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lunedì 13 luglio 2009

Teheran è la mia casa

Gli iraniani hanno capito che nessuno gli concederà i loro diritti: devono andare a prenderseli, scrive Marjane Satrapi.

Sei anni fa in un caffè di Parigi sono andata a un incontro con un esiliato iraniano (di cui non dirò il nome). Dopo la rivoluzione del 1979 aveva dovuto andarsene dall’Iran per motivi politici. Non tornava nel suo paese da ventiquattro anni.Ha parlato di molte cose e ha concluso dicendo: “Chi lascia la sua patria può vivere ovunque. Io, però, rifiuto l’idea di non morire in Iran. Altrimenti la mia vita non avrà avuto senso”.

Penso a quelle parole commoventi da sei anni. E le capisco sia sul piano razionale sia a livello emotivo. Anch’io sono convinta di dover morire nel mio paese, l’Iran: altrimenti anche la mia vita sarebbe priva di senso. Quando ho incontrato quell’uomo, erano già passati quattro anni dall’ultima volta che ero tornata a casa.

Sì, per me l’Iran è casa mia, perché anche se ho già vissuto e vivrò a lungo in Francia, e anche se dopo tanti anni mi sento in parte francese, per me la parola “casa” significa una cosa sola: Iran.

Immagino che sia lo stesso per tutti: casa è il luogo dove si nasce e si cresce. Sono innamorata di Parigi, ma Teheran, pur nella sua bruttezza, ai miei occhi sarà sempre “la sposa” di tutte le altre città del mondo.

È una questione che ha a che fare con la geografia, con l’odore della pioggia, con ciò che sappiamo senza mai doverci chiedere perché lo sappiamo. Ha a che fare con i monti Alborz che proteggono la mia città. Dove sono adesso? Chi mi proteggerà ora? Ha a che fare con il tanfo insopportabile dell’inquinamento, che conosco così bene. C’entra il fatto di sapere che l’azzurro del cielo non è lo stesso dappertutto, e il sole non splende ovunque allo stesso modo.

Oggi sono passati più di dieci anni dall’ultima volta che sono tornata a casa. Per la precisione dieci anni, sei mesi e tre giorni. Per tutto questo tempo ho creduto che sarei vissuta qualche altro decennio senza mai poter camminare sulle mie montagne. Ma il 12 giugno 2009 è successo qualcosa a cui non avrei mai creduto di poter assistere.

Gli iraniani, accalcandosi in uno spazio di democrazia molto angusto – di solito gli consentono solo di votare un presidente già scelto dal Consiglio dei guardiani – hanno votato davvero. Prima delle elezioni la stampa mondiale si è chiesta se gli iraniani sono pronti per la democrazia.

E la risposta si è sentita forte e chiara: “Sì!”. Con un’affluenza alle urne dell’85 per cento, hanno cominciato a sognare un cambiamento. Hanno cominciato a credere che yes they can, che anche loro possono.

Non è la prima volta che gli iraniani dimostrano di amare la libertà. Basta dare un’occhiata alla storia del ventesimo secolo: sono stati loro a fare la prima rivoluzione costituzionale di tutta l’Asia, nel 1906. Poi nel 1951 hanno nazionalizzato l’industria petrolifera (primo paese mediorientale a fare una cosa del genere).

Hanno fatto la rivoluzione del 1979 e infine hanno dato vita alla rivolta studentesca del 1999. Il che ci porta all’oggi, e a quella richiesta assordante di democrazia. Da tempo gli iraniani gridano per chiedere la democrazia. Finora non li ha ascoltati nessuno.

Ma il 12 giugno 2009 è successo qualcosa. Quasi vent’anni fa, quando ho cominciato i miei studi di belle arti a Teheran, la semplice idea della “politica” ci spaventava al punto che non osavamo neppure pensarci. Parlare di politica? Impossibile! Manifestare in piazza contro il presidente? Surreale! Criticare la Guida suprema? Apocalittico! Gridare “abbasso Khamenei”? La morte!

Morte, tortura e carcere, per i giovani dell’Iran, fanno parte della vita quotidiana. I ragazzi di oggi non sono come noi, come me e i miei amici quando avevamo la loro età. Loro non hanno paura. Loro si tengono per mano e gridano: “Non abbiate paura! Non abbiate paura! Siamo tutti insieme!”.

Hanno capito benissimo che nessuno gli concederà i loro diritti: devono andare a prenderseli. Hanno capito che a differenza della generazione che li ha preceduti – la mia generazione, che sognava di lasciare l’Iran – il vero sogno non è abbandonare il paese ma combattere per esso, per liberarlo e per ricostruirlo.

Oggi ho letto da qualche parte che la “rivoluzione di velluto” iraniana è diventata “il colpo di stato di velluto”: amara ironia. Fatemi dire una cosa, però: con le sue speranze, i suoi sogni, la sua rabbia e la sua ribellione, questa generazione ha modificato per sempre il corso della storia. Nulla sarà più come prima.

D’ora in poi nessuno giudicherà gli iraniani guardando il loro presidente “eletto”. D’ora in poi gli iraniani saranno considerati persone coraggiose. Hanno riconquistato la fiducia in loro stessi. Hanno sfidato tutti i pericoli, dicendo “No”! E sono convinta che questo sia solo l’inizio.

Per questo da ora in poi dirò: “Chi lascia la sua patria può vivere ovunque. Io però mi rifiuto di tornare in Iran solo per morire. Un giorno in Iran ci vivrò. Altrimenti la mia vita non avrà avuto senso”.

Marjane Satrapi è un’autrice di fumetti iraniana. Vive a Parigi. Con il film Persepolis ha vinto il premio della giuria di Cannes nel 2007. Il suo ultimo libro è Taglia e cuci (Rizzoli Lizard 2009).

da Internazionale

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