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lunedì 1 febbraio 2010

Che ne sarà di Haiti


di Roberto Di Caro

La gente ricostruisce le case con quello che trova. Senza aspettare gli aiuti e delusa dalle promesse. Il documentario esclusivo del nostro inviato

Arrivano in cinque o dieci su un cumulo di macerie, meglio dove una casa è crollata del tutto, è meno pericoloso, in fondo non c'è che da scegliere. Spostano i detriti, cercano assi di legno lunghi a sufficienza per essere riutilizzati, mattoni o blocchi di cemento abbastanza regolari da sovrapporre uno all'altro, sbarre di ferro, lamiere, persino insegne.Si muovono con lentezza, scelgono con cura, portano via tutto a piedi o su un furgoncino. Con quei materiali di risulta ricostruiscono. Da soli. In quelle stesse piazze, parchi, spartitraffico dove nei giorni immediatamente successivi al terremoto avevano improvvisato tende fissando un lenzuolo a quattro pali e disegnando gli spazi con qualche pietra.

La ricostruzione non è affatto di là da venire: è già cominciata. Fin dai giorni in cui, a una settimana dal sisma, si sono viste le prime grandi ruspe, di privati, trascinare via le macerie delle case insieme ai corpi rimasti là sotto. Ma l'esito che si intravede suona come una beffa ai sogni di sfruttare il disastro quale occasione per rifare Port-au- Prince con i crismi dell'utopia urbanistica, soldi a palate, piani calati dall'alto e passerella di benintenzionate archistar. Tempo tre mesi e la capitale è destinata a diventare un unico enorme slum: baracche dove ora sono le tende, lamiere dove c'erano muri e tetti. Come già sono, da sempre, i suoi sobborghi e le bidonville che si distendono da poco dietro il centro fino al mare, o a sud ovest verso Carrefour e Leogane.

Non hanno la più pallida idea, gli haitiani, del fatto che Un-Habitat, l'agenzia delle Nazioni Unite per una urbanizzazione sostenibile, abbia già speso 250 mila dollari in una prima ricognizione dell'esistente e delineato chissà come strategie d'investimento per 7,6 milioni di dollari proprio per recuperare dalle rovine legno e risorse per la ricostruzione: loro, gli sfollati, i senza casa, lo fanno e basta, per semplice sviluppatissimo istinto di sopravvivenza. Ignorano, le informazioni arrivano a brandelli, che lunedì 25 a Montreal, prima riunione di 15 Paesi donatori più Nazioni Unite, Banca Mondiale, Programma alimentare Pam e un'altra mezza dozzina di organismi sovrannazionali, si è cominciato a immaginare un "piano Marshall" da 2,1 miliardi di dollari subito, 10 in dieci anni (ma forse addirittura 20, a quanto ha detto il presidente della confinante Repubblica Domini cana, Leonel Fernandez); o che per marzo al Palazzo delle Nazioni Unite sia stata convocata la Conferenza che dovrebbe definire tappe, procedure, modalità, reperimento delle risorse e catena di comando: sotto l'egida della Banca Mondiale, stando alle prime ipotesi.


Ma sono decenni che il mondo s'impiccia del loro Paese, l'Onu manda caschi blu brasiliani, nigeriani, pakistani e di altre quaranta nazioni, gli americani insediano e destituiscono presidenti in nome dei diritti civili, Hugo Chávez regala petrolio e Fidel Castro manda medici: mentre loro continuano a vivere sette su dieci in bidonville di lamiera come Cité Soleil e Waf Jeremie che si allagano a ogni pioggia, e a farsi il carbone bruciando legna in buche scavate per strada nella capitale come nei villaggi. Del resto, che credibilità si sono guadagnati i soccorsi giunti da mezzo mondo dopo il devastante sisma del 12 gennaio, se alla popolazione nelle tendopoli arrivavano a stento le taniche dell'acqua potabile, e le prime distribuzioni di riso sono state segnate da incidenti, tafferugli, spari, lancio di gas urticanti? Suona del tutto dunque rituale anche quel dispaccio del "Us Department of State, Diplomacy in action" che, al termine di un vertice tra l'ambasciatore americano e il capo della missione Onu Minustah, il canadese Edmond Mulet, ha annunciato un accordo sui principi fondamentali dell'intervento, riconoscendo ad Haiti la responsabilità di stabilire le priorità degli interventi, e alle Nazioni Unite il coordinamento degli aiuti, sotto il cui comando anche gli americani si adatterebbero a operare.
La verità è un'altra. René Préval, il presidente haitiano, è ben conscio del fatto che il suo governo non è in grado di gestire alcunché, ma conosce quel che resta del suo popolo: quando gli abbiamo chiesto chi dovesse coordinare gli interventi d'emergenza, la tutela della sicurezza e poi la prima ricostruzione, ci ha risposto: «Chiunque è in grado di aiutarci, venga e lo faccia». Quanto all'esercito americano, si muove in modo ambivalente. All'ospedale centrale li vedi ancora un po' spaesati portare barelle tenendo sulle spalle i loro zaini da zona di guerra pesanti 40 chili.

