Dal panico post-11 settembre al waterboarding. L'inchiesta del Washington Post
Le prove generali furono fatte in una cella di Bangkok, dopo l'arresto di Abu Zubayda
La discesa nella valle degli orrori della Cia avvenne un passo alla volta, come sempre avviene, senza accorgersi che la fortezza della democrazia si stava trasformando nel nemico che voleva combattere. E diventava un'altra "Villa Triste" globale per sadici e aguzzini, nel nome della sicurezza nazionale.
Siamo soltanto all'inizio di questo processo, tipicamente americano, di catarsi e di autoflagellazione attraverso la verità, appena sei mesi dopo il cambio di amministrazione. Dagli armadi socchiusi della "guerra al terrore" avanza ormai una processione discheletri destinata soltanto ad allungarsi, perché finalmente, ora che il padrone è cambiato, le coscienze si sentono libere di parlare, almeno a mezza bocca.
Sono storie di sospetti terroristi - sospetti, neppure colpevoli accertati - sottoposti al finto annegamento chiamato waterboarding fino a 83 volte in cinque giorni, come Abu Zubayda, nella speranza di strappare loro quei piani e quei nomi che avrebbero protetto l'America, secondo il mito isterico della "bomba che ticchetta" da telefilm "24", che anche giureconsulti come il professor Alan Dershowitz di Harvard giustificavano. Il Washington Post enumera cataloghi grandguignoleschi di privazione di sonno, una delle tecniche più atroci; sequestri in scatole di legno troppo piccole, costretti a restare per giorni in posizione anchilosata fino all'esplosione di dolori lancinanti alle giunture; teste ripetutamente pestate contro il muro, ma avvolte in asciugamani per non lasciare tracce. È un campionario che sembra tratto dall'ordine di servizio emesso nel 1937 dal leader della Gestapo, Heinrich Mueller, inventore della "Verschaerfte Vernhemung". L'interrogatorio inasprito, adottato dall'America di Bush.
Come già nelle fosse dell'Afghanistan, nel carcere di Abu Grahib o nella pratica di appaltare le torture dei prigioneri ad altre nazioni più ruvide, al cuore di questa tragedia dell'onore americano stanno due elementi: 1) Il panico dell'11 settembre, con la rivelazione lancinante della vulnerabilità dell'America e della inettitudine dei servizi segreti; 2) La commistione tossica fra funzionari di governo e contractors privati, di ex militari, agenti, avventurieri passati ai migliori redditi offerti da chi prendeva in appalto quello che militari e agenti in servizio non volevano o non potevano fare. Sciolti da ogni codice di comportamento, fuori dai confini nazionali e ubriachi del loro potere assoluto sulle vittime.
L'imperativo di "proteggere la nazione" sembrava giustificare tutto, nel solito commercio luciferino fra sicurezza e libertà, fra la legge e le scorciatoie. Se la guerra segreta condotta dallo spionaggio nei 50 anni di Guerra Fredda non era mai stata un tè per nobildonne, almeno qualche elementare codice di comportamento fra Usa e Urss esisteva, nella certezza che ciò che tu avessi fatto al mio agente, io avrei fatto al tuo. Ma questi parametri saltarono quella mattina dell'11 settembre, di fronte a macellai accecati dal fanatismo e indifferenti alla propria morte.
Se un personaggio come Zayn al-bidin Mohammed, Abu Zubayda, cadeva nelle mani della Cia in Pakistan, la macchina dell'interrogatorio "verschaerfte", inasprito, scattava, e le squadra miste di agenti ufficiali e di contractors si metteva in azione. Tutto era lecito, anche la tecnica di "far diventare blu" gli interrogati, tenendoli a bagno nell'acqua ghiacciata per ore, già denunciata al processo di Norimberga come crimine di guerra. A volte autorizzata, a volta improvvisata, ma sempre nella certezza che fosse stata approvata downtown, in centro, cioè dal governo di Washington.
Ci fu chi si ribellò, come sempre c'è, come lo psicologo dr. Mitchell, aguzzino poi disgustato, ex Cia passato a una delle tante società per la guerra private. Nel 2005, anche il Ministero della Giustzia a Washington, quello che sfornava ambigui documenti legali a comando per autorizzare le torture, dichiarò non più necessari gli interrogatori "inaspriti".
La ubriacatura del terrore, che non è la necessaria protezione, si stava riassorbendo, insieme con il sospetto che quelle sevizie non producessero niente e nuocessero all'anima, prima ancora che all'immagine, dell'America. Ora è naturalmente la Cia a essere chiamata a rispondere, mentre il governo Obama sta cercando di ridefinire i criteri, i limiti, le responsabilità, togliendo il monopolio alla Cia di futuri interrogatori, perché il pericolo non è passato e la speranza non è una difesa contro i folli suicidi. Ma l'apertura di quegli armadi serve almeno a ricordare, a questo e ai futuri presidenti, il rischio eterno di confermare la profezia di un famoso personaggio di fumetti americani che formarono una generazione di lettori negli anni '50 e '60, l'opossum Pogo. Che annunciò agli altri animali della foresta inquieti di "avere finalmente incontrato il nemico". E di avere scoperto "che il nemico siamo noi".
(20 luglio 2009) da "la Repubblica"
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