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martedì 8 giugno 2010

La verità dovuta ai morti

di Claudio Fava
A ben guardare, in questo tempo sottosopra ciò che fa paura non sono i fatti ma le loro conseguenze. I fatti ci dicono che più o meno da vent’anni pezzi importanti delle istituzioni dello Stato e dei servizi di sicurezza ci mentono. Menzogne raffinate, come le “menti raffinatissime” a cui si riferì Falcone dopo il fallito attentato dell’Addaura. Ci hanno mentito e ci hanno ingannati decidendo di stare dalla parte dei nostri nemici.Le stragi del ’92, le bombe del ’93, le incursioni di Cosa Nostra in politica a partire dal ’94, le eterne latitanze di certi capi mafia… l’elenco è lungo, e porta in calce una firma sbiadita ma non illeggibile: servizi segreti.Con i loro padrini politici, con i loro aiutanti di campo mafiosi. Questi i fatti, che in un paese normale dovrebbero portare a una ricerca rigorosa sulle responsabilità del passato e a un supplemento di attenzione per il futuro su questi corpi dello Stato, troppo spesso animati da vocazioni che nulla hanno a che fare con il rispetto delle leggi. In un paese normale, a questi fatti sarebbe seguita un impegno di limpidezza, uno sguardo più vigile sulle nostre strutture di sicurezza, la garanzia di strumenti di investigazione efficaci per i magistrati. In un paese normale, non in Italia.

Il cui governo ha appena sfornato un emendamento che intende estendere il segreto di Stato alle intercettazioni dei funzionari e degli agenti dei servizi segreti. Come dire: prima di mettere sotto controllo il telefono di uno “007”, dovremo chiedere permesso all’esecutivo. Che quel permesso potrà negarcelo senza doverci nemmeno una spiegazione. Reazione singolare dopo i furti di verità che abbiamo subito in questi vent’anni. Invece di promettere chiarezza, si stabilisce per decreto il diritto all’opacità e all’impunità per i servizi di sicurezza e per i loro infiniti affluenti.

Uno dei quali, tanto per far nomi e cognomi, porta al costruttore Anemone, il grande ristrutturatore di case auguste e potenti. Il signor Anemone aveva ottenuto dal Viminale il NOS, un Nulla Osta Sicurezza, che equiparava la sua persona, le sue funzioni e le sue attività a quelle dei funzionari dei servizi segreti. Insomma, con questo emendamento in vigore non avremmo potuto sapere nulla non solo dei depistaggi e delle collusioni sulla morte di Falcone e di Borsellino ma nemmeno sugli affari miserabili della “cricca” che passavano attraverso la generosità (e le telefonate) di Anemone.

In un’Italia normale, di fronte a un simile atto di sciacallaggio istituzionale non sentiremmo solo le voci indignate di alcuni magistrati (uno per tutti, Armando Spataro, un giudice con la schiena dritta che di segreti di Stato ne ha subiti parecchi), non vedremmo solo qualche irruento sciame di folla occupare le piazze romane. In un’Italia normale, di fronte alla rivendicazione del diritto all’impunità, vorremmo sentire tutte le voci oneste di questo Stato. A cominciare dal Presidente della Repubblica che su un emendamento gaglioffo come quello proposto dal governo potrebbe pretendere dai partiti qualcosa in più di un generico senso di responsabilità.

E non vorremmo che, nel nome di un italianissimo volemose bene, questa trattativa da angiporto sul Ddl Alfano lasciasse tutti contenti. Il punto non è, come reclamano i finiani, estendere a 75 giorni la durata delle intercettazioni o evitare che s’abbatta sui processi in corso. Questi, ci sia consentito, restano dettagli. Il cuore mai scalfito del problema è che con questa legge verranno secretati i processi, i giornalisti non potranno più raccontare le inchieste in corso e agli italiani verrà negato il diritto di sapere. Questa è la posta in palio, non altre.

Post scriptum. Questa mattina ho incontrato un sopravvissuto. Uno di quelli che, grazie alla leggina di Alfano, sarebbe crepato da tempo. Si chiama Lirio Abate, ha l’età dei vostri figli, fa il cronista a Palermo e Cosa Nostra aveva deciso di ammazzarlo per qualche articolo poco cortese. E’ vivo perché alcune telefonate sono state intercettate, bel oltre il limite dei 50/75 giorni oggi graziosamente concessi dal sovrano. In quelle telefonate si spiegava perché il giornalista doveva morire, chi se ne sarebbe occupato, dove e quando. Se un appuntato dei carabinieri non fosse stato messo dai magistrati in condizioni di ascoltarle, Abate oggi sarebbe morto. E Alfano sarebbe stato in prima fila, ad ogni anniversario, a battersi il petto e a compiangere un altro siciliano caduto sul dovere.

Claudio Fava

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