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martedì 4 maggio 2010

Soffiare sul fuoco


Brevi considerazioni sul crac greco e l'attacco al welfare europeo

di Francesco Raparelli
E così la sciagura economica della Grecia e in generale dell'eurozona sembra per il momento rinviata. Il primo ministro Papandreou ha annunciato di aver raggiunto l'intesa con Ue e Fmi, il prestito di 45 miliardi di euro (tra 100 e i 120 in tre anni) garantirà il debito greco nel breve periodo. Accordo ‒ precisa Papandreou ‒ che impegna la Grecia in una cura dimagrante senza precedenti: è facile intuire che a dimagrire saranno i salari (le stime parlano di un 30%) e le prestazione sociali del welfare. L'obiettivo dell'emergenza speculativa di questi giorni probabilmente è stato centrato: non solo l'euro esce molto provato dal crac greco, in generale per una buona parte dei paesi europei (Portogallo, Spagna e anche Italia) si presenta la necessità non rinviabile di ridurre ulteriormente la spesa pubblica.
Lo scenario che abbiamo visto all'opera in questi giorni ci aiuta a riflettere, seppur molto stenograficamente, su almeno tre punti: la crisi della dinamica costituente europea; la piena riaffermazione dei mercati finanziari dopo il collasso del 2007-2008; il ruolo nefasto degli istituti di valutazione.


1. E' evidente che il comportamento tedesco in questa drammatica occasione di crisi ci consegna una novità assoluta. La Germania, il paese che più ha investito in questi decenni nella costituzione dello spazio europeo, si è presentata per la prima volta egoista, segnata dai propri interessi nazionali. Il cosmopolitismo kantiano, ricordato (anche) sulle pagine di Repubblica da Ulrich Beck, è stato largamente soppiantato da un realismo carico di prudenza e di paura. La Merkel, infatti, sa che i tedeschi sono almeno per due terzi contrari al prestito di 9 miliardi di euro (la quota tedesca) nei confronti della Grecia, per questo ha tenuto duro fino alla fine, spaventata dai possibili esiti elettorali (le elezioni regionali del 9 maggio) di uno strappo troppo cruento. Altrettanto, la Merkel ha utilizzato in termini propriamente politici la crisi greca per ridefinire i rapporti di forza all'interno dello spazio europeo. Non è casuale, infatti, che oggi le sue dichiarazioni siano inequivocabili: nuove regole per lo spazio europeo, meglio, Europa a due velocità, chi non rispetta gli accordi finanziari non ha più diritti politici.


La crisi greca mette in evidenza due processi tra loro connessi: per un verso il nuovo ruolo degli stati-nazione dentro la crisi economica e globale; per l'altro il declino non tanto e non solo dell'ipotesi costituente europea, ma dell'Europa come forza politica ed economica continentale. Nel primo caso l'esempio Merkel è assolutamente illuminante: dentro la crisi riemergono con forza, nella società, gli egoismi e gli interessi nazionali (oltre alle piccole patrie xenofobe) e la politica, che naviga a vista a caccia di consensi, non può far altro che assecondare (seppur in modo strumentale) e alimentare queste spinte. Possono insistere quanto vogliono Prodi e Beck sulla necessità di riconsegnare la politica ad una solida rigidità normativa (e universalistica), ma la destra vuole vincere e sa che per farlo c'è solo la parzialità del realismo, seppur a breve termine e priva di prospettiva. Più in generale la crisi economica globale ci presenta un mondo sempre più multipolare e sempre meno multilaterale: la nuova potenza cinese e il rapporto di comando Usa-Cina dimostrano ampiamente questo nuovo quadro. Ed è proprio in questo quadro che emerge con chiarezza il secondo punto precedentemente presentato: nel nuovo mondo multipolare l'Europa procede verso un inesorabile declino. Se la Cina, infatti, sembra essere già uscita dalla crisi economica e gli Stati Uniti sembrano ancora in grado di rilanciare una potente deterritorializzazio-ne tecnologica e delle risorse umane (la riorganizzazione della frontiera), la vecchia Europa sembra del tutto inadeguata a dare risposte efficaci. Non è casuale dunque che sia proprio il welfare europeo a definire il bersaglio degli hedge fund.


