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martedì 2 febbraio 2010

Una rivoluzione con molti rischi


di Maurizio Matteuzzi
In uno dei suoi ultimi numeri il settimanale Usa Newsweek pronostica - in realtà auspica - che nel 2010 in Venezuela ci sarà un colpo di stato contro il presidente Hugo Chávez. Il secondo, dopo quello presto abortito dell'aprile 2002. Ma questa volta presumibilmente definitivo, magari sull'onda del «golpe perfetto» sperimentato (dall'amministrazione Obama) in giugno nel piccolo e marginale Honduras, che ha avuto la sua logica conclusione venerdì scorso a Tegucigalpa nell'insediamento alla presidenza del conservatore Porfirio Lobo e nella concomitante partenza per l'esilio del presidente deposto Manuel Zelaya. Un paese-cavia ideale che però ha o può avere aperto una strada.
Nei giorni scorsi, nel mezzo delle turbolenze che stanno scuotendo il Venezuela - svalutazione del bolívar, tagli dell'energia elettrica e dell'acqua, ri-chiusura dell'emittente golpista Rctv e annesse proteste studentesche (con due studenti morti), brutti indici economici del 2009 e previsioni non proprio rosee per il 2010 -, Chávez ha escluso i rischi di golpe. Il governo bolivariano conta sulla «forza morale» dell'esercito venezuelano e «l'opposizione dovrebbe importare una forza armata» per poter scatenare un colpo di stato («Qui non troveranno dei militari come quelli dell'Honduras»). E venerdì scorso, intervenendo via telefono in un programma del canale statale Venezolana de Televisión, ha ammonito che quanti «stanno pensando alle voci di golpe, non stiano a perdere tempo» perché «le forze armate sono impegnate nella rivoluzione e qui non c'è altra strada che la strada rivoluzionaria». E all'opposizione, che in quei giorni era di nuovo tentata dal ricorso alla piazza come nel 2002, ha ricordato che se «sceglie il cammino della destabilizzazione, potrebbe verificarsi il contrario di quello che cerca: ossia che noi decidiamo di accelerare i cambiamenti». «Volete che io renda ancor più profonda la rivoluzione - ha concluso -? Continuate su questa strada».
E' poco probabile che l'opposizione - per quanto debole e divisa - commetta gli stessi errori del passato e che, nelle importantissime elezioni parlamentari del 26 settembre, torni a giocare la carta suicida del ritiro nell'inutile tentativo di dimostrate la illegittimità di un potere politico che gode ancora di ampi appoggi popolari. E appare poco probabile anche che le forze armate, sempre curate e coinvolte al massimo in questi anni dall'ex colonnello dei parà Hugo Chávez siano propense a tentare l'avventura honduregna.
Ma questo non esclude che il Venezuela chavista, dopo 11 anni di potere, sia a una svolta rischiosa. Il 2009 non è stato un buon anno e il 2010 si annuncia - forse - decisivo.
La crisi economica mondiale dell'anno scorso, anche se è vero come ha detto il presidente che in Venezuela «non ha aumentato la disoccupazione e la povertà», si è fatta sentire. Il crollo dei prezzi del greggio è stato un colpo durissimo per un'economica che si basa ancora e sempre - nonostante le promesse e gli impegni di «cambiare modello - sull'esportazione di petrolio (90% delle entrate di valuta, 50% delle entrate statali). I programmi sociali - le «Misiones» - che sono il cuore della rivoluzione chavista e della popolarità di Chávez (che resiste nonostante sia inevitabilmente caduta), non sono stati toccati. La ripresa del prezzo del barile a livelli accettabili (superiore ai 70 dollari dall'inizio dell'anno) consente di tirare un sospriro di sollievo e la conferma (da una fonte insospettabile: the US Geoligical Survey) che le riserve petrolifere della Fascia dell'Orinoco ammontano a 513 miliardi di barili, più del doppio di quelle stimate finora e più del doppio di quelle dell'Arabia saudita, aprono prospettive confortanti (ma anche preoccupanti: più petrolio c'è in un certo posto, più quel posto fa gola...). Si tratta però di prospettive di periodo medio-lungo. Nell'immediato le cose l'ottica è diversa.
Il 2009, ha detto Chávez, «si è chiuso con un sorriso», perché «nonostante la crisi capitalistica mondiale» i risultati per il Venezuela sono stati positivi: «Anche se gli introiti sono diminuiti, sono state mantenuti gli investimenti e i piani sociali» e il salario minimo anche prima dell'aumento del 16 gennaio scorso per fare fronte alla svalutazione di almeno il 50% del bolívar della settimana precedente, «è il più alto dell'America latina» (ora, facendo la media con il doppio cambio del dollaro a 2.60-4.30, vale intorno ai 342 dollari).
Ma, per la prima volta, l'aumento (25%) è inferiore all'inflazione (27-30%), anch'essa la più alta dell'America latina. Nonostante la chiusura con il sorriso, nel 2009 l'economia venezuelana è entrata in recessione, per la prima volta dall'anno golpista del 2002, ed è caduta in rosso per il 2.9%. E per il 2010, mentre il resto dell'America latina sembra essersi lasciata alle spalle la crisi e prevede una crescita del 4%, secondo l'Fmi il Venezuela continuerà in recessione (-0.4%).
Poi c'è il quadro politico esterno. Il golpe in Honduras è stato un segnale. La riemersione della destra per via democratica con Sebastián Piñera in Cile («l'anti-Chávez», ha detto speranzoso Mario Vargas Llosa), un altro segnale. Gli Usa di Obama hanno completato l'accerchiamento del Venezuela chavista con le 7 basi militari nella Colombia del servizievole Uribe. Soprattutto sembrano essere riusciti, per il momento, a fermare non solo la forza d'urto espansiva del chavismo ma anche l'onda progressista dell'America latina. Il 2010 sarà forse decisivo: per il Venezuela che vota in settembre e per il grande Brasile che vota in ottobre.

da Il Manifesto

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