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mercoledì 15 settembre 2010

PIU' DIRITTI PER I DETENUTI DEL CARCERE DI BORGO SAN NICOLA (LE)

Più diritti per i detenuti
Il vescovo: se no svilisce la dignità dell’uomo

di STEFANO LOPETRONE
Solidarietà ai detenuti di Borgo San Nicola, che chiedono il risarcimento del danno per trattamento inumano e degradante. Sostegno all'iniziativa degli agenti penitenziari, che intendono ricostruire due celle del carcere in Piazza Sant'Oronzo per risvegliare le coscienze dei leccesi. L'arcivescovo di Lecce, monsignor Domenico D'Ambrosio, ha da sempre mostrato una vicinanza particolare al mondo del carcere. Nel giorno in cui si è insediato, il 4 luglio 2009, prima ancora di entrare in città si è fermato davanti ai cancelli di Borgo San Nicola
per incontrare lavoratori e prigionieri. L'ultima visita il 25 agosto, quando ha trascorso «dietro le sbarre» l'intera mattinata. Ha ritrovato un carcere ancor più sovraffollato, che sbuffa ed è ai limiti della resistenza: ci vivono 1.488 persone invece di 659.
«Chi è attento alla dignità dell'uomo non può non gridare il suo disagio, il suo dissenso forte», ci dice. Borgo San Nicola è una polveriera che rischia di esplodere. Un tunnel in cui però non è impossibile, ad un uomo di fede, intravedere la luce della speranza nonostante si viva in condizioni ai limiti della tortura. Eccellenza, il Comitato permanente sulla tortura indica in 7 metri quadrati lo spazio vitale minimo da destinare ai detenuti per non configurare condizioni da tortura. A Borgo San Nicola ci sono detenuti che in
quello spazio vivono in 3.

È possibile che in un Paese civile i detenuti debbano fare ricorso ad un Tribunale per far rispettare un proprio diritto? «Non so se i parametri internazionali considerano uno spazio inferiore ai 7 metri quadrati un
trattamento da tortura. Certo quella specie di spazio, anzi di sottospazio, è disumano. Certamente è degradante».

Possibili soluzioni? «Non so che cosa si può fare. Fanno bene i detenuti a far sentire la loro voce. Facciamo bene anche noi, che ci rendiamo conto delle condizioni in cui vivono, a fare da megafono soprattutto per la società civile. Mi chiede se è possibile che si verifichi una situazione del genere: purtroppo è la realtà. Chi è attento alla dignità dell'uomo non può non gridare il suo disagio, il suo dissenso forte. Io l'ho fatto: parlando alla città ho ricordato che esiste anche questo luogo di pena e di sofferenza che costringe gli uomini in condizioni disumane e degradanti».

Nel suo messaggio alla comunità del 24 agosto ha richiamato i fedeli ad una delle sette opere di misericordia corporale: visitare i carcerati. Borgo San Nicola però sembra essere il tappeto sotto il quale la società nasconde la polvere. Che cosa fare per non pensare ai detenuti come le scorie della società? «Parlo da cristiano, non posso smettere panni che mi appartengono. Ho richiamato una delle sette opere di misericordia, ma nel Vangelo Gesù dice qualcosa di più forte: “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi”. Di fronte a un Cristo liberatore dell'uomo che addirittura sceglie di identificarsi con queste persone, è chiaro che noi cristiani non possiamo pensare che il carcere o quelli che si trovano nel carcere siano i reietti della società. Sono persone che hanno sbagliato, certo. Bisognerà trovare un modo per aiutarli a comprendere i loro errori. Ma non può essere un sistema riabilitante ciò che invece abbrutisce. Così come è messo, Borgo San Nicola svilisce la dignità dell'uomo. Il cristiano, che crede ad un Amore che non conosce distinzioni di
sorta, non può non far sentire il proprio dissenso. Io l'ho fatto perché credo in quella Parola, ma la Parola non si annunzia soltanto, si vive».

