HOME       BLOG    VIDEO    EVENTI    GLI INVISIBILI    MUSICA    LIBRI    POLITICA LOCALE    POST PIU' COMMENTATI

mercoledì 28 ottobre 2009

C'è una logica nella crisi Vale la pena rileggere Marx

«Come sempre, con la prosperità si sviluppò molto rapidamente la speculazione. La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell'osservatore superficiale come causa della crisi».
«Il fatto che, laddove l'intero processo poggia sul credito, non appena il credito viene improvvisamente a mancare e ogni pagamento può essere effettuato solo in contanti debbano subentrare una crisi creditizia e la mancanza di mezzi di pagamento - è ovvio, come lo è il fatto che la crisi nel suo complesso debba presentarsi prima facie come crisi creditizia e monetaria. Ma in realtà non si tratta unicamente della "convertibilità" delle cambiali in denaro. Un'enorme massa di queste cambiali non rappresenta nulla più che transazioni truffaldine, che ora sono scoppiate e vengono alla luce del sole; esse rappresentano speculazioni andate male e fatte con il denaro altrui. È proprio bello che i capitalisti, che gridano tanto contro il "diritto al lavoro", ora pretendano dappertutto "pubblico appoggio" dai governi e facciano insomma valere il "diritto al profitto" a spese della comunità».
«Non c'è stato periodo di prosperità in cui gli stregoni ufficiali dell'economia non abbiano approfittato dell'occasione per dimostrare che questa volta la medaglia non aveva rovescio, che questa volta il fato era vinto. E il giorno in cui la crisi scoppiava, si atteggiavano a innocenti e si sfogavano contro il mondo commerciale e industriale con banalità moralistiche, accusandolo di mancanza di previdenza e di prudenza».
«Proprio il ripetuto insorgere di crisi a intervalli regolari nonostante tutti i moniti del passato smentisce l'idea che le loro ragioni ultime debbano essere ricercate nella mancanza di scrupoli di singoli individui. Gli economisti che pretendono di spiegare le periodiche contrazioni di industria e commercio con la speculazione assomigliano a quella scuola ormai scomparsa di filosofi della natura che considerava la febbre come la vera causa di tutte le malattie».
Chi scrive queste parole non è propriamente un nostro contemporaneo e non parla della recessione globale esplosa due anni fa e ancora in vorticoso sviluppo. È un attempato 35-45enne che risponde al nome di Karl Marx, e si occupa delle crisi economiche esplose tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Sessanta dell'Ottocento. Una prima sconfortante osservazione viene quindi spontanea. L'umanità non impara nulla dall'esperienza, continua a commettere gli stessi errori come la più stupida delle specie viventi. Poi subentra una seconda considerazione, meno ingenua. Se le crisi economiche si susseguono secondo un copione già analizzato con assoluta lucidità, e se, ciò nonostante, non si riesce a prevenirle, il problema non è tanto l'idiozia umana, quanto il fatto che per evitarle occorrerebbe guardare in faccia la distruttività sociale del capitalismo - la sua totale illegittimità storica - e agire di conseguenza, spedendolo in archivio una volta per sempre. Il che non è precisamente ciò che i capitalisti e i loro emissari politici auspicano.
Ma torniamo a Marx e alle sue folgoranti analisi. I fondamentali scritti marxiani sulla crisi sono oggi a nostra disposizione, riuniti in una bellissima antologia curata da Vladimiro Giacché (Karl Marx, Il capitalismo e la crisi , DeriveApprodi 2009, pp. 176, euro 15). Giacché è uno strano animale. È un economista marxista munito di una solida formazione filosofica (la cosa dovrebbe essere implicita ma da tempo non lo è, e lo si vede). Ed è altresì un esperto operatore finanziario, abituato a trascorrere buona parte del tempo studiando l'andamento dei mercati, i bilanci delle imprese e i flussi di investimento.
Questo invidiabile bagaglio di competenze gli ha permesso di orientarsi con mano sicura nel gigantesco lascito marxiano (in buona parte tuttora inedito) e di scrivere un saggio introduttivo di impareggiabile utilità. Nel quale da una parte fornisce al lettore informazioni necessarie per venire a capo di pagine a tratti impervie, dall'altra mostra la sconcertante attualità dell'impianto analitico marxiano, ancora insuperato per intelligenza e acume critico. Non bastasse, Giacché traduce (in modo impeccabile) alcuni testi (cinque articoli apparsi sulla New York Daily Tribune tra il 1852 e il '58 e il manoscritto sulla caduta tendenziale del saggio di profitto destinato al terzo Libro del Capitale , utilizzato da Engels ma rimasto inedito sino al 1992), testi che vengono quindi messi per la prima volta a disposizione del lettore italiano e che fanno di questo volume uno strumento irrinunciabile per chi voglia studiare seriamente la crisi senza ignorare il punto di vista di Marx.
Al centro dell'analisi è naturalmente il tema della sovrapproduzione, quindi la struttura contraddittoria del capitale (il che conferma che senza Hegel Marx non sarebbe Marx, e che, senza aver capito Hegel, di Marx si comprende ben poco). L'idea è che la pulsione naturale del capitale all'accumulazione lo spinga ad accrescere la propria componente fissa (macchine e tecnologia) e a diminuire la massa di valore destinata al lavoro, e che proprio queste misure, riducendo la componente creatrice di plusvalore e deprimendo la domanda effettiva, impediscono a una crescente quota del capitale di valorizzarsi adeguatamente.
Il filo del ragionamento tiene tuttavia sempre insieme due corni, in reciproca tensione: la necessità della crisi (effetto ciclico naturale dell'accumulazione) e la possibilità di farvi fronte, da parte del capitale, mobilitando «fattori di controtendenza», tra i quali spicca la lotta di classe (supersfruttamento e bassi salari) del capitale contro il lavoro vivo. Senza tenere conto di entrambi questi elementi la lettura marxiana delle crisi si blocca, deviando fatalmente verso gli esiti deterministici tipici dell'approccio economicistico.
Nella società moderna l'economia è troppo importante perché la si lasci agli economisti e la si interpreti in chiave puramente economica: anche questo insegnano il lavoro teorico di Marx e la sua concreta pratica di lotta, e di tale prezioso insegnamento questo libro aiuta a cogliere la fondamentale rilevanza.

da Indymedia

Nessun commento:

Posta un commento