Piazza D’Armi è la prima tendopoli dell’Aquila che viene smantellata ed è il campo di accoglienza che è stato, per vari motivi, sotto i riflettori dei media mainstream per più tempo. I residenti sono stati informati dello smantellamento del campo con 48 ore di preavviso; le assegnazioni ai nuovi alloggi provvisori (in alberghi aquilani – di cui uno nella zona rossa – o sulla montagna, o sulla costa, alla Caserma della Guardia di Finanza, in luoghi ancora da definire mentre scrivo), dopo oltre 5 mesi di vita nella tendopoli, si sono svolte in un clima di confusione e incertezza. Alcuni residenti del campo si sono definiti, in uno striscione, “I Ri-sfollati di Piazza d’Armi” e dicono che questo è come un secondo terremoto. Ciò si ripeterà fatalmente in tutti gli altri campi di accoglienza (125 al primo di settembre, con 15.892 persone alloggiate). Ecco perché esiste un’urgenza di documentare quel che accade all’interno del campo di Piazza d’Armi.
Per due giorni entro nel campo come visitatore semplice e rimango all’interno per ore, parlando con le persone. Intervistarli con la telecamera accesa è difficile. Devo fare le riprese in angoli nascosti. Spesso mi si chiede di oscurare il viso e modificare la voce di chi rilascia le poche dichiarazioni che ottengo. Quasi tutti temono che parlare a un giornalista possa nuocere loro per l’assegnazione dei prossimi alloggi temporanei.
Filmo, con la telecamera nascosta, qualche minuto della surreale festa di chiusura del campo, con balli di gruppo e karaoke, proprio come se si trattasse di un campeggio: ma non festeggiano in molti.
Filmo, insieme a cameraman e fotografi accreditati, lo smontaggio della prima tenda, la numero 92. E’ vuota da tempo. Viene smontata da una squadra dell’esercito ad uso e consumo di telecamere e macchine fotografiche. Perché qui, di solito, funziona così: si formano i pool di giornalisti, per documentare. Ci si iscrive, si viene condotti in loco, scortati dalle forze dell’ordine o dalla Protezione Civile o da entrambi e poi riportati via. Finito lo smontaggio della tenda, l’evento per il pool, la squadra dell’esercito si fa una foto di gruppo davanti ai tre sacchi che contengono la tenda e se ne va, seguita dalla stampa. Io rimango all’interno.
Il terzo giorno, 5 settembre 2009, decido di provare a entrare palesandomi come giornalista, insieme a un collega fotografo, Jànos, e a Sara Maddalena Cocuzzi, una ragazza aquilana che vuole documentare lo smantellamento del campo e portare all’interno del campo stesso i volantini che invitano la cittadinanza a partecipare all’Assemblea Cittadina che si terrà alle 17 del giorno stesso in Piazza Duomo e, a seguire, alla fiaccolata di commemorazione delle vittime del terremoto.
La stessa persona che mi ha fatto entrare come visitatore per due giorni, mi dice che essendo io un giornalista le cose cambiano: l’ingresso mi viene negato e mi si dice che dovrei prendere contatti con l’Ufficio Stampa della Protezione Civile. Sara viene invitata a recarsi dal capocampo; interviene anche la Digos che interroga lei e Jànos, ed esamina il contenuto del volantino.
Sara dichiara, in merito: “L’atteggiamento era molto conciliante, come se loro fossero intimamente d’accordo con me, come se non per loro scelta ma per disposizioni superiori dovessero per forza bloccarmi all’ingresso. Per più volte mi è stato ripetuto che non potevo entrare a dare volantini perché le persone sono shockate e non sono in grado di recepire in maniera corretta le informazioni che cercavo di veicolare. E per più volte mi è stato ripetuto che, però, siamo in democrazia”.
Veniamo pacificamente ma fermamente invitati a andarcene. Mi trovo a citare l’articolo 21 della Costituzione Italiana, cosa che mi capiterà parecchie volte in questi giorni, quasi sempre senza alcun successo.
Poche ore dopo telefono all’ufficio stampa della Protezione Civile (la telefonata viene ovviamente registrata) e faccio una breve relazione dell’accaduto. Mi sento rispondere, fra l’altro, che di fatto cercare di entrare in una tendopoli è come cercare di entrare in casa d’altri e che il capocampo sa se è bene o no che io entri, sa se la popolazione del campo (circa 1000 persone, nello specifico) vuole o meno che io faccia domande in giro. Mi dichiaro perplesso in merito. Vengo invitato a mandare una mail con la mia richiesta e a quel punto mi diranno cosa si può fare; io so bene cosa accadrà, in quel caso, perché mi è già successo ed è quello che succede ogni giorno a quasi tutti i colleghi giornalisti: mi verrà concesso l’ingresso e verrò accompagnato da un addetto della Protezione Civile che mi seguirà in ogni passo all’interno del campo. E la gente non parlerà.
Nel corso del primo pomeriggio, un gruppo di aquilani tenta di volantinare per comunicare alla popolazione dei due campi di Acquasanta – nei pressi del cimitero dell’Aquila - che Piazza Duomo sarà aperta fino a mezzanotte, per l’Assemblea Cittadina e la commemorazione dei morti del 6 aprile.
