HOME       BLOG    VIDEO    EVENTI    GLI INVISIBILI    MUSICA    LIBRI    POLITICA LOCALE    POST PIU' COMMENTATI

lunedì 24 agosto 2009

SILVIA BARALDINI


"…l’America è una statua che ti accoglie e simboleggia bianca e pura, la libertà che dall’alto fiera abbraccia tutta la nazione. Per Silvia questa statua simboleggia solamente la prigione. Perchè di questa piccola italiana oggi l’America ha paura. Paura del diverso, del contrario, di chi lotta per cambiare. Paura delle idee di gente libera, che soffre, lotta e spera. Nazione di bigotti, ora vi chiedo di lasciarla ritornare. Perchè non è possibile rinchiudere le idee in una galera. E Silvia non ha ucciso mai nessuno e non ha mai rubato niente."
Francesco Guccini, Canzone per Silvia
La ripetizione storica dell’ingiustizia ha generato casi di crudele oppressione, di ostentata rivelazione del potere a difesa di altro potere minacciato da una completamente diversa concezione della vita e della sua strutturazione nell’impero americano. Silvia Baraldini è un elemento endogeno di ribellione negli Stati Uniti d’America del 1982. E’ l’anno in cui viene arrestata e inizia il suo percorso di torture psico-fisiche, di alienazione dal resto del mondo, di solitudine giudiziaria. Silvia Baraldini è una militante per i diritti umani e sociali delle popolazioni afro-americane, probabilmente è anche comunista (lei non lo ha mai dichiarato apertamente), sicuramente non è nè una simpatizzante del Partito democratico o di quello repubblicano.
Silvia fa parte del Black Panter Party, il "Partito delle Pantere nere": non spaventatevi, non sono ammaestratori di animali, ma uomini e donne che si prestano ad una battaglia di riconoscimento dell’equipollenza dei diritti per tutti negli Usa: bianchi, neri, ispanici, ecc.
Il gruppo di cui fa parte Silvia, il "19 maggio", viene definito da molti giornali come un gruppo "eversivo", ma è perfettamente legale. Silvia Baraldini inizia la sua attività politica sull’onda del movimento sessantottino, protestando e manifestando per tutti gli obiettivi che si prefiggeva quella generazione, quindi per i diritti civili dei neri statunitensi, contro la guerra del Vietnam e per i diritti delle donne. In seguito la sua attività si focalizza contro l’apartheid e il nuovo colonialismo in Africa. Qui parte la vicenda che la vede protagonista da oltre 25 anni. Quando le vengono messe le manette ai polsi le sciorinano in faccia le accuse più esorbitanti: avrebbe partecipato alla fuga di Assata Shakur alias Joanne Chesimard, "l’anima" del "Black Liberation Army". Fu accusata di essere un’ideologa sia del movimento "19 maggio" e di altri movimenti afro-americani di liberazione tra cui "La famiglia", che forniva appoggio logistico; Fu accusata di aver preso parte ai preparativi di rapina, mai portatI a termine, di un furgone blindato a Danbury nel Connecticut; fu inoltre accusata di aver preso parte il 19 maggio 1981 ai preparativi di rapina, mai portata a termine, di un furgone blindato alla Chemical Bank di Nanuet, a New York e, infine, dulcis in fundo di "ingiuria al tribunale", per aver rifiutato di fornire testimonianza sui nomi di altri militanti del movimento "19 giugno". Francesco Guccini afferma nella sua "Canzone per Silvia" che "…non ha ucciso mai nessuno e non ha mai rubato niente". E’ vero, a Silvia non sono mai stati contestati reati di sangue, reati contro il patrimonio o contro cose e persone. Le sono state mosse accuse per la sua militanza di sinistra, per le sue idee, evidentemente giudicate "pericolose". Un pò come qui in Italia, durante il fascismo, si bollavano sulle schede carcerarie come "pericoloso comunista" chiunque avesse avuto sentimenti antifascisti in cuore democratico e libertario.
E così, la più dura legge americana contro i mafiosi viene applicata contro di lei. Questa normativa, la Legge Rico, concorre a comminare a Silvia Baraldini ben 43 anni di carcere. Una pena esorbitante per accuse che, al massimo, in un Paese come il nostro avrebbero avuto una sommatoria di non più di cinque anni. La suddivisione dei lustri di pena è emblematica, e definisce i contorni del giustizialismo americano nei confronti di chi è straniero, magari di sinistra o comunista, magari anche di colore. I giudici statunitensi gettano un macigno di anni di reclusione così definiti: 20 anni per il concorso in evasione di Assata Shakur, alias Joanne Chesimard; altri 20 anni per associazione sovversiva, con applicazione della celeberrima legge Rico per i due preparativi di rapina; 3 anni per l’ "ingiuria al tribunale" che abbiamo già descritto prima.
Ma la giustizia e l’amministrazione americana vuole mostrarsi "pia e pietosa" verso questa italiana così "pericolosa". L’FBI, infatti, le offre del denaro in cambio della denuncia dei compagni del gruppo "19 maggio". Una offerta che le viene riproposta quando è in carcere con la promessa della sua liberazione. Silvia rifiuta e, per questa sua resistenza, viene gettata nel carcere di Lexigton e sottoposta ad un regime detentivo che la umilia nel profondo dell’animo, e nella caducità materiale del corpo.
