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martedì 27 aprile 2010

Lo Stato della governance


A cura di Paolo Cognini

Una crisi di ampie proporzioni come quella che stiamo attraversando produce tanti effetti di cui almeno uno è sicuramente positivo: la crisi ci riporta bruscamente ai rapporti di produzione e di potere materialmente esistenti, rompe la crosta ideologica ed apre un ampio squarcio sulle dinamiche reali. La crisi, tra le tante cose, è un'inestimabile fonte di informazioni, fruibili solo se la volontà di leggerle è autentica e libera da conclusioni pre-confezionate. Ancora una volta le dinamiche materiali ci consegnano una realtà fatta di molteplici processi, necessariamente in fieri, fisiologicamente complessi e non lineari: una “semplice” complessità che si contrappone alle complicate semplificazioni che non di rado contraggono e disperdono le nostre analisi. I processi storici, tanto più quando investono dimensioni globali, sono processi che articolano fasi, che modificano la realtà e si modificano nella realtà.
Anche i dispositivi di governance, che hanno occupato gran parte della nostra riflessione prima e dopo l'emergere della crisi, non configurano né un processo uniforme né un modulo ad applicazione omogenea. Si tratta sempre di un processo articolato fatto di espansioni e contrazioni e, soprattutto, di stadi successivi. Possiamo scrivere molto sui possibili scenari futuri e sulle possibili linee di tendenza ma in ogni caso approderemo sempre ad ipotesi approssimative perchè è la stessa fisiologia della governance a renderne difficile la “prognosi” ed a sottrarsi ai tentativi deterministici di cadenzarne lo sviluppo. Senza mai rinunciare al legittimo tentativo di formulare analisi anticipatorie, è tuttavia necessario assumere la natura di processo stadiale della governance e, di conseguenza, concentrare primariamente l'analisi sullo stadio attuale che non è né lo stadio iniziale né quello finale, ma uno dei tanti stadi intermedi che assume particolare rilevanza proprio (o solo) perchè è lo stadio del nostro tempo presente, lo stadio materialmente esistente della governance, fatto di dispositivi già operativi che consentono anche di materializzare l'analisi.

Nello stadio attuale la governance necessita comunque di processi di legificazione e, quindi, in ultima analisi, della legge. Non sappiamo quale sarà in futuro il rapporto tra governance e processi di legificazione né quali saranno, e se ci saranno, altri attori formali di tali processi. Possiamo però dire con certezza che oggi la governance necessita di processi di legificazione e che tali processi vengono sostanzialmente attuati ed assolti dallo Stato. Ovviamente quando parliamo di legificazione facciamo riferimento a processi che vanno ben oltre la mera codificazione e che concretizzano un'attività complessa dove sono coinvolti assetti istituzionali, poteri, dispositivi sanzionatori e meccanismi di legittimazione. Il fatto che lo Stato sia l'attore principale delle attività di legificazione non è in alcun modo in contraddizione con il tema della crisi dello Stato moderno, ma anzi ne rappresenta la conseguenza, un passaggio nell'evoluzione della crisi e non un suo arretramento.

La crisi dello Stato-Nazione è una crisi complessiva, è la crisi dello Stato moderno come forma storicamente determinata del dominio della borghesia capitalistica: tale crisi è irreversibile perchè nasce dall'insanabile frattura del rapporto di funzionalità tra il modello organizzativo rappresentato dallo Stato moderno e l'attuale strutturazione dello sfruttamento capitalistico. Crisi dello Stato-Nazione non significa, però, volatilizzazione dello Stato: il concetto di crisi è a sua volta un concetto articolato che comprende al suo interno anche l'idea di “trans-formazione”, ovvero una dinamica che consente di percorrere una determinata parabola anche attraverso progressivi passaggi a forme e modalità diverse. Come mai mentre a livello di analisi parliamo di crisi dello Stato-Nazione sul piano materiale lo Stato continua a starci addosso in maniera sempre più soffocante e violenta? Come mai da un lato parliamo di crisi dello Stato mentre dall'altro ci ritroviamo lo Stato nei meandri sempre più intimi della nostra vita? Non si tratta né di una contraddizione né di un paradosso.

