HOME       BLOG    VIDEO    EVENTI    GLI INVISIBILI    MUSICA    LIBRI    POLITICA LOCALE    POST PIU' COMMENTATI

giovedì 14 ottobre 2010

La vita di Aldro


“… ma nessuno purtroppo pagherà per ciò che ci hanno fatto, perché questa è l’Italia.” - Patrizia Moretti Aldrovandi

di Marco Rigamo
Per la nostra missione di pace in Afghanistan – quella per cui il ministro il ministro La Russa chiede che i caccia di pace Amx siano armati di intelligenti bombe di pace – lo Stato spende circa 56 milioni al mese, più di 3 miliardi finora per sedere al lucroso tavolo dell’Esportazione Bellica della Democrazia. Facile perciò intuire la soddisfazione della Ragioneria dello Stato relativamente ai poco meno di due milioni investiti per far sì che la famiglia di Federico Aldrovandi rinunci a costituirsi parte civile nei processi ancora aperti. Quattrini spesi bene se si pensa alla sentenza del 6 luglio dello scorso anno: quel ragazzo non era deceduto pochi minuti dopo il suo fermo in ragione di un malore dovuto all’assunzione di stupefacenti, ma perché massacrato di botte da quatto agenti della polizia di Stato, riconosciuti colpevoli di eccesso colposo in omicidio colposo assieme ad altri tre colleghi condannati per il depistaggio delle indagini. Il linguaggio giuridico ci dice che non volevano ammazzarlo, ma "solo" colpirlo con estrema violenza sulla testa, alle braccia, tra le gambe. Per molti minuti. Poi, purtroppo, è morto.
La vita di Aldro vale più o meno il budget di un giorno di presenza militare in terra Afgana. Un giorno di guerra in meno. Il conto, o almeno questo conto, è chiuso.
Questo conto chiude con le responsabilità processuali dello Stato per un contatto che avviene a Ferrara alle 5,47 del 25 settembre 2005 tra un ragazzo appena tornato da un sabato sera a Bologna e l'equipaggio di una volante della polizia di Stato, tre uomini e una donna, che alle 6,10 chiama il 118: otto minuti dopo l'ambulanza lo trova cadavere, a terra, ammanettato. Per il suo cellulare che, dopo aver più volte squillato a vuoto, è impugnato da un uomo che al padre spiega che stanno facendo accertamenti su un portatile trovato per strada. Per lo scarno annuncio dato alla famiglia alle 11 di mattina. Per le menzogne sul suo aver assunto qualcosa che gli ha fatto male, sul comportamento autolesionistico, sulla testa sbattuta contro il muro, sul malore fatale. Per aver dipinto lui e i suoi amici come dei "drogati". Per le intimidazioni da loro subite in questura. Per le pressioni esercitate sulla stampa locale. Per le ferite lacero contuse alla testa, lo schiacciamento dello scroto, i lividi da compressione sul collo, le ecchimosi ovunque, la felpa e il giubbino inzuppati di sangue. Per il manganello spezzato contro il suo corpo. Per le indagini assegnate agli stessi protagonisti del pestaggio. Per il procuratore e il questore che escludono categoricamente le percosse ancora prima del risultato dell'autopsia, a lungo rimandata. Per il fatto che nessuno sia stato rimosso dal proprio incarico.
Questo conto riguarda la vita di un ragazzo come tanti che 18 anni li aveva compiuti due mesi prima, non aveva ancora la patente, studiava da perito elettrotecnico, suonava il clarinetto, faceva sport, salutista, bravo in matematica, impegnato in un progetto con Asl e scuola per la prevenzione delle tossicodipendenze. Che il sabato sera spesso andava a Bologna perché lì ci sono i locali, la musica, i centri sociali. Come aveva fatto anche quella volta. Questo conto riporta con forza l'attenzione su tutti quelli che sono ancora aperti. Riguarda tutto ciò che dalle giornate di Genova 2001 in avanti ancora permane non risolto sul terreno dell'abuso della forza da parte delle nostre polizie e su quello dell'esercizio delle libertà individuali e collettive. Riguarda la politica di criminalizzazione della circolazione delle sostanze stupefacenti e di chi ne fa uso e la sua chiave di controllo sociale. Riguarda la cultura di un "diritto di polizia" in ragione del quale i nomi Aldrovandi, Sandri, Cucchi sono solo gli ultimi di un lunghissimo elenco che ha radici antiche. Riguarda quel comandante della polizia penitenziaria secondo il quale "il negro si massacra di sotto, non in sezione". Riguarda Canterini che fresco di condanna promette ai suoi "ragazzi" di indossare ancora il casco assieme a loro. Riguarda tutti quelli che sono ancora lì. Riguarda quella petizione in basso a destra in home di questo sito e quanti non vi hanno ancora aderito. Riguarda noi.

da GlobalProject

Nessun commento:

Posta un commento