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mercoledì 22 luglio 2009

Paolo Borsellino. La sua morte fu opera di "menti raffinatissime"

Totò Riina e il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, danno credito all’ipotesi che l’attentato del 19 luglio 1992 non fu opera di Cosa Nostra. E le indagini ripartono.

Ora ci sono i suggelli più importanti. In primo luogo quello di Totò Riina che, con un vero colpo di teatro (i boss mafiosi, anche se non sono “tragediatori” come il capo dei capi, conoscono a menadito gli effetti scenici delle loro “uscite”), tramite il suo avvocato, ha prenotato paginate di quotidiani per dichiarazioni che nessuno avrebbe mai supposto potesse fare. “Sono stati loro” ha detto Totò dalla prigione a vita cui è stato inesorabilmente condannato per una vita spesa a massacrare cristiani e ad accumulare denaro. Si riferiva allo Stato, agli apparati deviati, insomma ai servizi segreti che ovviamente non agirono per se stessi ma per un’entità superiore che li guidò e che tuttora è perfettamente sconosciuta. Sarebbero stati loro, appunto, ad organizzare e realizzare l’attentato che avrebbe annientato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta.

Il secondo suggello proviene ufficialmente dal procuratore capo di Caltanissetta, Sergio Lari, titolare delle indagini sul magistrato anti-mafia ucciso il 19 luglio del 1992, due mesi dopo la morte del suo amico fraterno Giovanni Falcone a Capaci. Oggi, in un’intervista a “Repubblica” ammette di aver ripreso il filo delle indagini su quella morte, perché ci sono nuovi elementi. Innanzitutto le confessioni di Gaspare Spatuzza, un collaboratore di giustizia che, afferma Sergio Lari, “ha dato la svolta alle indagini”. Attraverso “alcune acquisizioni processuali siamo in grado di fare una rilettura critica delle indagini precedenti”. Anche Totò Riina, secondo Lari, è consapevole che le indagini stiano ripartendo, assicura il procuratore, ed è per questo che avrebbe deciso di far emergere il suo pensiero: “È abbastanza chiaro – afferma Lari – che quel suo messaggio a mezzo stampa era diretto a noi, ai titolari delle indagini sulle stragi”. Poi il procuratore va diretto all’omicidio di Paolo Borsellino e conferma le peggiori ipotesi su quella tragica morte: “Una è questa: si pensa che Borsellino fosse venuto a conoscenza della trattativa e che si fosse messo di traverso. E, proprio per questo, sarebbe stato ucciso”. Il procuratore non esclude anche un’altra ipotesi: quella trattativa fra Stato e mafia sarebbe fallita ed allora lo stesso Riina avrebbe deciso di sterminare Borsellino e la sua scorta “allo scopo di costringere lo Stato a venire a patti”. Infine, l’ultimo mistero (per ora, perché di misteri, quando si parla di Cosa Nostra e Stato, ce ne sono stati sempre innumerevoli), quello dell’agenda rossa del giudice fatta sparire. Dice Lari: “Chi l’ha fatta sparire diciassette anni fa l’ha fatta sparire per non farla ritrovare mai più” perché, forse, in quella agenda vi erano appunti personali “sulla strage di Capaci e sul suo amico Giovanni Falcone” o “su quella trattativa che qualcuno voleva fare”.

Riina e il procuratore di Caltanissetta confermano quello che il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, ingegnere informatico, denuncia dal giorno dell’attentato. “Io non mi ero mai occupato di mafia e seguivo le indagini di mio fratello Paolo da lontano, senza capirci nulla” affermava Salvatore in uno dei numerosi incontri pubblici organizzati con gli studenti delle scuole nel mese di maggio, al quale aveva partecipato anche Gioacchino Genchi, il poliziotto esperto di tecniche informatiche di ricettazione e Sonia Alfano, la neo-deputata europea figlia di Beppe, il giornalista ucciso dalla mafia. “Ma la morte di Paolo mi ha risvegliato. Improvvisamente ho compreso che avrei dovuto spendere questa parte di vita nel denunciare il complotto dei servizi segreti che portò alla strage del 19 luglio del 1992”.

Secondo Salvatore Borsellino, infatti, l’uccisione di suo fratello fu organizzata dai servizi segreti e da un livello politico segreto per tacitare l’ostacolo più serio alla trattativa fra mafia e Stato che, proprio in quel periodo, apparati deviati stavano conducendo tramite Vito Ciancimino. Addirittura, ha affermato Salvatore Borsellino, il tritolo piazzato davanti alla casa della madre, fu azionato da un telecomando nel Castello di Utvegio, una antica residenza prospiciente la zona della strage e sede a disposizione dei servizi.

Nel suo modo mafioso, Riina avalla questa ipotesi. Le dichiarazioni del boss corleonese, paradossalmente, confermerebbero le ipotesi di Borsellino e dello stesso Gioacchino Gerghi che, proprio nell’incontro di maggio con gli studenti, ha fatto anche il nome di Bruno Contrada, secondo lui presente sul luogo della strage subito dopo lo scoppio dell’auto imbottita di tritolo.

E così le indagini sulla morte dell’amico fraterno di Giovanni Falcone si riaprono e questa volta sembrano aver imboccato una strada diversa da quella del mero “attentato di mafia”, una pista peraltro ipotizzata quasi da subito e avvalorata da un nugolo di indizi che però non vollero essere approfonditi. A Cosa Nostra forse non interessava uccidere anche Paolo Borsellino, dopo aver eliminato Falcone che, dal ministero della Giustizia – di cui era titolare Claudio Martelli – dirigeva l’istituzione delle procure distrettuali antimafia ed era dunque diventato ancora più pericoloso per l’organizzazione. Anzi, un’altra strage, dopo quella di Capaci, avrebbe provocato danni esiziali alla compagine criminale, come in effetti avvenne. E questo, per Cosa Nostra, è motivo più che valido per continuare a tenere in vita una persona, anche se si trattava di Paolo Borsellino.

da Indymedia di Furio De Felice

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