La crisi dello Stato nell'attuale stadio della governance significa principalmente sussunzione dello Stato all'interno dei dispositivi di governance e, quindi, rielaborazione delle sue funzioni in un contesto di progressiva deprivazione dei margini di autonomia e sovranità che avevano caratterizzato lo Stato moderno. Forzando un po' i termini teorici potremmo dire che attualmente siamo nella fase di sussunzione formale dello Stato alla governance: lo Stato perde autonomia e sovranità ma permane come attore principale di quei processi di legificazione di cui i dispositivi di governance ancora necessitano. Tale necessità, che si conferma quotidianamente, è emersa con chiarezza nel contesto della crisi globale dove nessun New Deal ha potuto celebrare le sorti di qualche leadership nazionale. In realtà il ruolo dello Stato all'interno della crisi è stato un ruolo meramente legificatorio privo di qualsivoglia progettualità autonoma e strategica, sostanzialmente finalizzato a dare “forza di legge” ad una delle più grandi operazioni di travaso di risorse collettive nelle casse private di banche e grandi imprenditori.

La necessità di processi legificativi come strumento della governance e non come suo contenimento è emersa chiaramente persino nel teatro della “guerra in armi” che si combatte in Afghanistan ed in Iraq: anche in questi contesti è stato ritenuto necessario strutturare un'attività legificativa formalmente riconducibile al pataracchio di uno Stato e di un assetto istituzionale territoriale nonostante i processi decisionali siano interamente controllati dalle forze di occupazione che operano nella regione. La necessità di processi di legificazione territorializzati attraverso lo Stato nasce direttamente dalla fisiologia che caratterizza lo stadio attuale della governance. In particolare:

a) Non esistono ancora le condizioni per la strutturazione di processi legificativi globali: i dispositivi globali di governance possono produrre comando ma non possono ancora produrre, almeno in forma diretta, legge. Le ragioni di tale impossibilità sono molteplici e di diversa natura e non è possibile esaminarle in questa sede. Possiamo dire in maniera estremamente superficiale che tale impossibilità è direttamente riconducibile sia alle molteplici differenze e particolarità che caratterizzano lo scenario globale sia alla difficoltà di strutturare adeguati processi di legittimazione di processi legificativi de-statualizzati. Certo non mancano sperimentazioni di legificazione de-statualizzata, come ad esempio si verifica nel contesto della legislazione europea: tali sperimentazioni sono tuttavia ancora marginali e lo stesso diritto positivo europeo (che in ogni caso ha caratteristiche peculiari ed affonda le proprie radici in tutt'altra storia) presuppone sempre un'attività di ratifica da parte dello Stato membro.

b) La necessità di mantenere ed anzi, in molti casi, di intensificare le attività di legificazione assolve anche ad un'altra importante funzione: conservare il controllo assoluto sulle fonti normative ed escludere alla radice non solo la legittimità ma persino la stessa possibilità di esistenza di qualsivoglia altra fonte del diritto che non sia la legge stessa, ovvero il diritto positivo deciso ed imposto attraverso lo Stato. La legge è una fonte normativa storicamente determinata. Per lungo tempo la legge come espressione del potere normativo dello Stato o, comunque, dell'autorità temporale, è stata considerata una tra le tante fonti normative e neanche la più importante. Prima dell'avvento dello Stato moderno era diffusa la convinzione che la legge trovasse un limite invalicabile nel diritto consuetudinario: nel complesso dibattito sviluppatosi intorno a questo tema prima del XVI°esimo secolo, era diffuso l'orientamento che attribuiva al diritto consuetudinario la qualifica di fonte normativa di rango superiore e, pertanto, prevalente nel caso di contrasto tra diritto consuetudinario e legge. Con l'affermarsi dello Stato moderno e dei relativi asset teorici ed ideologici dettati dall'illuminismo, i termini della questione sono stati progressivamente rovesciati fino al punto non solo di subordinare il diritto consuetudinario alla legge ma di escludere persino che esso potesse esistere.

