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martedì 24 novembre 2009

Perché l’Africa scompare dai giornali


“Ho cominciato molte delle mie lezioni criticando la copertura del continente africano da parte del New York Times“, afferma il blogger statunitense Ethan Zuckerman, che sul suo blog My heart’s in Accra analizza l’atteggiamento della stampa occidentale rispetto all’Africa.

“Le notizie che riguardano il Giappone, per esempio, sono 8-10 volte di più di quelle che riguardano la Nigeria, il che è incredibile se si pensa alla grandezza del paese e alla sua popolazione. E il New York Times è in buona compagnia perché tutti i giornali statunitensi hanno la stessa politica”, continua Zuckerman.

Esperto di nuove tecnologie, per molto tempo Zuckerman si è chiesto come mai sui giornali statunitensi non ci fosse attenzione per i paesi in via di sviluppo: “Pensavo che la mancanza d’informazione provocasse delle pesanti conseguenze sui paesi in via di sviluppo: se gli statunitensi non sanno niente del boom economico in Ghana, non investiranno in Ghana e non aiuteranno il paese a svilupparsi. Ma un paio d’anni fa ho capito che è soprattutto un problema di domanda”. I giornalisti vorrebbero parlare di più di Africa, ma i direttori non sono molto sicuri che i lettori vogliano davvero notizie sull’Africa, e nell’incertezza non lasciano passare molti articoli che riguardano questa parte di mondo.

A questo possono servire i siti di social networking come Facebook e Twitter. “Creare un gruppo su Facebook oppure lanciare un tag di Twitter può aiutare a far circolare alcune questioni e renderle interessanti. Questa è la maggiore utilità di questo tipo di azioni”, continua Zuckerman. “L’efficacia di queste azioni in rete non è tanto un cambiamento diretto a livello politico, quanto la costruzione di una coscienza e una conoscenza diffusa che sono un punto di partenza fondamentale”, scrive Zuckerman.

Anche se molti, come Evgeny Morozov, pensano che l’attivismo online non sia altro che slacktivism e cioè un modo simbolico e velleitario di seguire una causa senza nessun impegno e senza conseguenze, Zuckerman difende l’attivismo della rete e porta a sostegno della sua tesi numerosi esempi. Come il caso delle proteste in Iran nel giugno del 2009, a cui Twitter ha fatto da eccezionale cassa di risonanza.

da Internazionale

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