2. Mentre la Sec presenta il conto alla Goldman Sachs e Obama presenta al congresso la riforma dei mercati finanziari, sono ancora una volta i mercati finanziari a mettere il mondo nei guai. Vittima dei derivati e della speculazione, questa volta, l'euro e il welfare state europeo. Ritornano in scena, infatti, i big del collasso del 2007-2008: le agenzie di rating Standard & Poor's, Moody's e Fitch; le grandi banche americane, dalla Goldman a JP Morgan Chase; i grandi hedge fund (Soros, Paulson, Grenlight, Sac capital). La strategia è semplice: consapevoli del buco di bilancio imposto dal risanamento dei mercati e delle banche zeppe di titoli spazzatura, meglio, fiutato il rischio di insolvenza degli stati sovrani, gli hedge fund si mettono a lavoro favorendo la proliferazione di Cds (credit default swaps) che scommettono sulla banca rotta per guadagnarci. Il ruolo delle agenzie di rating in questa missione è del tutto evidente: declassare i titoli sovrani impedisce agli stati di rifinanziare il debito sul mercato (il rischio e l'innalzamento dei rendimenti è ingestibile) e dunque li spinge verso il precipizio. Nel mercato ‒ come ci segnala Andrea Fumagalli nel suo editoriale di venerdì 30 aprile (http://www.globalproject.info/it/in_movimento/Il-biopotere-della-finanza/4767) ‒ il tema della convenzione è tutto: la razionalità degli agenti di mercato è definita da un elevatissimo tasso di gregarietà e di mimetismo (vedi C. Marazzi Capitale & Linguaggio, Derive Approdi). Non stupisce allora se in pochissimi giorni l'esplosione del panico non solo dilaga e condiziona i mercati, ma determina, ed è forse questa la cosa che ci interessa di più, la definizione di un accordo drammatico per il welfare greco, ma più in generale europeo. Il prestito della Bce e del Fmi, ampiamente caldeggiato da Obama che vede nella crisi del debito pubblico greco un nuovo “rischio Lehman Brothers”, ha come contropartita una stretta senza precedenti sulla spesa pubblica. Sembra una presa in giro ma non lo è: se la spesa pubblica è stata allargata a dismisura per sostenere le banche in crisi di liquidità e di fiducia, ora la stessa spesa pubblica deve essere compressa e a pagare saranno di nuovo gli stessi. Ancora, se nel primo caso le tasse hanno sostenuto il delirio finanziario e le speculazioni private di banche e agenzie assicurative, adesso la compressione dei salari e delle prestazioni pubbliche sosterranno il debito pubblico sempre più appesantito dalle nuove speculazioni finanziarie. E non è detto, inoltre, che risolto con i prestiti e i tamponamenti il problema di liquidità degli stati si risolva anche il problema di solvibilità: la solvibilità del debito, infatti, è indisgiungibile dalla tendenza alla crescita, tendenza che in questo momento è bassissima, tanto in Grecia, quanto in buona parte dell'eurozona.


3. In un recente articolo dal titolo estremamente esplicativo, I Signori del rating che declassano le nazioni (http://www.repubblica.it/economia/2010/04/30/news/signori_rating-3717987/), Federico Rampini ci illustra la storia delle agenzie di valutazione dei titoli di mercato che con i loro giudizi condizionano le caotiche vicende di imprese e speculazioni, banche e risparmiatori. Chiunque, per piazzare obbligazioni sul mercato utili a finanziarsi, deve passare per le tre agenzie Moody's, Standard & Poor's, Fitch: il giudizio favorirà il successo o determinerà la sconfitta. Sono proprio queste agenzie che, neanche tre anni fa, hanno mentito sull'affidabilità dei titoli derivati dai mutui subprime favorendone l'acquisti in gran quantità. Il resto è storia ormai nota. Altrettanto, sono queste agenzie che, in accordo con hedge fund e grandi speculatori, hanno deciso di sferrare un attacco senza pari all'euro e al welfare europeo.

E' interessante riflettere sulle agenzie di rating in un momento in cui il tema della valutazione, in particolare della valutazione delle ricerca e del lavoro cognitivo, sembra essere diventato, a destra e a sinistra, la panacea di tutti i problemi politici del nostro tempo. Dove c'è valutazione c'è merito e efficienza, quindi giustizia. Questa equivalenza ormai indiscutibile ci sembra quanto meno problematica se rivista alla luce della bufera dei mercati finanziari. Cosa ci insegna, infatti, l'ultima crisi economica? Che non c'è valutazione buona se non esiste controllo pubblico dei valutatori. È evidente, allora, l'assonanza con le tematiche universitarie: chi valuta i valutatori delle università e della ricerca? Esiste una valutazione buona o piuttosto il problema è riappropriarsi dal basso del dispositivo della valutazione e qualificare dei nuovi terreni di decisione comune sulla ricerca?

da GlobalProject

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