Attualmente, almeno per quanto riguarda la parte di mondo in cui viviamo, non esiste più alcuna tensione o contrasto tra legge e diritto consuetudinario semplicemente perchè non esiste più né il diritto consuetudinario né altra attività normativa che non sia sussunta dalla legge. Ogni ambito della nostra vita è strettamente legificato, il nostro corpo è legificato, i nostri movimenti sono legificati, ogni attività è subordinata ad una legge talmente minuziosa da non poter essere neppure applicata nella sua interezza: ma, in fondo, non è importante che la legge sia sempre applicata, purchè tale mancata applicazione sia sempre il frutto di un sotterfugio e non la rivendicazione di un “altro diritto”. Dimensione globale, crisi economica e crisi dello Stato-Nazione sono tutti fattori che tendenzialmente producono spazi agibili a fonti normative autonome, alla riaffermazione del diritto come risultante materiale delle pratiche di resistenza e di riappropriazione. Le attività di legificazione oggi più che mai rispondono alla necessità di ridurre tali spazi, di precluderli o quantomeno di nasconderli. Non è un caso che i processi di legificazione siano tutti rivolti verso il basso: densi alla base, essi diventano sempre più rarefatti mano a mano che si risale verso il vertice fino ad essere del tutto inesistenti nei luoghi, inagibili alle moltitudini, dove le corporation negoziano i propri interessi e le relative strategie.

Il diffondersi dello strumento giuridico della class-action, da molti salutato come un ribilanciamento dei poteri tra il cittadino e la grande impresa, al di là dell'utilità che può rivestire in alcuni specifici contesti, si traduce strategicamente in una giudiziarizzazione del conflitto all'interno della quale ingrassa la lobby degli avvocati e si diffonde l'idea che il contrasto tra interessi può essere validamente risolto con il ricorso alla legge ed ai suoi arbitri (illuminante sulla class-action negli USA il romanzo di Grisham “Il re dei torti”). Anche le riforme istituzionali che occupano l'agenda del governo Berlusconi, certe volte erroneamente ridotte ad una mera patologia italica, rientrano pienamente all'interno di una dinamica di governance che impone legificazione verso il basso e piena libertà di movimento verso l'alto. Le attività di negoziazione tipiche dei processi di governance, sono mediate o meno dalla legge a seconda degli attori che coinvolgono. La negoziazione tra le corporation è un'attività libera da maglie normative che produce assetti convenzionali condizionati esclusivamente dai poteri e dagli interessi messi in campo. Al contrario le attività di negoziazione che vengono sviluppate a livello sociale sono tutte in qualche maniera intermediate dalla legge ed i soggetti coinvolti nelle attività di negoziazione non sono mai alla pari: la legge sta sempre da una parte e quella parte riveste il ruolo di soggetto dominante.

Sono proprio i processi di legificazione che assolvono alla funzione di escludere a priori la possibilità di una negoziazione alla pari: se così non fosse la stessa attività di negoziazione finirebbe con l'attribuire alla realtà sociale con la quale il potere si trova a negoziare la condizione di soggetto autonomo di produzione normativa. Governance e processi statualizzati di legificazione sono, pertanto, espressione di una stessa realtà, costituiscono la modalità di governance che opera nella nostra contemporaneità e con la quale dobbiamo fare i conti. Una modalità che ci costringe a vivere una realtà a prima vista schizofrenica, all'interno della quale coesistono contemporaneamente due dimensioni: da un lato la crisi irreversibile dello Stato moderno e dall'altro, nonostante la crisi, lo Stato come nemico attuale e, addirittura, ancora più feroce. Si tratta, però, di un paradosso solo apparente. In realtà è proprio la crisi dello Stato e la sua progressiva perdita di autonomia e sovranità a ricondurre i processi di legificazione direttamente all'interno di quello stadio della governance dove lo Stato non è un mero strumento di polizia, come talvolta in maniera semplicistica è stato detto, ma un più complesso terminale legificativo di decisioni che materialmente si determinano come prodotto di processi globali: ovviamente legificare significa anche imporre, controllare e reprimere.