La censura operata sulla sua posta, la durissima restrizione nei rapporti con l’esterno, con i propri parenti, compresa l’anziana madre, sono nulla se paragonati alle vere e proprie torture che subisce: per tre mesi consecutivi le applicano l’interruzione costante del sonno. La svegliano ogni 20 minuti. La guardia arriva, apre la porta e le punta sul viso un fascio di luce con la propria torcia. Se non si sveglia, fa chiasso e fa in modo che il suo debole dormiveglia venga sempre sistematicamente interrotto. Al contempo la deprivano della luce, le impediscono di riconoscere i colori, la circondano di un alone separatorio con tutto ciò che può essere il contatto mentale tra la realtà e la cella.
Una situazione insostenibile per chiunque, una Guantanamo ante litteram, un luogo di esasperazione del patimento e delle sofferenze. Non certo un regime carcerario, ma una camera di tortura in tutti i sensi. Silvia ha grande coraggio, le arrivano manifestazioni di solidarietà soprattutto dall’Italia: ricordo che facemmo moltissime iniziative per la sua liberazione. Una con l’allora deputato del PRC Lucio Manisco che si è sempre speso moltissimo per la causa di Silvia Baraldini. Le dedicammo anche una festa di "Liberazione" e proietammo un filmato di denuncia della sua storia, della detenzione disumana. Il mondo della cultura e della musica si mobilità per lei nel corso degli anni, accrescendo le voci di contestazione delle prepotenze della c.d. "giustizia" americana e dimostrando come Silvia Baraldini dovesse essere liberata subito, in quanto ingiustamente accusata e incarcerata.
Alfredo Bandelli, storico cantautore della sinistra, le dedicò una bellissima canzone di cui abbiamo riportato alcuni versi in testa a questo articolo, e coì anche Francesco Guccini con la sua "Canzone per Silvia" il cui epilogo era: "…che sempre l’ignoranza fa paura ed il silenzio è uguale a morte". Ciò che forse ha tenuto in vita Silvia è stato proprio il generale movimento di rottura del silenzio, di costante impegno per la sua liberazione.
A causa delle condizioni carcerarie, Silvia si ammala di un cancro squamoso uterino. La operano, ma la degenza non è certo semplice. Lei, in fondo, è solo una "criminale", e perchè mai il sistema detentivo a stelle e strisce dovrebbe preoccuparsi della salute di una donna così…
Il movimento per la sua liberazione ne chiede, anzitutto, il rimpatrio in Italia. A supporto viene chiamata la Convenzione di Strasburgo che, però, non detta obbligo in merito ai paesi contraenti e non fissa temporalità. Qualche timida richiesta in tal senso fatta dal governo italiano finisce nel cassetto del dimenticatoio e Silvia resta a marcire in carcere. Solo nel 1999, ben 17 anni dopo il suo imprigionamento, Silvia vede concretizzarsi la speranza di essere condotta in Italia. Gli Stati Uniti chiedono al nostro Paese di non fornire alla Baraldini alcun sconto di pena e di farle continuare lo sconto degli anni, di tutti quanti gli anni di privazione della libertà. Ogni buon giurista sa che la legislazione di un paese straniero non vale in quella di un altro paese, per questo il trasferimento di Silvia in Italia costituiva il presupposto per un allontanamento dalla persecuzione americana e la possibile costante diminuzione della pena fino ad una adeguata disposizione della reclusione compatibile con i problemi di salute, assai seri, di Silvia.
Ad accoglierla all’Aeroporto di Ciampino va il ministro della Giustizia Oliviero Diliberto. Un comunista. Le porta dei fiori e fa infuriare i fascisti e gli adoratori del cappio. E’ un primo passo verso la libertà. Certamente i gangli del diritto non facilitano l’applicazione della giustizia e, infatti, bisogna rispettare l’accordo con il potente amico americano e quindi le porte del carcere si riaprono per la Baraldini. Un’altra malattia la attanaglia in questi anni, un tumore al seno. Combatte questa ennesima battaglia con grande forza e la supera. In questi ultimi tempi era agli arresti domiciliari, ma non era certo libera di poter vivere come una qualunque persona. Solo ieri, 26 settembre 2006, Silvia Baraldini è stata definitivamente liberata dalla sua condizione di detenuta. L’indulto approvato dal Parlamento le ha permesso di non scontare gli ultimi due anni di reclusione. Silvia ora può vivere libera, può assaporare l’amaro paragone tra la vita che le è stata rubata e quella che potrà riprendersi da oggi in avanti.
Noi siamo felicissimi per lei, perchè Silvia non è mai stata una terrorista, non ha mai ucciso nessuno, ma si è sempre spesa per i più deboli di questa terra, per i senza diritti, per quelli che un tempo chiamavamo gli "oppressi".
Auguri Silvia, da tutti noi di Lanterne rosse, auguri per la tua vita. Che d’ora in poi possa essere serena, felice e sempre al fianco di tutte quelle Baraldini che sono in situazioni di sofferenza morale, fisica, sotto l’egida di qualunque potere, sotto la campana di vetro di ogni etica che vuole imporsi come specchio della verità e che, invece, è solo ipocrisia e paura.

