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martedì 1 dicembre 2009

Una guerra per la corona

Gabriella Kuruvilla è una scrittrice italoindiana. È nata a Milano nel 1969.

Milano, appartamento di periferia. L’ingresso si apre sulla cucina, da un lato c’è il bagno e dall’altro il salotto. L’arredamento è senza pretese , l’unico lusso è un enorme televisore, che immagino sia sempre acceso come adesso. Sul divano sono seduti quattro uomini e una donna, immobilizzati davanti a un programma in spagnolo.

L’età media è 25 anni. Vengono dal Centroamerica e sono vestiti in stile streetwear. Fanno tutti parte dei Latin King New York, una delle gang latinoamericane più famose del mondo. L’organizzazione è nata nella prima metà del novecento negli Stati Uniti, è stata ricreata nei paesi d’origine dagli immigrati che tornavano a casa e poi, con le nuove ondate di emigrazione, si è diffusa anche in Europa e in Asia.

Alessandro mi apre la porta. Il suo soprannome è un marchio di vestiti. Indossa dei pantaloni e una felpa oversize, nei toni del giallo e del nero: “Rappresentano la luce e il buio”, mi spiega. L’abbigliamento è uno dei segni distintivi della gang. I gesti assumono un’importanza fondamentale: sono segnali di riconoscimento, ma possono essere usati anche come provocazioni. Basta muovere le mani in modo sbagliato per offendere un intero gruppo ed essere puniti. Basta “rovesciare la corona”, il simbolo che contraddistingue i Latin King, ruotando la mano verso il basso. Ma la rappresaglia può scattare anche per “proteggere” una donna della banda dal corteggiamento di chi non fa parte del gruppo.

Le guerre tra bande hanno seminato diversi cadaveri per le strade di Milano e non solo. L’ultimo morto “celebre” è David Stenio Betancourt Noboa, ucciso all’alba del 20 giugno davanti a una discoteca di Milano. Era un amico di Alessandro, che ora è seduto davanti a me. Mi racconta la sua vita. È entrato nei Latin King da giovanissimo, quando viveva ancora in una città dell’Ecuador: il territorio era diviso in gang, e lui poteva solo scegliere in quale gruppo entrare. Così sarebbe stato rispettato.

La neve in tv
Alessandro è arrivato in Italia a 15 anni e all’inizio ha abitato a casa di una cugina di 40 anni, che non conosceva. Viveva nel quartiere Isola, a Milano. La città non gli piaceva, aveva deluso le sue aspettative: “Quando esci dall’Ecuador pensi che tutti gli altri paesi siano come gli Stati Uniti”. Ma l’Italia non era l’America. “Odiavo la neve. In tv invece mi sembrava bella”.

All’inizio non usciva di casa, si sentiva spaesato, soffriva di nostalgia e non riusciva a comunicare con nessuno perché parlava solo spagnolo. Voleva tornare in Ecuador. Poi ha dovuto trovarsi un lavoro, ha cominciato a muoversi per la città e a stringere le prime amicizie con ragazzi latinoamericani che appartengono alla sua stessa pandilla, la stessa gang. Li ha riconosciuti dai vestiti e dagli atteggiamenti.

“La gang sostituisce la famiglia di origine e si prende cura dei suoi membri”, mi dice Alessandro. I coetanei sono i fratelli e i più anziani sono i maestri: hanno l’autorità che dovrebbero avere i genitori, che spesso sono assenti. La famiglia ha una struttura piramidale, il motto è “Tutti per uno, uno per tutti”. Le parole d’ordine sono rispetto, fiducia e lealtà. Ognuno ha un ruolo ben definito e deve osservare regole ferree: se trasgredisci vieni punito.

Molti di quelli che ne fanno parte hanno una storia segnata da comportamenti devianti. Che la gang cerca di prevenire: aiutando i ragazzi a scuola o a cercare lavoro, ma anche mettendo al bando alcol e droghe. L’omosessualità è vietata e anche l’aborto. “Perché tu sei un re e il tuo corpo è un castello”, conclude Alessandro. Gabriella Kuruvilla

da Internazionale

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