mercoledì 9 settembre 2009
Da Giustizia e Libertà al Partito Radicale
Ernesto Rossi nasce a Caserta nel 1897. Ancora ventenne conosce Gaetano Salvemini. Tra i due inizia subito una sincera amicizia che sfocia poi nella collaborazione e nella stima reciproca. Rossi negli anni del fascismo, dopo un iniziale momento di incertezza, diventa uno dei protagonisti del movimento “Giustizia e Libertà”. È tra gli organizzatori del gruppo che dà vita al foglio clandestino “Non Mollare!”. In questa iniziativa è con Carlo e Nello Rosselli e Gaetano Salvamini. La sua attività solleva ben presto le attenzioni del tribunale speciale fascista che lo condanna a venti anni di carcere, di cui nove li sconta in carcere e quattro al confino sull’isola di Ventotene, al largo delle coste del Lazio. Qui, sull’isola, con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni matura compiutamente quelle idee che nel 1941 dovevano ricevere il loro suggello nel Manifesto di Ventotene.Nel 1943 fonda con Altiero Spinelli il Movimento Federalista Europeo e aderisce in seguito al Partito d’Azione. Con la Liberazione nel 1945, in rappresentanza del Partito d’Azione, diviene sottosegretario alla Ricostruzione nel Governo Parri e presidente dell’Arar (Azienda Rilievo Alienazione Residuati) fino al 1958. Nel dicembre del 1955 è tra i fondatori del Partito radicale, insieme a Leo Valiani, Guido Calogero, Francesco Compagna, Giovanni Ferrara, Felice Ippolito, Franco Libonati, Alberto Mondadori, Arrigo Olivetti, Marco Pannella, Mario Pannunzio, Leopoldo Piccardi, Rosario Romeo, Nina Ruffini, Eugenio Scalfari, Paolo Ungari. Si dedica contemporaneamente alla ricerca e al giornalismo d’inchiesta sul “Mondo”. Dal 1962 in avanti svolge la sua attività di pubblicista anche su “L’Astrolabio” di Ferruccio Parri. Muore il 9 febbraio del 1967, a Roma. Di lì a pochi giorni avrebbe dovuto presiedere l’iniziativa del Partito Radicale per l’Anno Anticlericale, al Teatro Adriano.
di Michele Lembo
Il confino di Ventotene
di Roberta Jannuzzi
Tra i capi di Giustizia e Libertà, Ernesto Rossi fu processato nel 1931 e condannato a 24 anni di reclusione. In Ventotene (Fratelli Frilli Editori, 2004), il socialista Alberto Jacometti, confinato nell’isola dal 1941 al 1943, racconta che, già mentre lo traducevano a Roma, Rossi tentò di fuggire gettandosi dal finestrino del treno in corsa. Sfilate le manette, approfittò di un momento di disattenzione della scorta, con un balzo si aggrappò al finestrino e si lasciò cadere. Il destino, tuttavia, gli fu avverso. Inseguito da un milite, perse il soprabito con la giacca e il portafoglio. Vagò tutta la notte sotto la pioggia. Bussò a una casa, fu respinto. Domandò aiuto a due o tre persone che incontrò, ma nessuno rispose. Infine si perse in un bosco. La descrizione che Jacometti fa di Rossi, concide con quella di un altro confinato, Giorgio Braccialarghe (Nelle spire di Urlavento, Fratelli Frilli Editori, 2005), testimone della nascita del Manifesto di Ventotene. «Snello, con occhi vivaci, nerissimi e un pizzetto caprigno, aveva un non so che d’infantile, quasi una gracilità femminea che non traeva ad inganno, poiché bastava una men che superficiale facoltà d’osservazione per scoprire tutta l’energia di cui era capace e una forza di volontà eccezionale. Possedeva la forte religiosità dei pochi privilegiati che, essendo corazzati moralmente, rifiutano ogni religione rivelata. D’un’onestà superiore, era incapace del più piccolo compromesso con la propria coscienza. Per lui la vita valeva la pena d’esser vissuta, solo se spesa in una costante dedizione al proprio e all’altrui miglioramento, e la sua intima aspirazione era di poter sopravvivere attraverso le opere seminate e portate a compimento durante l’esistenza».
L’anticlericalismo
di Michele Lembo
«Io appartengo alla sparutissima schiera di coloro che credono ancora sia dovere di ogni uomo civile prendere la difesa dello Stato laico contro le ingerenze della Chiesa in Parlamento, nella scuola, nella pubblica amministrazione, e ritengono che quest’obiettivo sia, nel nostro paese, più importante di qualsiasi altro - politico, giuridico o economico - in quanto il suo conseguimento costituirebbe la premessa indispensabile per qualsiasi seria riforma di struttura: io sono, cioè, sulle posizioni di quello che la maggior parte degli esponenti della nostra sinistra democratica oggi definisce “vieto anticlericalismo” e “pregiudizio piccolo-borghese”».