Marco Sferini, 27 settembre 2006 – www.lanternerosse.it


Baraldini, l'arresto
la condanna, le speranze




________________________________________
9 novembre 1982: l'arresto
L'accusa è associazione sovversiva: il gruppo "19 maggio" di cui Silvia Baraldini è membro dal 1975 è accusato di aver preso parte a una rapina nel 1981 durante la quale sono rimasti uccisi due poliziotti. Silvia Barladini viene rinchiusa nel carcere metropolitano di New York, dal quale viene liberata su cauzione dopo poco più di un mese, il 23 dicembre. Cinque mesi dopo, il 25 maggio del 1983 il nuovo arresto. Silvia Baraldini aveva 34 anni.

15 febbraio 1984: la condanna
La Corte Federale del distretto di New York condanna Silvia Baraldini per aver preso parte all'azione per la liberazione della rivoluzionaria anglo-americana Asata Shakur dal penitenziario federale del New Jersey. Per questo reato le vengono inflitti venti anni di carcere. Con le altre accuse (associazione per delinquere allo scopo di commettere i rapine, omicidio, sequestro di persona, ostacolo delle indagini, partecipazione a rapina e sequestro di persona) gli anni diventano 40. Sempre nel 1984 la seconda condanna: tre anni di reclusione per essersi rifiutata di deporre davanti al Grand Jury.