Vengono respinti all’ingresso. Così, ritorniamo insieme, con la telecamera accesa e in presenza di un avvocato e, dopo una serie di discussioni, si entra in entrambi i campi. Nel primo non ci prendono nemmeno i documenti - sebbene gli astanti abbiano palesato la volontà di identificarsi - nel secondo ci registrano all’ingresso, dopo aver intimato al sottoscritto di spegnere la telecamera. Che ovviamente non viene spenta.
Ecco. La varietà di risultati ottenuti nel corso dei diversi tentativi dimostra la totale assenza - o perlomeno l’arbitrarietà – delle disposizioni, che vengono continuamente citate dagli addetti della Protezione Civile ma non ci vengono mai fatte leggere, nonostante ripetute richieste.
Così, decidiamo di fare un tentativo diverso il giorno seguente, 6 settembre: un residente della tendopoli di Piazza d’Armi ci invita (il sottoscritto, altri cameraman, fotografi, cittadini aquilani), a entrare dentro al campo come suoi ospiti: la sua intenzione è quella di raccontarci la sua storia dall’interno della sua tenda.
Nonostante l’invito, veniamo immediatamente bloccati all’ingresso. Paradossale, considerato il fatto che la tenda è domicilio di chi vi risiede per ammissione stessa di uno psicologo della Protezione Civile. E’ casa sua.
Mentre si discute, diamo una telecamera a un altro residente del campo: viene impedito l’ingresso anche a lui; sia chiaro: nel corso della surreale festa per la chiusura del campo, quella con i balli di gruppo e karaoke, i residenti avevano telecamere e macchine fotografiche che utilizzavano senza problemi.
Il capocampo cerca di mostrarsi in qualche modo conciliante. Si allontana. Ritorna dopo venti minuti e comunica che il sottoscritto, in quanto iscritto all’Ordine dei Giornalisti, può entrare nel campo, così come l’avvocato che ci ha accompagnati.
Quanto agli aquilani che fanno parte dei comitati e che hanno intenzione, fra l’altro, di creare un osservatorio sullo smantellamento dei campi, dovranno produrre un documento scritto e una lista di persone scelte per l’ingresso nelle tendopoli. Documento che dovrà essere vagliato dal Dicomac (Direzione di Comando e Controllo della Protezione Civile)
Il fatto che io possa entrare, finalmente, mi fa pensare di poter documentare, alla luce del sole, sia le operazioni di smantellamento – non quelle allestite come in una piccola Cinecittà per la stampa ufficiale: quelle vere – sia le storie delle persone.
Purtroppo però il mio ingresso ufficiale nella tendopoli è accompagnato non solo da due funzionari della Protezione Civile ma anche da due carabinieri (come testimoniato dall’immagine scattata da Jànos): restano dietro di me per tutto il tempo, mi seguono e mi scortano. Il risultato è che non riesco a parlare praticamente con nessuno dei residenti: mi si dice anche, come battuta, “adesso non è che andrete a dire che la gente è stata intimidita e per questo non ha parlato”.
No, non andrò a dire solo questo. Andrò a dire, e a scrivere, che mi sono sentito e mi sento intimidito io stesso nell’esercizio del mio lavoro; che l’informazione all’Aquila non è libera; che di fatto la stampa è sottoposta sia ad autorizzazioni sia a censure, in barba a quell’articolo 21 della Costituzione Italiana che mai come in questi giorni ho dovuto citare.
Andrò a dire, e scrivere, che la stragrande maggioranza del giornalismo che viene prodotto qui è totalmente embedded, è un giornalismo che troppo spesso va a letto con le istituzioni, sia quelle tradizionali sia quelle dell’emergenza. Lo chiamerei shock journalism.
Ci sono poi altre considerazioni. E’ Jànos a farle, ma il sottoscritto le condivide parola per parola: “Noi cerchiamo e cercheremo di continuare a fare il nostro lavoro senza farci distrarre o intimidire, cercando di raccontare i fatti e dando voce agli Aquilani. Ma un dubbio ci sorge: perchè tutto questo? Perchè se io voglio documentare lo smantellamento della tendopoli mi trovo a parlare con la Digos? Perchè i giornalisti accreditati vengono scortati dai carabinieri? Perchè deve essere il capocampo a decidere se gli abitanti della tendopoli vogliono o non vogliono parlare con i giornalisti? Perchè tutti questi divieti di riprendere, di fotografare, di fare volantinaggio?
Il nostro lavoro non è quello di fare supposizioni, ma quello di guardare alla realtà, documentarla e cercare di capirla. Tuttavia, muovendosi tra protezione civile, polizia, carabinieri e persone troppo spaventate per rilasciare un’intervista, è difficile ignorare la strisciante sensazione che ci possa essere qualcosa da nascondere e che quelli che prendono le decisioni in questo Paese pensino che la libera informazione sia, all’occorrenza, qualcosa da limitare o da vietare e basta. Personalmente cercheremo di dare una risposta ai nostri dubbi, ma una cosa la vogliamo dire comunqe: noi in Italia queste cose le abbiamo già viste, e sappiamo anche come vanno a finire.”
Related Link: http://www.ikproduzioni.it/blog/index.php/2009/09/07/sh...e-all
da abruzzo.indymedia
Nessun commento:
Posta un commento