Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, pur promulgandola, ha segnalato ‘rilevanti criticità’ nella Legge sulla sicurezza, che porrebbe dubbi di irragionevolezza e di insostenibilità soprattutto sul piano giuridico. In particolare, il Capo dello Stato, in una lettera inviata al Governo, chiede una riflessione sul reato di clandestinità e sul via libera alle ronde, delle quali vorrebbe che fossero definiti limiti e compiti.
Perché un Presidente della Repubblica preoccupato e perplesso non ha rinviato alle Camere un testo che reintroduce una serie di misure persecutorie e discriminatorie nei confronti dei soggetti sociali più deboli?
Mi si risponderà che il rifiuto di promulgare una legge non è un ostacolo definitivo. Ma il giudizio critico del Presidente basterà? Quanto peserà?
Siamo assuefatti alla costruzione di un’icona deviante di tutto ciò che è povertà: la povertà minaccia questo mondo, la povertà è una colpa, la povertà è un reato. La povertà più povera, quella di non avere i documenti o di provenire da paesi in guerra o da paesi dove si muore di fame, non provoca un tentativo di interlocuzione: un essere umano senza documenti è prima di tutto colui da respingere, da nascondere, da esorcizzare. Lo spirito securitario che muove la Legge stringe le maglie del controllo sociale e metabolizza un progressivo cedimento al lessico razzista e xenofobo, in cui “sorvegliare e punire” sono i verbi della macchina di controllo sociale sugli esuberi della globalizzazione. Ho paura che silenzio e indifferenza sommergano una legge per cui essere clandestino non significa essere vittima della clandestinità, ma autore minaccioso e per cui essere povero non significa essere vittima della povertà, ma artefice colpevole. Disobbediamo a una legge xenofoba che ricalca le leggi razziali, indigniamoci, mobilitiamoci per sottrarre dall’inciviltà uomini e donne colpevoli solo di essere figli di un dio minore, mobilitiamoci per restituire dignità a quei principi garantisti e di civiltà giuridica su cui si basa o dovrebbe basarsi una democrazia.
di Nichi Vendola
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