Nel mondo sindacale della polizia penitenziaria, c’è chi pensa ad una manifestazione clamorosa, come ricostruire in dimensioni naturali due celle del carcere in Piazza Sant'Oronzo, per far capire alla cittadinanza in quali condizioni vivono i detenuti e lavorano gli agenti. Può essere un'iniziativa che scuote le coscienze? «Credo che una parola per questi lavoratori vada spesa. Forse li vediamo come quelli che devono punire. Invece credo che siano reclusi anche loro. Sono uomini come noi e vivono spesso nel disagio di dover
far fronte a situazioni estreme che essi stessi rifiutano. Sono penalizzati per troppe cose: per i turni di lavoro, perché sono impari nel numero rispetto alle reali necessità, perché molte volte devono dichiarare la propria impotenza a fare qualcosa che umanamente vorrebbero fare. Bisogna dare atto a questa gente del lavoro che fanno: quanti suicidi sono stati sventati nel nostro carcere,per il soccorso, la prontezza e l'attenzione degli agenti penitenziari! Questa protesta clamorosa può servire a far prendere coscienza ai tanti di una realtà che è preclusa a molti. È vero che Gesù dice di visitare i carcerati, ma chi può andarci in realtà? Io sono fortunato perché sono vescovo e le porte mi si aprono. Perciò vado per far capire loro che all'esterno di quelle mura c'è chi non li ha gettati nel pozzo del dimenticatoio».

Eccellenza, la prima visita da arcivescovo di Lecce l’ha dedicata ai detenuti ed ai lavoratori di Borgo San Nicola, che periodicamente va a trovare. Lei che cosa ha notato stando insieme a loro? «Hanno un tasso di umanità che per certi versi è superiore al nostro. Vivendo la privazione della libertà sono portati a spazi di riflessione che la fretta e le preoccupazioni ci impediscono di avere. Sono persone sensibilissime. Ho una buona corrispondenza con loro. Come minimo mi arriva una lettera ogni 15 giorni. A volte chiedono oggetti indispensabili, ma per lo più esprimono disagio e desiderio di sentirsi accolti anche all'esterno. Potrei raccontare un'infinita di episodi: spesso mi scrivono “io non sono degno, ma una benedizione per i miei figli me la può dare?”. Hanno bisogno di amore».

Il carcere è pieno di “ultimi”, persone che si ritrovano dentro perché tossicodipendenti, extracomunitari clandestini, barboni, matti. Si può essere d ‘accordo con chi pensa al carcere come uno strumento di “pulizia etnica”? Può il carcere essere considerato come un fallimento della società? «L'istituto penitenziario ha una sua funzione, ma oggi in carcere ci sono tutti. Sbaglia chi pensa che l'unico mezzo per curare le piaghe sociali sia il carcere. Questo è un errore madornale compiuto dalla società contemporanea. Si fa di ogni erba
un fascio, proprio per la varietà delle tipologie di persone che vi si trovano, ci sarebbe bisogno di mezzi diversi. Non si può curare un tossicodipendente, un depresso mettendolo tra quattro mura. Piuttosto bisognerebbe utilizzare le tecniche che il mondo moderno mette a disposizione. Il carcere è diventata una
soluzione facile, pilatesca: ci laviamo le mani e non affrontiamo realmente i problemi. Forse perché abbiamo paura. O Forse perché la società non è capace di modulare gli interventi utili a rimettere nella giusta dimensione chi vive in una realtà che lo emargina».

Si sente solo in questa battaglia per risvegliare le coscienze della comunità cattolica sulla condizione dei diritti dei carcerati? «Io non faccio battaglie, io faccio il vescovo. Come vescovo devo essere fedele a quel che mi insegna Gesù Cristo. Se c'è un precetto che è primo nella logica dei credenti è quello dell'Amore. E l'Amore va dato a tutti, in modo particolare a quelli che non ne hanno. E chi è in carcere è più bisognoso d'amore: per questo ci vado con frequenza».

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