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venerdì 4 marzo 2011

Beirut, aspettando la rivoluzione


Manifestazioni anche in Libano, dove lo scenario pare molto differente dal resto del mondo arabo

scritto da Erminia Calabrese da Beirut per PeaceReporter

"Pane, lavoro e libertà", urlavano i manifestanti nelle varie piazze arabe che nelle ultime settimane hanno trovato nel canale satellitare al-Jazeera una vera e propria leadership. "Il popolo vuole la caduta del regime", gridavano i rivoluzionari a Tunisi, al Cairo a Tripoli, liberandosi di regimi e di tiranni che per trenta anni avevano vietato ogni forma di libertà e la possibilità di una vita dignitosa per loro e per i loro figli.
Senza nessuna distinzione di religione, tribù, famiglie è stato il popolo il vero protagonista di queste rivoluzioni che qualcuno ha voluto chiamare "miracolo arabo". E' stato il popolo stavolta a liberarsi da quella retorica coloniale che da sempre aveva preteso di trasformare gli arabi in persone pigre e soggiogate dall'Islam. Bisognerebbe chiedere a Georges Bush o ad Hillary Clinton cosa hanno provato mentre la piazza al Cairo rovesciava quel regime che da anni l'amministrazione statunitense aveva appoggiato e finanziato perché considerato moderato, per il semplice fatto di aver firmato un accordo di pace con Israele, che aveva potuto cosi approfittare del gas egiziano a prezzi ridotti.
"Quando sei costretto a lavorare dalle cinque di mattina alle dieci di sera e nonostante questo vedi che non riesci ad arrivare a fine mese allora vuol dire che c'è un vero problema", commentava un cittadino libanese nei giorni della rivolta al Cairo - "allora vuol dire che devi iniziare a far sentire la tua voce".

"Il popolo vuole la caduta del regime settario", gridavano invece a Beirut, domenica scorsa, circa quattro mila persone, in maggioranza giovani, che sulla scia delle rivolte in Medio Oriente e in Nord Africa avevano organizzato una manifestazione nella capitale. In un Paese dove il potere è diviso tra diciotto comunità confessionali eredità dell'impero ottomano rafforzata dal colonialismo francese nel Paese una rivoluzione sembra però essere improbabile perché come ricorda Khalil, responsabile del Partito Comunista all'Università Americana di Beirut: "Se in Libia il tiranno è uno qui in Libano ne abbiamo tanti, uno per ogni confessione e una mobilitazione in termini nazionali è davvero difficile".

"Siamo stanchi di dover andare all'estero per trovare un lavoro mentre i nostri dirigenti non fanno altro che metterci gli uni contro gli altri utilizzando la retorica confessionale", dice Hani, un ragazzo di 26 anni.
In questo stesso giorno, mentre sotto la pioggia i giovani senza perdersi d'animo manifestavano per le strade della capitale, al nord del paese, nella regione di Akkar, una delle zone più povere del paese dove ogni famiglia in media è costituita da nove membri, Ahmad Hariri, vice presidente del Partito al-Mustaqbal, capeggiato dall'ex ormai premier Saad Hariri girava per le strade di Akkar in cerca di consensi distribuendo pane e lavoro, dopo che il premier designato Najib Miqati aveva ricevuto un bagno di folla nella visita a Tripoli, sua città natale.

"Non c'è lavoro qui, è solo grazie a Saad Hariri se oggi posso mettere qualcosa nel piatto dei miei nove figli. La settimana scorsa mi hanno addirittura spedito una valigia piena di vestiti per bambini", ricorda Yemen, una donna sui cinquant'anni. "Ho trovato un lavoro grazie ad Hariri che mi ha impiegato in una delle sue tante istituzioni qui nella regione", racconta invece Abu Ahmad. "E' lui che si occupa dell'istruzione dei miei figli e in caso delle loro cure mediche".
Se pane e lavoro ci sono, dove è la libertà?

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