In sei diversi carceri
Fino alla metà del 1984 Silvia Baraldini sconta la pena nel carcere metropolitano di New York. Nel maggio dello stesso anno viene trasferita nel carcere di Pleasanton a San Francisco, doce resta fino al 1987. Poi è la volta del penitenziario di massima sicurezza di Lexington, nel Kentucky, dove è rinchiusa in una cella di quattro metri per due senza finestra. Dopo 19 mesi viene accolto l'appello della Baraldini e di un'altra detenuta sottoposta alle stesse condizioni di trattamento, sostenuto anche da Amnesty international e American Civil Liberties Union, e c'è il trasferimento nel penitenziario di massima sicurezza di Marianna in Florida. Nel 1994 altro trasferimento a Danbury nel Connecticut, dove si trova attualmente.

La malattia
Nel 1988 un oncologo le scopre un tumore maligno. La Baraldini viene trasferita nel carcere di Rochester nel Minnesota, dove viene sottoposta a due interventi chirurgici e subisce l'asportazione dell'utero.

Le richieste d'estradizione
La prima richiesta viene presentata da Giuliano Vassalli nel 1989. Poi, nel 1998 il ministro della Giustizia Flick chiede al Segretario generale del Consiglio d'Europa Daniel Tarschys di avviare il tentativo di "composizione amichevole", previsto dalla Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate. Davanti al Consiglio d'Europa l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso difende la causa Baraldini. La controparte americana è composta dal direttore per il trasferimento internazionale dei detenuti del dipartimento di Giustizia Charles Brooks.
Il giudizio del Consiglio d'Europa arriva il 10 giugno 1998 con un documento, presentato da Italia, Usa, Regno Unito, Francia, Germania, Belgio, Svezia e Turchia, che delineava il possibile scenario: Silvia Baraldini deve restare in carcere, se trasferita in Italia, al massimo fino al 2012 e al minimo fino al 2005; la pena non può essere ridotta in Italia se non attraverso una grazia presidenziale; a partire da un anno dopo il suo eventuale trasferimento in Italia, La Baraldini può ottenere la semi libertà e i permessi di qualche giorno fuori dalla prigione solo se gli Usa accompagneranno il suo rientro con "rapporti soddisfacenti" sulla sua condotta nelle carceri americane.

Infine i due viaggi in Usa di D'Alema. Il primo nel marzo scorso, all'indomani del verdetto di assoluzione del pilota della strage del Cermis. L'altro in occasione del vertice della Nato a Washington, con un incontro bilaterale formale sul caso Baraldini.

(11 giugno 1999)

Il ritorno della Baraldini
Storia di una buona causa



di GIANNI MURA
________________________________________
Adesso che Silvia Baraldini torna, è tornata, chi non ha seguito da vicino il suo caso rischia di smarrirsi in mezzo alle tante Baraldini raccontate in cronaca. Dal santino laico alla pericolosa terrorista, passando per gradazioni più sfumate. In cui includo le polemiche sul costo del Falcon 900 mandato in America dal nostro governo. Polemiche oziose, perché gli americani hanno richiesto massima discrezione nel trasferimento. Immaginatevi la Baraldini su un volo di linea con decine di giornali e tv a prenotare i posti. O, ancora, Baraldini come merce di scambio per il Cermis, dramma che certamente ha cambiato il clima e convinto gli americani ad ammorbidirsi un po'.

Ma non scordiamoci che è dal 1988 che in Italia, Parlamento compreso, si discute della Baraldini. Di socialisti e radicali le prime interrogazioni. Sempre nel 1988 nasce a Ferrara il primo Comitato di solidarietà per Silvia. Altri ne nasceranno, a Firenze, a Roma, a Milano, non tutti in sintonia fra loro ma tutti decisi a lottare contro il silenzio e l'isolamento di una donna forte. Il 1988 è anche l'anno delle due operazioni (lei in catene, come da regolamento, anche sul tavolo operatorio) per cancro all'utero.

