Il Foglio e il «culturame» di destra
Uno dice: intellettuali di destra. Poi pensa a Marcello Veneziani e gli cadono le braccia. Vabbè che la moglie, nelle more del divorzio, ha disperso la sua biblioteca sulle bancarelle, ma negli anni trascorsi da allora avrebbe potuto aggiornarsi. FareFuturo è una struttura dignitosa e perfino il Secolo a volte è leggibile. Libero e il Giornale di famiglia non direi proprio. Ma c’è il prestigioso Foglio di Giuliano Ferrara: quotidiano raffinato, si sa, certo un po’ troppo bushiano e berlusconiano, con quella bizzarria degli atei devoti e del culto di Ratzinger, però intelligente, no? Ci scrivono icone di nicchia come Sofri e Belardinelli, ci disegna Vincino. Un formato minimalista, poi!
Prendiamo però uno dei suoi opinionisti di vaglia, Camillo Langone. A prima vista è un tranquillo cattolico integralista, con un tocco incroyable post-giacobino, uno che s’intende di buona cucina e alle recensioni gastronomiche affianca la rassegna delle messe domenicali più in, accomunate dal buon vino forse con qualche imbarazzo dei sinceri praticanti. Staremmo insomma, con qualche saccenteria in più, nell’area delle solite cicalate di Annalena Benini e Marianna Rizzini, di volta in volta spacciate per commentatrici politiche o cronachiste di costume (memorabili le incursioni contro l’Onda anomala). Il 7 settembre 2009 inizia una crociata contro la neo-lingua del politically correct, che prosegue per altre due puntate e, dopo aver suscitato irate reazioni, sparisce rapidamente dal sito on line. Il contesto mensile, inutile ricordarlo, è quello delle aggressioni omofobiche a Roma, degli scandali di Palazzo Grazioli e Villa Certosa e del respingimento dei barconi nel canale di Sicilia.
Prima tornata, gay. Dio mio, che orrore, impronunciabile. Passi che una donna dica dire “scopare” o “cazzo” come se niente fosse, è pur sempre un turpiloquio personale che degrada chi lo usa e basta, ma usare il termine gay è un danno sociale. Parola straniera, quando noi ne abbiamo di bellissime: busone, culano, ricchione, culattone. Fonema che si pronuncia diversamente da come si scrive, inducendo di conseguenza dislessia. Vocabolo rubato al provenzale. Infine «impone alla società un giudizio positivo su chi imposta la propria vita sui rapporti omosessuali... L’uomo orgoglioso di andare con gli uomini è gaio quindi felice, è uno che ride, che balla e si diverte e non avendo figli da mantenere può permettersi più viaggi, più vacanze, più ristoranti, più mostre, più cinema, più concerti ... E se invece io giudicassi costui un povero sfigato, in senso stretto e lato, una cicala che non canterà a lungo, un patrimonio genetico finito in un vicolo cieco, un segno di ripugnante decadenza? Vincesse Paola Concia dovrei usare un mucchio di frasi contorte mentre invece qui mi basta dire “frocio”: una parola, questa sì, all’altezza dei miei mocassini Cole Haan».
Parole non ci appulcro (Dante era molto più tormentato nel condannare la sodomia del suo amato maestro Brunetto Latini).
Seconda tornata, escort. Esordio icastico: «Puttane, si chiamano puttane. La donna che vende il proprio corpo in una blasfema parodia dell’amore è una puttana, una baldracca, una bagascia, una mignotta, una zoccola, una troia». Poi torna una donna normale, magari (squisitezza letteraria un po’ cheap) è la «bad girl cantata da Donna Summer e poi Jamiroquai». Escort è “scorta”, protezione come la Madonna nel Canzoniere di Francesco Petrarca e nelle rime di Michelangelo Buonarroti, «sommo artefice e grande poeta i cui mal protesi nervi non lo facevano sentire gaio bensì, giustamente, disgraziatissimo». Osserviamo timidamente che scortum in latino significa proprio puttana e il verbo deponente scortor significa andare a puttane, come il Papi insomma. Comunque, si domanda elegantemente Langone, perché usare eufemismi in questo caso, dato che a differenza dei gay, «non esiste, che io sappia, un Arcitroie e nemmeno un Batton Pride... le donne di malaffare non hanno i medesimi strumenti di pressione degli omosessuali» e dunque le si può insultare tranquillamente, godersele («non siano verginelle») oppure sostituirle con piaceri «quasi altrettanto sensuali che risparmiano la tristezza del post coitum: il Lambrusco Vecchia Modena, le biciclette Taurus, i libri Adelphi». Ahi, ahi, dopo aver imitato il teologo libertino Octave della klossowskiana Trilogia di Roberta, il nostro scade al livello dell’inserto R2 di Repubblica, si rivela lettore di Calasso e Márai. Il sublime for dummies, altro che i mocassini Cole Haan o i pantaloni Incotex (non crediate poi chissà che, si trovano in saldo su Google).
