Giulio presidente del Senato? Ecco gli eventi accertati. Incontrò due volte il capo di Cosa nostra, Stefano Bontate. Coltivò rapporti con Salvo Lima, Vito Ciancimino, i cugini Salvo. Parlò con il boss Manciaracina
Candidato alla presidenza del Senato. Dal centrodestra, ma non senza la possibilità di «unire», cioè di ottenere voti dal centrosinistra. Una candidatura, ha esplicitato qualcuno, che vale anche come risarcimento per il «calvario giudiziario» che ha dovuto sopportare.Giulio Andreotti riuscirà a conquistare la seconda carica dello Stato? A ogni buon conto, ecco alcuni brani delle sentenze palermitane che lo riguardano. Vi sono raccontati fatti che basterebbero da soli anche prescindendo dalle paroline finali (assolto, condannato, prescritto) a spingere qualunque cittadino di qualunque Paese civile a decidere di non stringere più la mano a chi ne è stato protagonista. Altro che cariche istituzionali.
Alcune note tecniche. La sentenza di primo grado (del 23 ottobre 1999) è confermata da quella d¹appello (del 2 maggio 2003), che la riforma soltanto trasformando l¹assoluzione in prescrizione del reato di associazione a delinquere, comunque «commesso fino alla primavera del 1980». Dunque il senatore Andreotti per i suoi rapporti con Cosa nostra è stato riconosciuto responsabile, fino al 1980, del reato di associazione a delinquere (l¹associazione mafiosa, con l¹articolo 416 bis, è stata introdotta solo dopo i fatti contestati). Per le accuse successive alla primavera del 1980, la Corte d¹appello conferma i fatti, confermando però anche l¹assoluzione: ai sensi dell¹articolo 530 secondo comma del Codice di procedura penale, che ricalca la vecchia insufficienza di prove. Tutto ciò diventa definitivo con la sentenza finale dalla Cassazione, il 15 ottobre 2004. Ecco dunque i fatti accertati nelle sentenze Andreotti.
Rapporti con Cosa nostra.
Secondo la Corte d¹appello, Andreotti, «con la sua condotta (...) (non meramente fittizia) ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi».
In definitiva, la Corte ritiene «che sia ravvisabile il reato di partecipazione alla associazione per delinquere nella condotta di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del Paese ed estraneo all¹ambiente siciliano, il quale, nell¹arco di un congruo lasso di tempo, anche al di fuori di una esplicitata negoziazione di appoggi elettorali in cambio di propri interventi in favore di una organizzazione mafiosa di rilevantissimo radicamento territoriale nell¹Isola: a) chieda ed ottenga, per conto di suoi sodali, ad esponenti di spicco della associazione interventi para-legali, ancorché per finalità non riprovevoli; b) incontri ripetutamente esponenti di vertice della stessa associazione; c) intrattenga con gli stessi relazioni amichevoli, rafforzandone la influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti; d) appalesi autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso; e) indichi ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discuta con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati; f) ometta di denunciare elementi utili a far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi; g) dia, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi segni autentici e non meramente fittizi di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale».
Le «vicende particolarmente delicate per la vita» di Cosa nostra e i «fatti di particolarissima gravità» sopra menzionati riguardano Piersanti Mattarella, presidente democristiano della Regione Sicilia, impegnato in un¹opera di moralizzazione che l¹aveva posto in rotta di collisione con la mafia, che perciò lo uccise il giorno dell¹Epifania, il 6 gennaio 1980, mentre con la moglie, la madre e i suoi due figli stava per andare a messa. Andreotti, si legge nella sentenza, «era certamente e nettamente contrario» alla commissione del delitto, ma come tentò di evitarlo? Andando a incontrare in Sicilia l¹allora capo di Cosa nostra, Stefano Bontate, per trattare con lui e discutere dei «problemi» che Mattarella poneva. Andreotti, «nell¹occasione, non si è mosso secondo logiche istituzionali, che potevano suggerirgli di respingere la minaccia alla incolumità del presidente della Regione facendo in modo che intervenissero per tutelarlo gli organi a ciò preposti e, per altro verso, allontanandosi definitivamente dai mafiosi, anche denunciando a chi di dovere le loro identità ed i loro disegni».
Invece, «ha, sì, agito per assumere il controllo della situazione critica e preservare la incolumità dell¹on. Mattarella, che non era certo un suo sodale, ma lo ha fatto dialogando con i mafiosi e palesando, pertanto, la volontà di conservare le amichevoli, pregresse e fruttuose relazioni con costoro, che, in quel contesto, non possono interpretarsi come meramente fittizie e strumentali». Ucciso dai mafiosi Mattarella, «Andreotti non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi ed a allontanarsi senz¹altro dagli stessi, ma è ³sceso² in Sicilia per chiedere conto al Bontate della scelta di sopprimere il presidente della Regione: anche tale atteggiamento deve considerarsi incompatibile con una pregressa disponibilità soltanto strumentale e fittizia e (...) non può che leggersi come espressione dell¹intento (fallito per le ragioni già esposte in altra parte della sentenza) di verificare, sia pure attraverso un duro chiarimento, la possibilità di recuperare il controllo sulla azione dei mafiosi riportandola entro i tradizionali canali di rispetto per la istituzione pubblica e di salvaguardare le buone relazioni con gli stessi, nel quadro della aspirazione alla continuità delle stesse».
Rapporti con Michele Sindona.