E nell'89 parte dall'Italia la prima richiesta di estradizione in base alla convenzione di Strasburgo. Respinta, come succederà altre volte, fino al gennaio di quest' anno, quando al ministro Diliberto, a Berlino, arriva un fax in cui il governo americano manifesta la disponibilità a trattare. Può darsi, anzi è certo, che Diliberto sia parso interlocutore credibile alla controparte. Lui e chi per lui (Gianni De Gennaro). E che il nuovo avvocato italiano, Grazia Volo, si sia mossa con sicurezza e decisione.

Ma senza quella che si può chiamare mobilitazione popolare, oggi Silvia Baraldini sarebbe ancora il numero 05125-054 del penitenziario di Danbury. Senza i concerti di Guccini e le corse a piedi organizzate dall'Uisp, senza i consigli di fabbrica e le cittadinanze onorarie in tanti centri italiani, senza gli appelli firmati da Eco e Rushdie, Tabucchi e Maraini, Raboni e Valduga, Fo e Levi Montalcini, Bobbio e don Ciotti, ma anche da Ulivieri, allora allenatore del Bologna, da Mentana e Costanzo, da Emergency e da tante persone, non famose, gente comune e non necessariamente comunista (anche deputati del Polo, per dire). E non necessariamente antiamericana, ma forse spinta dall'evidenza dei fatti a pensare che quella americana non è la miglior giustizia possibile.

Oggi è un bel giorno, per la Baraldini e per tutti quelli che non hanno mai smesso di credere che sarebbe tornata in Italia. A Rebibbia, non a casa sua, fino al 29 luglio 2008. L'unica strada praticabile era di accettare condizioni teoricamente inaccettabili (rinuncia ai benefici della legge Gozzini e via dicendo), ma esiste un versante umano, non solo un versante giuridico, che mi pare interessante. Mi chiedo: perchè proprio la Baraldini e la sua storia hanno richiamato l'attenzione, lo sdegno, il sentimento di tanti italiani? Perché, per usare una brutta espressione, molti altri casi carcerari più pieni di sangue sono stati dimenticati e il suo non è passato di moda? Perché questa attenzione occupa dieci anni, da Palermo a Sale Marasino (Bs)?

Proprio perché oggi è un bel giorno, provo a rispondere. Per me e per gli altri. Fino al luglio del '94, quello che sapevo dalla Baraldini lo sapevo dai giornali. Mondiali di calcio negli Usa, Danbury a poco meno di due ore d'auto da New York, trafila per la visita, due ore in parlatorio. Mai visti prima né dopo, dopo solo qualche telefonata e qualche lettera. Ma in quelle due ore, in un penitenziario di massima sicurezza del Connecticut, ho respirato un sacco di libertà. Detto così fa un po' ridere, ma la sensazione precisa era questa. La libertà non era intorno a Silvia, era dentro. Non s'era persa con la condanna né con la malattia, non s'era persa nella disumana detenzione di Lexington (la tomba bianca era chiamato questo carcere, chiuso dopo l'intervento di Amnesty International) né in quella durissima, ma senza torture psicofisiche, di Marianna.

A proposito di far ridere, non male le dichiarazioni di Marcello Veneziani su un pezzo (serissimo, quello) di Igor Man. "La Baraldini è coerente sulla pelle degli altri". Anche sulla sua, andiamo: 17 anni di galera in America non sono una crociera. Specie se c'è accanimento. Una donna, bianca, famiglia agiata, buoni studi, che si butta dalla parte dei neri e dei portoricani, di tutte le minoranze. Fu in agosto, nel '61, esattamente il giorno 7, che la famiglia Baraldini si trasferì a New York. Silvia avrebbe compiuto 14 anni a dicembre. E' cresciuta negli anni dei campus studenteschi in fermento, delle grandi mobilitazioni per i diritti civili. Vorrebbe andare in Alabama per marciare con Martin Luther King da Selma a Montgomery, i genitori la dissuadono, troppo pericoloso, meglio restare a casa. "E' l'ultima volta che ho chiesto il permesso di partecipare. Poi ho partecipato". Il padre era dirigente della Olivetti, poi lavorò all'ambasciata italiana. Morì d'infarto nel '77.