Queste parole Ernesto Rossi scriveva l’8 dicembre del 1964, in premessa del suo libro “Il sillabo e dopo”. Lo studioso, che fu tra gli estensori del Manifesto di Ventotene, si proponeva di mettere a nudo le contraddizioni della condotta della Chiesa di Roma nell’arco di tutta la sua storia. Contraddizioni poste in evidenza attingendo direttamente da scritti e discorsi dei protagonisti di quella storia stessa.
«Questo è un libro anticlericale. Lo hanno scritto otto pontefici: Pio IX, Leone XIII, Pio X, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI». Con queste parole, che usa come sottotitolo nel “Sillabo e dopo”, Ernesto Rossi spiega in modo chiaro e sintetico il suo metodo di lavoro. Un metodo che diviene strumento e fondamento anche della sua battaglia politica. Partendo dall’esame puntuale dei testi degli stessi protagonisti che hanno fatto la storia del Vaticano, Rossi riesce a ricavare i punti cardine della sua critica a quella particolare forma di cultura etica che caratterizza la tradizione vaticana. Un esempio di questo modo di procedere è appunto nell’introduzione al “Sillabo e dopo”. «Unico vero signore di tutte le cose create è Domineddio - spiega Ernesto Rossi, citando uno dei testi di Pio IX - quindi “omnis potestas a Deo”; veramente legittimi possono qualificarsi soltanto quei governi che riconoscono di avere la autorità del comando non per diritto proprio, né per volontà della nazione, ma per mandato di Dio: ed i governi devono essere ubbiditi dai sudditi solo se fanno leggi, amministrano la giustizia, educano la gioventù in conformità della legge di Dio». Se il fondamento dello stato per il clero vaticano sta nella necessità di costruire leggi in conformità della “legge di Dio”, è evidente che non c’è niente di più lontano di questo da una concezione laica di Stato moderno. «La Chiesa cattolica non è un’associazione di fedeli come le altre chiese, costituite per provvedere, in forma collettiva, al culto, all’educazione, alla propaganda: è il corpo mistico di Gesù. Dio si incarna nella Chiesa, unica detentrice della verità». In questo senso «la Chiesa cattolica è dunque “società perfetta”, in quanto tale, completamente indipendente da qualsiasi potere civile: può far leggi, giudicare, punire, anche con la pena di morte». In conseguenza di questo, «in caso di contrasto fra autorità civili e autorità ecclesiastiche, le prime devono sempre cedere davanti alle seconde: se non cedono, i sudditi hanno il dovere di “obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”, cioè di ribellarsi alle autorità civili per obbedire alle autorità ecclesiastiche».
Nell’ambito di questa visione delle cose umane, il Vaticano si pone evidentemente in antitesi rispetto a tutte le libertà che la cultura illuminista concepisce per l’individuo. Vediamo come citando un discorso di Pio XI del 18 settembre 1938, Ernesto Rossi mette in luce questo aspetto. «Se c’è un regime totalitario, totalitario di fatto e di diritto, è il regime della Chiesa - scrive Rossi, citando Pio XI - dato che l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle, perché l’uomo è creatura del Buon Dio, è il prezzo della redenzione divina, è il servitore di Dio, destinato a vivere per Dio qui in terra e con Dio in cielo». Rossi spiega tra l’altro: «Purchè dimostrino di essere disposti a riconoscere la supremazia della Chiesa […] la Santa Sede dà tutto il suo appoggio anche ai più spietati tiranni, come lo ha dato a Mussolini, a Hitler, a mons. Tiso, a Pavelic, a Dollfuss, a Pétain, a Salazar, a Franco, a Peròn, ai fratelli Diem, e a tutti gli altri dittatori clericali del vecchio e del nuovo mondo». La Chiesa ritenendosi unica depositaria della verità «non potrà mai - chiarisce Ernesto Rossi - di sua volontà, consentire che la scuola, la stampa, il teatro, il cinema, la radio, la televisione, vengano sottratte al suo controllo e alla sua censura, e si adopererà sempre in tutti i modi per non far riuscire o per allontanare dalle cariche politiche e amministrative di rilievo i laici, qualunque siano i loro meriti che […] costituirebbero un ostacolo ai suoi interventi negli affari interni».
Il 9 febbraio 1967 moriva Ernesto Rossi. «Ernesto - racconta Marco Pannella - era stato operato nei giorni precedenti. L'avevo visto il 7, e lui, che era sarcastico verso chi non credeva all'Anno anticlericale che avevamo lanciato, era allegro perché un'infermiera gli aveva detto: "Bé, se lei presiede questa cosa, verrò anch'io all'Adriano". Ernesto, abituato come eravamo spesso noi radicali al Ridotto dell'Eliseo, aveva soggiunto: "L'ho detto anche a Ada: ma vuoi vedere che questa volta quel matto di Pannella ha avuto ragione!". L'operazione era andata benissimo, il medico era Valdoni, tuttavia le conseguenze non furono controllate e all'improvviso Ernesto se ne andò. Di lì a trentasei ore avrebbe dovuto presiedere una prima grande manifestazione della religiosità anticlericale, della religione della libertà di tutti i credenti».
da RadioRadicale
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