza, le soluzioni che ci rimangono sono davvero poche. Le elezioni, certo: è da lì che si deve ripartire. Ma serve anche una sorta di rivoluzione culturale, guidata con intelligenza da intellettuali e artisti illuminati (ci sono, ci sono), perché è necessario recuperare la capacità di scuotere le coscienze addormentate di cittadini sempre più sudditi, stanchi, vinti da un pesante fardello di problematiche infinite che hanno fatto perdere pazienza e lucidità ai più.

A volte chi cerca di cambiare qualcosa in maniera non violenta attraverso la propria arte e le proprie provocazioni viene ostacolato o addirittura censurato, perché scomodo, perché rema contro questa postdemocrazia anomala e strampalata in cui i furbetti la fanno sempre franca. Ma non importa, bisogna insistere perché, come ci insegnarono i Latini, la goccia scava la roccia.

A rigor di logica, alla luce degli ultimi avvenimenti, davvero penosi, la tanto amata poltrona del Premier sarebbe già dovuta essere di qualcun altro.

Un’intera generazione di politici impresentabili ci ha rovinato il futuro, lo sappiamo tutti. Non resta che continuare a portare nel profondo del cuore la voglia di cambiare – in meglio! – questo stato di cose.

Sarà la storia a dirci come e da chi ripartire per fare rinascere questo povero Paese dalle proprie ceneri, come l’araba fenice.

da Reset-Italia

Svuota bugie

di Carmelo Musumeci
“Se vuoi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche voi.” (Matteo 6,14)

Il provvidimento “svuotacarceri” che permette, solo a chi è stato condannato per alcuni reati, di scontare l’ultimo anno di pena agli arresti domiciliare non sta funzionando e i carceri continuano a riempirsi di “pattumiera sociale”.
Eppure verso questa legge i soliti politici, per consensi elettorali, avevano sparato le solite bugie: “ Indulto mascherato “.
E i soliti giornalisti, uno per tutti, Travaglio, che hanno costruito carriere con “ Tutti dentro” avevano abbaiato le solite menzogne: “Indulto insulto”.
Pretendere che extracomunitari, barboni, tossicodipendenti, emarginati, che sono la maggioranza della popolazione detenuta in Italia, scontino fino all’ultimo giorno di galera è follia.
Ricordo a questi politici e giornalisti che probabilmente molte di queste persone, anche se colpevoli e con fedina penale sporca, hanno ancora l’anima pulita.
Il modo con il quale uno Stato di diritto si comporta con i delinquenti dimostra s’è migliore o peggiore di loro.
Ricordo a questi politici e giornalisti che si può essere violenti anche con le buone maniere, soprattutto quando lo si fa per avere l’opinione pubblica dalla propria parte.
Il carcere così com’è, invece di recuperare, esclude ed emargina e fa uscire persone ancora peggiori di come sono entrate.
Ricordo ai forcaioli di destra, di sinistra e di centro che nel detenuto bisogna fare emergere la colpa e non la sofferenza, perché la colpa ti fa diventare colpevole, invece la sofferenza ti fa diventare innocente.
Ricordo alle vittime dei reati che la giustizia come vendetta genera odio e male, invece la giustizia come verità genera amore e perdono per gli altri e per se stessi.
Ci sono persone “buone” che pensano di essere persone perbene, perché non uccidono e non rubano, ma non sanno, o fanno finta di non sapere, che si può rubare in tanti modi.
Si può uccidere la speranza, si può rubare il futuro e si può fingere di essere onesti per continuare a essere cattivi.
Ricordo agli uomini di buona volontà che il colpevole, il cattivo, il criminale per cambiare e guarire ha bisogno di aiuto, passione, amore sociale e non di sofferenza, isolamento, sbarre e cemento armato.
Ricordo a tutti che per svuotare le carceri bisogna svuotare soprattutto il proprio cuore dall’odio.

Carmelo Musumeci
Spoleto, gennaio 2011