Come militante del gruppo 19 maggio, in base alla legge Rico, varata in funziona antimafia, la Baraldini è stata condannata a 43 anni. La legge Rico prevede che i crimini commessi dall'appartenente a un gruppo possano essere automaticamente addossati a tutti gli altri, anche se nel caso della Baraldini il tribunale ha riconosciuto la sua non partecipazione a fatti di sangue. Vent'anni per aver partecipato all'evasione (incruenta) di Jo Ann Chesimard, alias Assata Shukur, dal carcere di Clinton (New Jersey). Vent'anni per l'ideazione di una rapina mai avvenuta, su segnalazione di un pentito incapace però di descrivere la Baraldini, che fra l'altro in quel periodo stava in Zimbabwe. Tre anni per disprezzo della corte.

Con un bravo avvocato, e non con l'immancabile militante, la Baraldini se la sarebbe cavata con molto meno. Non ha mai sostenuto di essere innocente né ha cercato di evitare le sue responsabilità. E credo che qui stia la risposta per gli altri, per il cerchio largo degli altri. La coerenza e la dignità di Silvia Baraldini (in quelle condizioni) sono valori forti e percepiti. In tempi di spostamenti rapidi, sempre dettati dalla convenienza personale (da un partito all'altro, da una squadra all'altra), in tempi in cui la nostra vita sembra un frenetico zapping, la Baraldini è rimasta ferma, non s'è né spezzata né piegata, non ha chiesto pietà ma solo giustizia. In stagioni di etica ballerina, la Baraldini non ha barattato la sua libertà né con un pentitismo di comodo né facendo rivelazioni su altri membri di quel gruppuscolo che non c'è più, non essendoci più le condizioni sociali che l'avevano fatto nascere, crescere e anche sbagliare metodi.

Quel luglio di cinque anni fa ero andato a Dambury sapendo che l'Fbi già nel 1987 le aveva offerto un bel mucchietto di dollari e la scarcerazione immediata se avesse fatto altri nomi. E che per il suo rifiuto l'avevano spedita nella tomba bianca di Lexington. E sapevo che sua sorella Marina, la prima a sollevare il caso, era morta nell'89 nel cielo del Ciad, aereo francese fatto saltare da terroristi libici. Non sapevo e non immaginavo di trovarla così ostinatamente serena e decisa a non rifarsi una vita a scapito di vite altrui. Né pensavo che ricevesse tanta posta dall'Italia ("è importante, chi ha qualcuno fuori è trattato qui con più rispetto"), spesso da persone che le ponevano problemi di malattie, di droghe, di rivoluzioni fallite o mai iniziate. Mi venne in mente quella vecchia canzone in milanese resa famosa dalla Vanoni, Ma mi. Sbatùu de su, sbatùu de giò, mi son de quei che parlen no. Allora di diritti civili in Italia si parlava pochissimo. Adesso anche meno. Era una buona causa, e buona resta. Personalmente, anche se non ha importanza, credo che la Baraldini per quello che ha fatto abbia pagato a sufficienza. In ogni caso, aveva diritto a una nuova vita nel suo paese, sia pure a Rebibbia. Non sarà facile, ma sempre meglio qua che là.

(25 agosto 1999)

Vorrei segnalarvi questo libro che ho trovato nella libreria sotto casa: Riccardo Bocca, La condanna: storia di Silvia Baraldini. Milano: Feltrinelli, 1998, pp. 151, £ 25.000.
L'autore (classe 1964) ha lavorato presso la redazione de "l'Unità" e di "Radio Popolare", ed è stato caposervizio del settimanale "L'Europeo". Nel 1996 ha pubblicato Maurizio Costanzo Shock (Kaos Edizioni).