Terza tornata, migranti. E qui c’è ancor meno da ridere.
«Chiamare “migrante” uno straniero che entra in casa tua senza permesso, e che pure esige vitto e alloggio, significa equipararlo dissennatamente a un fragile volatile a rischio di estinzione, meritevole di cure spasmodiche...(anzi in realtà) in Italia a rischio di estinzione sono gli indigeni, non gli allogeni, la cui mamma è sempre incinta». Non abbiamo asili, ospedali, posti di lavoro e dobbiamo far posto a questi intrusi, neppure cristiani, mica come i nostri bravi meridionali diretti a Torino o Milano, che «quando il vagone cominciava a muoversi le donne si facevano il segno della croce» e nelle valigie di cartone «portavano dal paese il capocollo e la soppressata, più piccanti della luganega e del salame di Varzi ma ugualmente a base di maiale. Nelle mense scolastiche non esisteva il problema dei menù differenziati e il presepe era la gioia di tutti i piccini. L’emigrante era accomodante, il migrante è invadente». Non beve e non assaggia il maiale (qui rifà capolino lo stimabile esegeta delle osterie). «Gli emigranti portavano braccia, i migranti portano una cultura. Un’altra cultura». Tutto insieme: elogio dell’analfabetismo e dei sacconiani “lavori umili”, orrore berlusconiano del “multiculturale” (altra parolaccia): «utopia flatulente che ha trasformato gli stranieri clandestini nelle intoccabili vacche sacre di quelle piccole calcutte che sono diventate le città italiane». Lui, «che ha letto Simone Weil (sa) che colui che dice “migrante” è come chi svuota il portacenere dell’automobile al semaforo: un incivile che considera il mondo res nullius. Chi dice “migrante” autorizza sei miliardi di persone a spostarsi ovunque in qualunque momento con qualunque mezzo, infischiandosene di quello che verrà inevitabilmente calpestato: culture locali, ambienti naturali, sistemi previdenziali». Lui ha letto Simone Weil. Roba da querela. I migranti non sono poetici uccelli di passo, sono anzi «i nuovi unni», mica vanno e vengono, vengono e non si muovono più: «non sono migranti, sono migrati. Li trovo davanti al supermercato e alla libreria, giovanotti petulanti che offrono libercoli africanisti per leggere i quali si dovrebbe pure pagare, e qualche anziana signora ci casca e sgancia. Si sono integrati in fretta questi abbronzati, sono diventati bamboccioni come i coetanei nativi e pensano che ai vecchi spetti il dovere di mantenerli». Lui, «che ha letto san Bernardo di Chiaravalle» (altra querela), conclude: «è settembre, se sono migranti è tempo che migrino». Indossando i suddetti mocassini Cole Haan, s’intende. Ottimi per il deserto libico.
Indignarsi? Bah, non sembrano provocazioni tremende. E la banale paccottiglia di qualsiasi comizio delle Lega, barzellette da “serata elegante” del Papi ante coitum, audaci battute da bar, tutto scontato e leggermente schifoso, come direbbe Brunetta del “culturame” di sinistra. Quello di destra non se la passa meglio. Donde la domanda, di una banalità altrettanto sconcertante: ma che ci azzecca con questa roba uno come Sofri?
di Augusto Illuminati da GlobalProject
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