In un simile contesto risulta evidente l'impossibilità materiale (e, di conseguenza, il relativo assurdo teorico) di “recuperare” la dimensione statuale quale luogo di contrapposizione/bilanciamento/contenimento dei dispositivi globali di governance: lo Stato è già sussunto nella governance, ne è parte e sopravvive nella misura in cui e fintanto che le sue attività di legificazione (ed i relativi apparati di controllo) risultano necessarie. Stato e governance non sono espressione di due realtà diverse né, tantomeno, di due realtà contrapposte: al contrario, lo Stato quale spazio reale di legificazione (intesa nell'accezione di attività complessa come sopra specificato), è oggi spazio primario della governance, elemento costitutivo della sua azione e condizione necessaria alla materiale estrinsecazione dei suoi processi. Ma se la dimensione statuale è, almeno in questa fase, spazio primario e necessario della governance, ciò significa che tale dimensione configura anche lo spazio primario e necessario di collocazione delle azioni di contrasto e delle pratiche di resistenza. In un simile contesto gli elementi di crisi dello Stato, comunque presenti e strutturali, non vanno arginati ma, al contrario, approfonditi ed allargati fino a coinvolgere la stessa legittimazione dello Stato a legificare, ad imporre assetti normativi e relative sanzioni per chi non “ottempera”.

La partita che abbiamo difronte si gioca principalmente su questo piano, sul rapporto tra l'imposizione della legge, come fonte normativa unica ed assoluta, e l'insorgere di altre fonti del diritto che rivendicano la propria legittimità non in nome di un inesistente diritto consuetudinario ma in ragione di una prassi attuale, di un autonomo potere decisionale che nasce come unica soluzione di rivendicazioni inevitabilmente e metodicamente disattese. D'altra parte il tema dell'indipendenza, nonostante la sua indubbia complessità ancora tutta da indagare, in ultima analisi ci costringe a misurarci proprio su questo terreno, sui percorsi di de-legificazione delle nostre vite e delle nostre relazioni e sulla costruzione di nuove autonome fonti del diritto che non sono espressione né di una tradizione né di una consuetudine ma di un progetto che si materializza nei conflitti. Si tratta di un terreno dove l'apparente paradosso di cui abbiamo sopra parlato si esprime ai suoi massimi livelli: crisi dello Stato moderno da un lato e, ciononostante, Stato come nemico attivo dall'altro ed anzi come nemico ancora più “puro” perchè ridimensionato nei margini di autonomia e sovranità spendibili in termini di mediazione.

- Beni comuni

Da questo punto di vista il tema dei beni comuni può rivestire un ruolo trainante se si considera che ogni ipotesi di “difesa dei beni comuni” comporta necessariamente un ragionamento sui modelli di gestione, sugli assetti giuridici e sui processi decisionali. Come è possibile collocare i beni comuni fuori dal paradigma giuridico economico e politico della proprietà, privata o statale che sia? Come possiamo uscire realmente dalla tenaglia Stato/Privato che per lungo tempo ha saturato ogni opzione ed ogni possibile prospettiva? Sono molti i contributi e le riflessioni che negli ultimi tempi hanno efficacemente iniziato ad analizzare le problematiche connesse a questi interrogativi. Nel rimandare all'ampio dibattito in corso, mi limito semplicemente a sottolineare due aspetti:

1) Intorno al tema dei beni comuni è possibile sperimentare proposte organizzative che attengono direttamente a modelli gestionari alternativi delle risorse. Per quanto riguarda l'acqua esistono ad esempio alcune interessanti sperimentazioni di controllo diretto da parte di (piccole) comunità sui servizi idrici. Anche se si tratta di sperimentazioni marginali sono comunque esempi importanti di trasformazione dell'elemento di resistenza da dinamica di reazione a dinamica di insediamento e, quindi, di costruzione. Di certo la questione non può essere affrontata con un approccio ideologico. L'insediamento di fonti di diritto autonome ed alternative e quindi, in sostanza, di nuovi ed autonomi luoghi decisionali, è un processo complesso, che sconta necessariamente tutte le contraddizioni e commistioni di un processo autenticamente materiale. Il concetto stesso di insediamento importa con sé l'idea di una fase transitoria, di un “andare verso” in cui si mescolano elementi di diversa natura e dove la linearità o è un'inutile astrazione oppure è la capacità di cogliere una dinamica generale che si sviluppa al di là dei passaggi particolari: assumere l'idea di transitionis nel suo significato originario di passaggio che finalizziamo ad una prospettiva, può forse aiutarci a recuperare una dimensione realistica, nel senso di materialmente producibile, delle nostre proposte. Da questo punto di vista dovremmo cercare di capire se è possibile in questa fase sul tema dei beni comuni elaborare proposte capaci di introdurre elementi innovativi utilizzando contemporaneamente dispositivi di amministrazione locale e forme giuridiche che, seppur già esistenti, si prestano ad essere forzati e trasformati. La territorializzazione degli assetti giuridici, anche se inizialmente attraverso l'utilizzo di formulazioni giuridiche pre-esistenti (nel caso dell'acqua ad esempio il recupero contro le Spa delle aziende speciali municipalizzate e consortili) apre comunque spazi di azione per una produzione normativa autonoma non solo perchè tali strutturazioni potrebbero essere ripensate in forma innovativa ma soprattutto perchè sarebbe lo stesso contrasto con i processi di privatizzazione e con i relativi assetti giuridici a determinarne o la soccombenza o la progressiva trasformazione in termini di autonomia normativa e decisionale.

2) Andando a Copenaghen, dove un pugno di persone avrebbe dovuto discutere nientemeno che del destino climatico del nostro pianeta, abbiamo detto che la precarietà non è un problema riducibile alle forme contrattuali del lavoro, ma una condizione complessiva di esistenza, è la dimensione contemporanea della nostra vita. Contro una simile precarietà, che coinvolge la nostra stessa sopravvivenza fisica, non c'è antidoto che non sia la riappropriazione tempestiva delle risorse necessarie alla vita. In questa prospettiva il tema dei beni comuni diventa fisiologicamente l'interfaccia conflittuale di questa terribile precarietà da terzo millennio, quel quantum di riappropriazione irrinunciabile che comprende non solo le risorse naturali, ma anche beni sociali tra cui il reddito, la sanità, l'istruzione. Il tema dei beni comuni, declinato nei termini di riappropriazione contro la precarietà generalizzata e misurato materialmente nei processi di costruzione organizzativa e normativa, può essere un luogo reale di sperimentazione di pratiche di indipendenza e di biodemocrazia.

- Biodemocrazia

Fino ad oggi il termine biodemocrazia è stato utilizzato poco e limitatamente alle problematiche relative alle bioteconologie ed al controllo dei codici genetici. Sarebbe interessante riflettere sulla possibilità di sottrarre il concetto di biodemocrazia ad un uso settorializzato e riduttivo per trasformarlo in un concetto che allude ad una prospettiva societaria e che rielabora le tematiche ecologiste all'interno di una visione più complessiva ed attuale. Il termine biodemocrazia può aiutarci ad uscire da una rappresentazione meramente “estremistica” della democrazia che inevitabilmente nel porsi come estremizzazione di un qualcosa presuppone che quel qualcosa già esista seppur in forma non estrema. La democrazia a cui possiamo e dobbiamo alludere oggi non è una “estremizzazione”, ma qualcosa di geneticamente diverso, la riappropriazione sul piano societario di una tensione che la “democrazia reale”, non nel senso di “vera” ma di storicamente realizzata, ha imprigionato nelle maglie delle proprie istituzioni e delle proprie leggi.