Davanti alla loro ambasciata nella zona di Tabarre, un edificio enorme, smisurato per l'isola, giustificato solo dall'importanza strategica di Haiti nel cuore dei Caraibi e delle rotte di tutti i traffici di droga dalla Colombia alla Florida, ti cacciano già a male parole agitando l'M-16 manco fossimo in Iraq, quando fotografi la fila di haitiani in attesa di un visto perlione di emigrati fonte primaria di reddito con le loro rimesse. Nei sobborghi li vedi passare, ma non scendono dai mezzi. In centro, però, dove fino al giorno prima la gente continuava a rovistare nei magazzini semidistrutti finché qualche poliziotto o vigilante non gli sparava per poi ricominciare subito dopo, da martedì 16 i marines hanno iniziato a muoversi in grande stile. In squadre da una dozzina di uomini. Usando le loro ruspe di piccole dimensioni, color caki come gli humwee. Chiudono strade e passaggi, blindano l'area attorno al Marché au fer. E la gente li acclama.

Ti fanno segno di stare alla larga, ma con buone maniere, anche i caschi blu della Minustah di guardia alla sede, solo danneggiata, della Banca centrale di Haiti, vicino alla Dogana, inagibile, non lontano dalla Posta, crollata. E riaprono gli sportelli bancari, nella avenue del quartiere finanziario e, con lentezza, in qualche altra area di Portau- Prince e della un tempo più ricca Pétionville. Consentire alle persone di ritirare i propri depositi per far fronte all'emergenza, ridare fiato ai microcommerci di cui quasi tutti vivono in un'isola che non produce quasi nulla, è stato uno dei primi obbiettivi diEdmond Mulet capomissione Onu, i cui poliziotti provvedono in forze alla sicurezza degli istituti bancari.

I primi supermercati hanno riaperto solo molto tardi e con guardie armate nelle aree meno devastate; ma i commerci di strada erano ripresi quasi subito, anche senza i contanti chiusi nei caveau: frutta, pasta, sapone così come abiti e cosmetici perché le ragazze hanno gran cura di sé pur dormendo e studiando (sì, le vedi coi libri e i quaderni in mano) per terra, all'addiaccio. Non c'è soluzione di continuità, neanche visiva, tra gli accampati, le loro pentole dove cuociono il riso, i tubi con cui si lavano all'aperto, e quella che prima del 12 gennaio era la brulicante normalità di Haiti.

Nella piazza centrale di Pétionville, quella della cattedrale di Saint-Pierre rimasta in piedi e della più fornita libreria dell'isola, dov'è sorta una delle tendopoli più grandi, i venditori di quadri espongono di nuovo le loro coloratissime tele in mezzo ai bambini che giocano: soggetti tradizionali, palme e mare, mercato, folla di donne che portano sacchi sul capo, il generale da operetta col sigaro in mano, il naufragio del traghetto "Nettuno" nel febbraio '93 in faccia al porto, quando perirono 1500 persone.

Li vedi dipinti, quei disgraziati, mentre cadono in acqua o galleggiano ormai senza vita: senza cattiveria ma senza rimozione, nel modo in cui da noi si riproducevano le disgrazie sugli ex-voto. Qualcuno ha già cominciato a dipingere la terra che si apre, le case che rovinano, i morti abbandonati.

Gli umanitari che si avvicenderanno sull'isola li compreranno per ricordo con animo compassionevole, 5 dollari i piccoli, 10 i grandi, salvo nasconderli in un cassetto perché in salotto metterebbero di malumore. Non siamo attrezzati, noi popoli ricchi, a metabolizzare le sciagure. Questo è rimasto, forse, l'unico privilegio degli haitiani.

da L'Epsresso

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