Intensi e significativi i rapporti di Andreotti con il bancarottiere legato alla mafia siciliana, condannato come mandante dell¹omicidio di Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore delle banche di Sindona. Secondo la sentenza di primo grado, «è stato provato» che il senatore Andreotti «adottò reiteratamente iniziative idonee ad agevolare la realizzazione degli interessi del Sindona nel periodo successivo al 1973», così come fecero «taluni altri esponenti politici, ambienti mafiosi e rappresentanti della loggia massonica P2». Andreotti destinò a Sindona «un continuativo interessamento, proprio in un periodo in cui egli ricopriva importantissime cariche governative». Fu «attivo» il suo «impegno per agevolare la soluzione dei problemi di ordine economico-finanziario e di ordine giudiziario» di Sindona e per avvantaggiarlo nel «disegno di sottrarsi alle conseguenze delle proprie condotte». Se «gli interessi di Sindona non prevalsero» fu merito di Ambrosoli, che si oppose ai progetti di salvataggio del finanziere, sostenuti invece da Andreotti, altri politici, ambienti mafiosi e piduisti. Andreotti «anche nel periodo in cui rivestiva le cariche di ministro e di presidente del Consiglio si adoperò in favore di Sindona, nei cui confronti l¹autorità giudiziaria italiana aveva emesso fin dal 24 ottobre 1974 un ordine di cattura per bancarotta fraudolenta». I referenti mafiosi di Sindona conoscevano «il significato essenziale dell¹intervento spiegato dal senatore Andreotti (anche se non le specifiche modalità di esso)». E tuttavia, conclude il tribunale, non vi è «prova sufficiente che l¹imputato abbia agito con la coscienza e volontà di apportare un contributo casualmente rilevante per la conservazione o il rafforzamento dell¹organizzazione mafiosa».
Rapporti con i cugini Salvo.
Ignazio Salvo fu condannato per mafia e poi ucciso da Cosa nostra, Nino Salvo morì per cause naturali dieci giorni prima dell¹inizio del maxiprocesso di Palermo, che lo vedeva tra i rinviati a giudizio. «L¹asserzione dell¹imputato di non aver intrattenuto alcun rapporto con i cugini Salvo è risultata inequivocabilmente contraddetta dalle risultanze probatorie», sancisce la sentenza di primo grado. Tra queste risultanze, due testimonianze oculari su un lungo colloquio tra Andreotti e Nino Salvo nel corso di un¹iniziativa pubblica il 7 giugno 1979 e il vassoio d¹argento regalato dall¹onorevole ad Angela Salvo, figlia di Antonino, in occasione del suo matrimonio. La sentenza giudica però non dimostrato che Andreotti abbia «manifestato ai cugini Salvo una permanente disponibilità ad attivarsi per il conseguimento degli obiettivi propri dell¹associazione mafiosa». Osserva inoltre il tribunale che probabilmente l¹onorevole Andreotti, negando in aula questo rapporto, voleva solo «evitare ogni appannamento della propria immagine di uomo politico», cercava di «impedire che nell¹opinione pubblica si formasse la certezza dell¹esistenza dei suoi rapporti personali con soggetti quali i cugini Salvo, organicamente inseriti in Cosa nostra».
Rapporti con Lima e Ciancimino.
Altrettanto provati sono i rapporti di Andreotti con Salvo Lima, il discusso leader della corrente andreottiana in Sicilia, e Vito Ciancimino, l¹ex sindaco democristiano di Palermo condannato in via definitiva per mafia. La sentenza di Cassazione, che accoglie integralmente le conclusioni dei giudici di primo e secondo grado, ritiene accertato «che il senatore Andreotti ha avuto piena consapevolezza che i suoi referenti siciliani (Lima, i Salvo, Ciancimino) intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; che egli aveva quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; che aveva palesato ai medesimi una disponibilità non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; che aveva loro chiesto favori; che li aveva incontrati; che aveva interagito con essiŠ che aveva omesso di denunciare le loro responsabilità».
Incontro con il mafioso Andrea Manciaracina.
Il 19 agosto 1985, all¹Hotel Hopps di Mazara del Vallo, il ministro degli Esteri Andreotti incontra il boss Andrea Manciaracina, all¹epoca sorvegliato speciale e uomo di fiducia di Totò Riina. Un colloquio riservato, in una stanza chiusa, testimoniato non da un «pentito» ma dal sovraintendente capo della polizia Francesco Stramandino, inviato sul posto per tutelare la sicurezza del ministro che lì avrebbe tenuto un breve discorso. Sentito dalla procura di Palermo il 19 maggio 1993, Stramandino dichiarò: «Ricordo che rimasi un po¹ sorpreso di ciò, poiché pensai che l¹on. Andreotti trattava cortesemente una persona del tipo di Manciaracina, e magari poi a noi della polizia neanche ci guardava». Lo stesso Andreotti ha ammesso in aula l¹incontro con Manciaracina, spiegando che il colloquio ebbe a che fare con i problemi della pesca. La sentenza di primo grado definisce «inverosimile» la «ricostruzione dell¹episodio offerta dall¹imputato». Però «manca qualsiasi elemento che consenta di ricostruire il contenuto del colloquio». La versione «inverosimile» fornita dall¹onorevole Andreotti, secondo il tribunale, potrebbe essere dovuta «al suo intento di non offuscare la propria immagine pubblica ammettendo di avere incontrato un soggetto strettamente collegato alla criminalità organizzata e di avere conferito con lui in modo assolutamente riservato».
da Società Civile
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