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giovedì 24 febbraio 2011

Dietro le quinte della crisi: bassi salari e finanziamenti pubblici


Viaggio nelle delocalizzazioni: da Fiat a Geox, passando per Bialetti e Golden lady, le imprese in fuga dall’Italia alla ricerca dei salari più bassi e dei finanziamenti statali. La colonizzazione dell’est europeo e il caso Geox, ovvero, produzione all’estero, bassi salari e il falso mito del made in Italy.

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La natura delle delocalizzazioni produttive e la loro articolazione recente in Italia (vedi “la fabbrica cambia sede: la frontiera è ad oriente”), si innestano pienamente nei processi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale che hanno caratterizzato la recente, ed ancora in corso, crisi internazionale. In tempi di crisi infatti, più che in tempi di crescita, le imprese tendono ad acquisire dei vantaggi in termini di produttività e di costi e la delocalizzazione produttiva risponde proprio a questa esigenza attraverso il trasferimento degli stabilimenti nei paesi in cui il costo della manodopera è più basso e maggiori sono gli incentivi alla produzione sotto forma di finanziamenti ed agevolazioni fiscali.Tuttavia, nel guardare alla delocalizzazione va innanzitutto tenuto conto che si tratta di un fenomeno strettamente connesso al tendenziale processo di internazionalizzazione del capitale e di concentrazione industriale. Da un lato, infatti, è necessaria un dimensione minima per poter effettuare il trasferimento degli impianti, cosa che limita il fenomeno per lo più alle grandi imprese (benchè esso si stia diffondendo anche tra quelle di media grandezza), dall’altro la delocalizzazione è funzionale alla ristrutturazione industriale e può accompagnarsi ad accordi di partnership o fusione.
Nelle fasi di crisi entrambi i processi subiscono di norma una accelerazione. Il perché è evidente: le imprese incapaci di reagire, per struttura produttiva, alla riduzione della domanda vengono espulse dal sistema e le imprese rimaste sfruttano il momento per consolidarsi attraverso fusioni ed acquisizioni tentando di acquisire ulteriori quote di mercato. Il patto Fiat-Chrysler ne è un tipico esempio.

È a tutti noto che le imprese europee subiscono con crescente difficoltà la concorrenza dei paesi in via di sviluppo, Cina ed India in primo luogo, che si è progressivamente aggiunta a quella esercitata dal capitale nordamericano. A fronte di questa pressione le imprese europee hanno reagito già in passato delocalizzando al di fuori dei confini europei e, più organicamente, sfruttando i processi di allargamento dell’Europa. Anzi, si potrebbe più correttamente dire che l’allargamento dell’Unione risponde in maniera diretta alle esigenze dell’industria europea in termini di competizione e si accompagna ad una serie di incentivi alla concentrazione oltre che a politiche monetarie comunitarie ritagliate su misura. L’apertura dei mercati e la privatizzazione di settori strategici adottate unanimemente da tutti i paesi membri hanno agevolato la concentrazione del capitale nel centro economico dell’Europa. Inoltre, l’allargamento ha garantito alle grandi imprese la possibilità di accedere a mercati dei fattori meno costosi, attraverso la delocalizzazione produttiva, e di ottenere nuovi mercati di sbocco per i prodotti finali.

L’ingresso nell’Unione degli stati dell’est è stato generalmente presentato come una straordinaria opportunità: agli evidenti benefici per i capitali tedeschi, francesi o italiani si sarebbero accompagnate maggiori opportunità di attrazione dei capitali esteri da parte dei nuovi entranti e dunque nuove opportunità di sviluppo. In realtà, il processo di allargamento , combinato ai processi delocalizzativi, ha generato un progressivo appiattimento verso il basso dei livelli salariali per via dell’accresciuta competizione sul mercato del lavoro ed un peggioramento complessivo della solidità economica dei paesi periferici.

Tralasciando gli evidenti vantaggi a favore dell’impresa, che si sostanziano non tanto nella riduzione del costo del lavoro quanto, piuttosto, nell’accesso a finanziamenti e prestiti pubblici ed agevolazioni fiscali, la delocalizzazione, se interpretata alla luce delle politiche comunitarie, non si traduce certo in un operazione vantaggiosa nei confronti del paese ricevente. Senza dubbio, Il Paese che ‘perde’ l’impianto subisce un incremento della disoccupazione e realisticamente una riduzione in termini di reddito complessivo anche per via della perdita del cosiddetto ‘indotto’, cioè dell’insieme di attività economiche presenti nel territorio connesse alla presenza dell’impianto principale. Per il paese che ottiene l’impianto, la delocalizzazione si traduce in un investimento che è rappresentabile, contabilmente, come un flusso di risorse in entrata. Tuttavia, tali risorse restano in gran parte a disposizione dell’impresa essenzialmente sotto forma di profitti e di capitale fisico anche per via il regime di tassazione agevolato. Dunque, per il paese ricevente, l’effetto più evidente è la maggiore domanda di beni generata dall’aumento dell’occupazione che si traduce, soprattutto, in un incremento delle importazioni. Ciò dipende dal fatto che le politiche di moderazione salariale, adottate dai paesi centrali ed in particolare dalla Germania, garantiscono la maggiore competitività delle imprese provenienti dal centro. Il risultato dunque, in termini di conti con l’estero finisce per essere sostanzialmente nullo. Al peggioramento dei conti con l’estero i paesi riceventi possono ormai reagire quasi esclusivamente attraverso una compressione della spesa pubblica ed una riduzione dei salari, così incrementando ulteriormente la competizione nel mercato del lavoro europeo, favorita dalla tendenziale compressione del ruolo dei sindacati.La crisi mondiale ha acuito in parte questi processi. All’ulteriore e plausibile allargamento in favore della Turchia, l’Unione accompagna una stretta su spesa pubblica e salari e, d’altra parte, la ristrutturazione del capitale a livello europeo e mondiale subisce un’accelerazione.

Se i casi Omsa e Bialetti rispondono alle classiche logiche di disinvestimento tipiche dei processi delocalizzativi, il caso Fiat risulta emblematico: Marchionne ha impresso una svolta nelle strategie di localizzazione la cui dinamica appare ora in tutta la sua chiarezza. Da una parte l’accordo con Chrysler ha permesso al Lingotto di ottenere finanziamenti da parte del governo statunitense per penetrare il mercato americano, acquisire (o farsi acquisire da) l’impresa statunitense e mantenere gli impianti sulla base di condizioni non dissimili a quelle approvate a Pomigliano e Mirafiori. Dall’altro, in seguito all’indebolimento del ruolo delle autorità di politica economica ed alla competizione tra Stati per l’acquisizione del capitale estero, la Fiat e con essa le altre grandi imprese possono avviare una fase di contrattazione perenne fondata sul continuo ricatto occupazionale. Da Tichy e Mirafiori a Pomigliano, i lavoratori saranno esposti dalla competizione reciproca al rischio probabile di una ulteriore spirale deflazionistica in termini salariali. L’immagine romantica dell’impresa ‘costretta’ al trasferimento e al licenziamento di massa, per continuare a produrre, non è adeguata a raffigurare una FIAT in cui il peso delle attività finanziare è ormai strategicamente preponderante rispetto alla produzione di veicoli e in cui i lavoratori assumono ormai la funzione di ostaggi a tempo indeterminato.

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da Indymedia

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