Il libro ripercorre le tappe salienti della vita e della formazione culturale della Baraldini, dalla sua collaborazione con il Black Panter Party alla militanza nella May 19 Comunist Organization, fino al suo arresto per i reati di complicità nell'evasione di Assata Shakur, una combattente del Black Liberation Army (1979) e nella rapina di un furgone portavalori (1981), alla quale non partecipò direttamente, ma che fu preparata nella sua abitazione. In quest'ultima azione rimasero uccisi due poliziotti.
Dal 1982 Silvia Baraldini è incarcerata e condannata a quarant'anni per i reati di cui sopra e a tre in più per oltraggio alla corte. Per oltraggio alla corte è da intendersi il rifiuto all'esplicita richiesta della corte di rivelare i nomi di altri complici. Questo in USA costituisce di per sé oltraggio alla corte.
La Baraldini poi si è ammalata di cancro, in seguito anche alle condizioni disumane e alle torture subite nel carcere di massima sicurezza di Lexington, dove è stata rinchiusa con altre detenute politiche considerate di "massima pericolosità". Gli interventi medici sono stati colpevolmente rimandati, fino alle proteste della commissione per i diritti civili, e di varie autorità stimolate anche dalla pressante richiesta di Marina Baraldini, la sorella di Silvia, che lavorando alle Nazioni Unite riesce a fare pressione. Purtroppo Marina Baraldini è morta in un incidente aereo nel 1989. Da allora si occupano di lei due diversi comitati di solidarietà. Uno politico e uno umanitario, non sempre fra loro coordinati. Il libro ripercorre la storia dei 5 rifiuti dell'estradizione chiesta dai vari governi italiani, e supportata da raccomandazioni del parlamento europeo. La prima richiesta è del 1989. Il diniego è motivato da un pretesto ingiurioso: la paura che nell'ordinamento giudiziario italiano, considerato lassista, la Baraldini non sconterebbe tutta la pena. L'autore esamina in dettaglio le mutate condizioni politiche, per cui al cambiare delle teste al governo non cambiano le modalità dei pretesti con cui tale provvedimento viene rifiutato. Le motivazioni dei cinque rifiuti sono infatti sempre le stesse.
Silvia evidentemente è ancora una spina nel cuore dell'amministrazione statunitense, e nemmeno Clinton si è mostrato all'altezza delle aspettative. Troppa è stata la paura di suscitare sospetti nell'elettorato cosiddetto "moderato" (ma in realtà forcaiolo).
La cosa assurda, fa notare Bocca, "è che mentre Silvia veniva rinchiusa nel supercarcere di Marianna, gli americani accordavano la libertà provvisoria a Orlando Bosh, un terrorista anticubano responsabile di numerosi attentati" (p. 70), un terrorista ritenuto colpevole, ad esempio, di un attentato contro un aereo civile della Cubana Airlines che ha provocato settantatré morti.
Silvia invece non ha mai sparato un colpo, e quando è stata rinchiusa in carceri "normali" la sua condotta è stata quella di una detenuta modello, ha chiesto scusa per iscritto ai parenti delle vittime ed ha riconosciuto i propri errori.
Notare che non si chiede la liberazione della Baraldini, ma soltanto che venga a scontare la pena in Italia, dove potrebbe ricevere le visite di sua madre più facilmente. Se governi precedenti si sono mostrati tintinnanti e conniventi con le autorità americane (particolarmente impacciato il tentativo di Dini), l'ultimo rifiuto mostra in tutta la sua crudezza il disprezzo del governo americano per le nostre autorità politiche. In tutto questo la Baraldini paga ancora per la propria fermezza nell'affermare quei principi per i quali ha lottato da ragazza.
Mi domando a questo punto se - invece di continuare a battere il tasto dei diritti umani, cui gli americani sembrano essere sordi - non ci sia qualche forma di contropartita da offrire per cui il governo statunitense possa essere indotto a ridarci la Baraldini.

Nessun commento:

Posta un commento