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venerdì 31 luglio 2009

PAOLO BORSELLINO

“Un amico mi ha tradito, un amico mi ha tradito”… Sono le parole che Paolo Borsellino avrebbe affidato a due giovani colleghi, un uomo e una donna, ai tempi di Marsala con la voce rotta dal pianto e la testa tra le mani. Una testimonianza finora inedita (sulla quale i magistrati di Caltanissetta stanno indagando alla ricerca di questo “amico”) ma non sorprendente.

Infatti più volte la signora Agnese Borsellino, moglie del giudice, aveva riferito dello stato di profondo turbamento in cui suo marito, in preda all’esigenza di “fare in fretta”, visse quei 57 giorni che gli rimasero dopo la strage di Capaci.
Una sera, ha raccontato la signora, Borsellino era talmente sconvolto per quanto aveva scoperto che vomitò e tra le pochissime cose che, per proteggerla, le confidava, le disse che era disgustato dal grado di corruzione in cui si stava imbattendo. E ancora esclamò: “Sto vedendo la mafia in diretta”, commentando gli eventi che in quel folle mese e mezzo si avvicendavano palesemente e occultamente nel Paese.
La storia della mafia e dell’antimafia è sempre stata piena di tradimenti e di “Giuda”, così come Borsellino stesso ebbe a ricordare commemorando Falcone, e non è nemmeno un mistero che di nemici i due magistrati nel corso di svolgimento del proprio lavoro ne avessero collezionati tanti. Erano nemici quelli che avevano messo sotto ascolto i telefoni che rivelavano i suoi spostamenti e lo erano anche quelli che ne avevano pedinato fino all’ultimo l’itinerario da Villagrazia di Carini fino a Via D’Amelio ed erano nemici, forse ancora più pericolosi, quelli che sapevano che Borsellino annotava tutte le sue intuizioni investigative sulla sua agenda rossa, fatta sparire con una manovra da manuale, pochi secondi dopo che quella strada era stata devastata dal tritolo.
Ma forse Borsellino ne aveva scoperti altri di nemici, forse inaspettati, forse aveva saputo che alcuni pezzi dello Stato stavano trattando con la mafia, quello solo doveva essere il nemico, o ancora peggio si era accorto di aver parlato con la persona o con le persone sbagliate.
Forse aveva condiviso il risultato delle sue investigazioni con personaggi dal doppio volto e se ne era reso conto e per questo era assolutamente consapevole che sarebbe morto di lì a poco. Sapeva che i suoi nemici sapevano.
Nino Giuffré, in uno dei tanti interrogatori, spiegò che “non si sa come, ma Provenzano riusciva sempre a venire a conoscenza di tutto (…) era venuto a sapere che Borsellino era incorruttibile, irremovibile e per questo andava eliminato”.
Talpe, confidenti, accordi e trattative dietro i mandanti occulti della strage di via D’Amelio, ma altrettanti depistaggi, menzogne, finti pentiti anche per gli esecutori materiali dell’eccidio.
Il procuratore di Caltanissetta Lari e suoi aggiunti e sostituti Gozzo, Bertone, Marino e Luciani stanno infatti cercando di ricostruire daccapo anche le fasi preparative e attuative della strage oggi messe in discussione dalle dichiarazioni di due nuovi collaboratori di giustizia, Gaspare Spatuzza e Angelo Fontana, rispettivamente uomini d’onore di Brancaccio e dell’Acquasanta, che entrano in contrasto con quanto, seppur con perplessità, era stato consolidato dalle sentenze.
La valutazione di Vincenzo Scarantino, oggi considerato un falso pentito e accusato di calunnia, era stata sempre molto prudente perché sin da subito aveva mostrato incongruenze, contraddizioni per non parlare delle sue continue ritrattazioni. In ogni caso la sua versione era stata ritenuta valida a sufficienza per far condannare diversi uomini d’onore e non, come il suo complice Candura. Crollato al suo primo confronto con Spatuzza.
Ora si tratta di capire perché Scarantino si è autoaccusato e ha scontato anni in carcere in caparbio silenzio. E a beneficio di chi.
Primo passo i verbali. I magistrati hanno riesumato il primo anomalo verbale riempito da Scarantino il 24 giugno 1994. Stranezza numero uno: non sono indicati i presenti come invece è prassi fare, e numero due, la trascrizione è piena di appunti a penna nei quali si legge chiaramente come la deposizione venisse “aggiustata”.
La Procura ha individuato e sentito l’ispettore di polizia che si era occupato della protezione di Scarantino mentre si trovava ad Imperia e questi ha affermato di essersi limitato a trascrivere quanto lui gli dettava. “Ho scritto quegli appunti su richiesta di Scarantino che aveva difficoltà a leggere i verbali. Mi chiese anche delucidazioni su alcuni punti degli interrogatori e io gli risposi che per questo doveva rivolgersi al suo legale”.
A margine delle dichiarazioni si intravvedono nomi, annotazioni, orari insomma versioni da accordare e ricordare. Sin dagli inizi del suo parlare Scarantino aveva cercato di adeguare il suo racconto con quello degli altri coindagati, come fece con le deposizioni di Francesco Andriotta il criminale, ergastolano e trafficante di droga e armi, che per primo riferì all’autorità giudiziaria quanto aveva appreso da Scarantino sulla strage di via D’Amelio e con quelle di Candura, anche lui oggi indagato per calunnia.
A parte le menzogne c’è da scoprire chi le architettò e perché.
Per individuare le linee di quella che appare sempre più chiaramente come una lucida opera di depistaggio il procuratore Lari e gli altri pm hanno iscritto nel registro degli indagati anche poliziotti e uomini dei servizi segreti, ma sulla questione permane il più stretto riserbo.
Alle dichiarazioni di Spatuzza si sarebbero aggiunte su questo preciso punto anche quelle di Angelo Fontana, che avrebbe riconosciuto in alcune immagini della strage mostrategli dagli inquirenti uomini legati ai servizi segreti che mantenevano contatti con gli uomini di Cosa Nostra. Dalle rivelazioni di entrambi i pentiti sarebbero stati individuati inoltre altri due personaggi coinvolti uno nella strage di Capaci, un uomo organico a Cosa Nostra, già in carcere, ma di cui mai si era saputo nulla, e uno per il fallito attentato all’Addaura quando, nel 1989, una borsa sportiva piena di candelotti di dinamite venne posta sulla scogliera davanti la villa in cui Falcone stava lavorando con i magistrati elvetici Carla Del Ponte e Claudio Lehman.
Insomma le carte sono state rimischiate e ridistribuite sul tavolo. Il lavoro dei magistrati di Caltanissetta così come quelli di Palermo impegnati sul fronte della cosiddetta trattativa, in seguito all’importante testimonianza di Massimo Ciancimino, è estremamente delicato. Non è dietrologia immaginare che l’interesse su queste indagini sia altissimo e che provenga da più parti. Restano le domande: Chi ha guidato le false testimonianze di Scarantino e Candura? Chi ha beneficiato oltre alla famiglia di Brancaccio, guidata dai Graviano, di questa falsa pista? Cosa ci facevano i servizi segreti sul luogo della strage Borsellino? Da quale filo rosso sono legate l’Addaura, Capaci e via D’Amelio? E ancora più di tutto: cosa avevano capito Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da ingenerare una tale mastodontica strategia eversiva e destabilizzatrice per eliminarli?
Intanto che resti alta l’attenzione della società civile e di tutte le forze oneste e positive in campo, la verità è un diritto, da pretendere fino in fondo.
http://www.antimafiaduemila.com/content/view/18328/78/

da Indymedia

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