Il concetto di biodemocrazia contiene in sé l'idea di esodo definitivo ed irreversibile dalla “democrazia reale”, ripensa il futuro riappropriandosi della dimensione biopolitica della democrazia, che è nel contempo una dimensione originaria e contemporanea. E' una dimensione originaria perchè l'incessante tensione alla democrazia assoluta, alla libertà dallo sfruttamento e dall'etero-direzione delle nostre vite rappresenta probabilmente l'elemento biopolitico più “antico” presente nella storia dell'umanità, costantemente represso e tuttavia sempre vivo, costantemente catturato, mediato, trasfigurato e tuttavia sempre eccedente, capace di riemergere nelle forme più disparate. Ma nel contempo rimanda ad una dimensione biopolitica contemporanea che assume come dato portante del nostro tempo presente l'inscindibilità dell'idea di democrazia da quello di vita, una inscindibilità così profonda da vincolare ai processi di liberazione le stesse prospettive di sopravvivenza del genere umano. Tale inscindibilità non può che proiettarsi anche nel contesto delle prospettive societarie. Le stesse caratteristiche della produzione materiale ed immateriale, le dinamiche comunicative, la trasformazione genetica del rapporto tra prodotto/ produttore/e conoscenza, la dimensione globale delle relazioni che infrastrutturano la produzione inducono inevitabilmente ad un'idea di democrazia che rinuncia definitivamente alla velleità di costruire luoghi generali delle decisioni per approdare ad un'idea di democrazia come molteplici e dinamiche piattaforme decisionali, che modificano configurazione e composizione a seconda dell'oggetto del decidere, all'interno delle quali anche l'elemento territoriale è variabile perchè definito di volta in volta dal singolo specifico processo decisionale che lo coinvolge.

La biodemocrazia come allusione societaria nell'assumere come fondante l'inscindibilità dei processi decisionali dai processi vitali sceglie progettualmente di rinunciare all'idea che la legittimazione delle decisioni possa derivare dalla sua provenienza da un luogo formale e permanente e, cioè, dall'istituzione intesa come infrastruttura di una organizzazione politica generale della società. Ovviamente questo non significa rinunciare a decisioni di portata generale ma semplicemente che la portata generale delle decisioni è data dal contenuto e non dalla forma, dal convergere nella medesima opzione di più piattaforme decisionali. Ma al di là dei termini e dei concetti che riteniamo adeguati ad esprimere in forma socialmente veicolabile l'idea di nuove pratiche di democrazia, certamente il tema dei beni comuni così come quello dell'insediamento di autonome fonti normative ci impongono un'analisi attuale delle modifiche che sono intervenute nel campo istituzionale e delle dinamiche reali attraverso cui si producono ed istituzionalizzano le decisioni.

- Il campo istituzionale

Nonostante le molteplici riflessioni sulle modifiche in atto e sulla trasformazione delle dinamiche governamentali, nel contesto delle nostre attività l'approccio al campo istituzionale appare spesso quasi inalterato, come se i dispositivi di governance attenessero esclusivamente ad una dimensione globale che ci è esterna, mentre sul piano “interno” il più delle volte la dinamica istituzionale viene affrontata in una sorta di dimensione “consuetudinaria” che riproduce incessantemente uno schema istituzioni/potere/società/movimenti fondamentalmente vecchio e sostanzialmente “ortodosso”. A consolidare un simile approccio contribuisce in maniera determinante una interpretazione delle modifiche in atto negli assetti istituzionali del nostro Paese come mera patologia berlusconiana, come processo incidentale che può essere chiuso recuperando i precedenti equilibri istituzionali. Certamente esistono profonde specificità che differenziano l'esperienza italiana da quella di altri Paesi, specificità che dobbiamo assumere nel ragionamento senza appiattirle in una visione erroneamente omogenea delle dinamiche globali. Ma nonostante ciò resta il fatto che le modifiche in atto nel nostro Paese hanno un fondamento tutt'altro che incidentale e sono anch'esse il frutto dei dispositivi di governance che non sono né interni né esterni, ma semplicemente globali, adattati attraverso i processi di legificazione alle innumerevoli disomogeneità che caratterizzano l'attuale contesto globale.

