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martedì 29 dicembre 2009

L'anno zero dei diritti

Parlano i rifugiati che hanno occupato l’ex liceo Socrate di Bari

di Silvia Dipinto
Le nuvole che vanno e vengono tradiscono la presenza di un sole pallido, incerto. All'ex liceo Socrate di Bari, occupato da meno di una settimana da un centinaio di rifugiati eritrei ed etiopi, due ragazzi portano qualche coperta e una sedia a sdraio: manca tutto nella struttura, abbandonata da tempo. Probabilmente c'erano scrivanie e computer quando le ultime classi sono andate via, e a guardar bene se ne rintracciano i resti. Finalmente quel debole filo di luce, troppo esile per scaldare giorni di freddo intenso a Bari, serve a qualcosa: Borhan testa la sdraio, "Mettiti al sole", gli dico, "che lì si sta meglio".
Il gruppetto di eritrei che mi si è fatto intorno ride, a chi toccherà quella sdraio, potenziale sostituta di una brandina non ancora disponibile? Le stanze sono state assegnate, le più grandi sono dormitori comuni, le più raccolte ospitano i nuclei familiari: con le prime scope arrivate si comincia a pulire, l'ex scuola è grande e qualcuno vuole farci una casa.

Amlsta, cuore di mamma. Amlsta ha una quarantina d'anni, è in Italia da un anno ma parla poco o nulla la nostra lingua: come tutte le donne qui ha grandi orecchini d'oro sull'elice, mangia un pezzo di focaccia fredda ai funghi, ha una voce morbida che si anima in acuti insospettabili. Dall'Etiopia è arrivata in Calabria via mare su un barcone con 265 persone, ognuna delle quali ha pagato 1.800 dollari per un viaggio di sei giorni, senza cibo e con l'acqua sufficiente per non morire. "Sei giorni senza mangiare?!", non contengo lo stupore. "Anche un mese stiamo così", interviene H., ha paura a parlare, ma anche lei non resiste e interviene, "noi tutti lo proviamo: attraversiamo il deserto, il Sahara, avanti e dietro per scappare, e lì non si mangia". Il marito di Amlsta è ancora in Libia, non riesce a partire. I suoi due bambini sono in comunità e riesce a vederli solo una volta a settimana: "Loro vanno a scuola, io sono contenta, ma vorrei vivere con loro, sono la loro mamma. Nel dormitorio non voglio più stare, alle sei di mattina sei fuori e per tutto il giorno devi stare per strada. Questa non è vita, senza lavoro, senza casa, senza marito e senza figli. Tutti gli africani hanno questi problemi".

Borhan, voglia di casa. "Gli italiani sono razzisti?", chiedo; e tutti ridono. "Beh, sì, l'Italia mi piace, ma non ci fa bene a noi stranieri: solo strada, strada e ancora strada". Borhan, venticinque anni, è venuto in Italia dall'Eritrea con la sorella, la mamma e due nipoti, una delle quali si è innamorata ed è sparita, e nessuna denuncia è servita a farla ritrovare. "In Eritrea ci conosciamo tutti, siamo solo quattro milioni", mi aveva detto Osman; innegabile che le comunità siano unite e coese all'interno, spesso solidali tra loro, ma in città si temono tensioni viste le condizioni disperate. Tanti sono i senza fissa dimora, e tra loro i rifugiati cui spetterebbero casa, lavoro, sussidi economici e assistenza sanitaria, ma nulla di tutto questo gli viene effettivamente e concretamente riconosciuto; la seconda accoglienza, in Italia, non funziona, e questo lo ammettono anche le istituzioni. Però la storia di Borhan mi fa riflettere, e prima di lui parla la stanza che è ora la sua camera: tutto è al suo posto, ordinata e pulita, dietro il tavolino con la tovaglia a quadri e resti di cibo ben conservati, resiste la lavagna con gessetti e cancellino. Borhan ha trovato un letto, ha appeso ai chiodini alle pareti i suoi indumenti e l'ombrello, ha recuperato un cestino per la spazzatura. Sul davanzale c'è un telefono fisso: non ha fili, ma fa tanto casa. Perché Borhan una casa l'ha avuta: "250 euro al mese, un garage senza nemmeno il lavandino, meglio qui, ora che l'aggiusto". In Eritrea lavorava con un italiano e conosce bene la lingua; ha un diploma e ha fatto l'imbianchino per quattro anni: "Tutto a nero, mi pagavano 30 euro al giorno, meno della metà rispetto agli altri operai". Ora ha perso tutto: "Sono iscritto ad un'agenzia, però non mi chiamano mai. Non pretendo nulla: chiedo solo la possibilità di stare qua e guadagnarmi da vivere". Borhan non abbassa la guardia: sa che ogni conquista è labile, che si possono fare passi indietro, regredire, anche se si comincia a camminare, disperati corridori, metri e metri prima della partenza.

da PeaceReporter

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