Nella disomogeneità-Italia le dinamiche di governance hanno prodotto e continuano a produrre una modifica profonda del campo istituzionale. La ripartizione “classica” tra istituzioni/partiti/potere economico/società ecc... è profondamente scombinata ed i processi decisionali si determinano in una zona sempre più grigia, una inter-zona che trasgredisce profondamente a quella dinamica istituzionale novecentesca all'interno della quale si è formato il nostro “consuetudinario” approccio al campo istituzionale. Una inter-zona densa di intrecci, dove sono implicati persino attori inconsapevoli e dove l'epicentro delle movenze decisionali si colloca all'interno di una dinamica sostanzialmente lobbistica, anch'essa, però, profondamente modificata: le lobby fuoriescono dalla dinamica classica del “gruppo di pressione”, intervengono direttamente nei processi decisionali, assumono la gestione di funzioni pubbliche, prendono in appalto pezzi esternalizzati di istituzioni e con i projects financing espropriano le amministrazioni territoriali di funzioni vitali. Tale inter-zona è un prodotto fisiologico della governance e penetra nel sociale molto più di quanto fosse in grado di fare la vecchia dinamica istituzionale. Ma ancora una volta il problema non è guardarsi alle spalle ed auspicare il ritorno alle garanzie istituzionali di un “sano” liberalismo ma comprendere quali sono gli spazi di azione che la “zona grigia” produce. In primo luogo la “zona grigia” chiude definitivamente ed irreversibilmente qualsiasi ipotesi di approccio identitario e generalista al campo istituzionale.

Le liste “ideologiche” e le schede elettorali con la bandiera rossa, non sono più solo residuati storici, ma veri e propri corpi inermi lasciati ai bordi dell' “inter-zona”. Le dinamiche identitarie che pure sono riscontrabili all'interno di una formazione politica come la Lega sono in realtà espressione rivendicativa di una composizione socio-economica materialmente esistente e territorialmente strutturata ovvero l'esatto opposto di quelle aspirazioni identitarie tutte ideologiche, sostanzialmente “fideistiche”, basate sul nulla dell'oggi e sull'impossibilità di un domani già tragicamente passato. Ma inerme ai bordi della “zona grigia” rimane anche quell'approccio pur sempre di natura identitaria abituato a misurare il grado di radicalità dell'azione quale mero riflesso della separatezza dal campo istituzionale. Nel mantenere inalterata la nostra irriducibile anti-istituzionalità come fondamento irrinunciabile dell'agire rivoluzionario (è gratificante ogni tanto riesumare questa espressione), resta il problema di cosa significhi realmente anti-istituzionalità oggi, di come essa si esprime all'interno di quella “zona grigia” dei processi decisionali che non consente la pedissequa riproduzione della dinamica intraneità/estraneità che abbiamo conosciuto in passato. Quante volte la dinamica istituzionale assume attraverso l'attività di lobby sembianze nuove ed irriconoscibili? In certi casi persino i comitati di cittadini sorti intorno ad una specifica problematica diventano strumento di lobby e parte di un dato processo decisionale. In altri casi i comitati stessi diventano attori di un'azione di lobby che nasce intorno ad interessi particolari e che contrasta, anziché favorire, processi reali di trasformazione sociale. Il campo istituzionale reale è oggi un intreccio inestricabile dai confini labili sicuramente non coincidenti con quelli formali, capace di penetrare il corpo sociale attraverso la legittimazione politica e culturale delle dinamiche lobbistiche come processo ordinario di produzione delle decisioni.

E' possibile oggi dichiarare semplicemente la nostra estraneità alla “zona grigia”? Oppure è necessario capire, come sempre in un ragionamento volto a trarre dalla stessa realtà materiale gli strumenti per modificarla, se esistono gli spazi per produrre “vicende” di rovesciamento dell'attuale dinamica di produzione delle decisioni dove azioni reali di “social-lobbying” siano capaci di impattare la “zona grigia” e di costituire strumenti di resistenza attiva all'interno di quella incessante ed impari attività di negoziazione che la governance porta con sé? Quello che possiamo dire con certezza è che la battaglia sui beni comuni, l'insediamento di fonti normative autonome, la possibilità di sperimentare pratiche di indipendenza e di biodemocrazia sono tutti temi che ci costringono ad una visone realistica dei processi, che ci impongono di conseguire risultati veri, seppur intermedi, tutti elementi in assenza dei quali rischiamo ancora una volta di chiuderci in una declinazione meramente ideologica, mentre il pragmatismo sociale ci scavalca, magari usando senza problemi etici o teorici le nuove dinamiche istituzionali per preservare il proprio quartiere o le proprie scuole dall' “invasione degli extracomunitari”.

Paolo Cognini

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