Le testimonianze di alcuni eritrei respinti in Libia in questi ultimi anni dal governo italiano, a spese del governo italiano e con mezzi italiani. E ridotti in schiavitù.
L’Eritrea sta investendo molto nel turismo. Lungo il mar Rosso ad esempio, a metà strada tra Massawa e Assab, c’è un albergo a Gel’alo che nessun turista dovrebbe perdersi, specialmente se italiano. Se non altro perché è stato costruito da esuli eritrei costretti ai lavori forzati dopo essere stati arrestati sulla rotta per Lampedusa e rimpatriati dalla Libia su voli finanziati dall’Italia.
Proprio così. Non chiedete spiegazioni all’ambasciata eritrea, potrebbero fraintendere. Secondo la propaganda della dittatura infatti, quell’hotel è frutto del coraggio della gioventù eritrea, e in particolare delle forze armate, dal 2002 impegnate in un programma di sviluppo del paese, denominato Warsay Yeka’alo. Noi invece le spiegazioni siamo andate a chiederle agli unici tre che da quell’inferno sono riusciti a scappare e che oggi vivono in Europa. Hanno accettato di parlarci, ma sotto anonimato e a patto di non svelare la città dove oggi vivono sotto protezione internazionale.
I fatti risalgono al maggio del 2004. Un vecchio peschereccio diretto a Lampedusa con 172 passeggeri, in maggior parte eritrei, invertì la rotta dopo essere finito alla deriva e si arenò davanti alla costa libica. Nel panico generale si dettero tutti alla fuga, ma la maggior parte furono arrestati. Dopo un mese nel carcere di Misratah, vennero trasferiti in una prigione di Tripoli. D. aveva ancora le piaghe delle ferite aperte. Insieme a due amici erano stati picchiati e torturati per tre giorni in cella di isolamento per un fallito tentativo di evasione. Un giorno di buon mattino si presentò un’unità speciale dell’esercito. “Caricarono un gruppo di eritrei su un camion, nessuno di noi immaginava cosa sarebbe accaduto, pensavamo si trattasse dell’ennesimo trasferimento”. E invece no. Erano diretti all’aeroporto militare di Tripoli. Dove ad attenderli c’era un aereo della Air Libya Tibesti. Era il 21 luglio del 2004. Nel giro di 48 ore, sotto l’occhio discreto dell’ambasciatore eritreo a Tripoli, partirono altri tre aerei, che rimpatriarono un totale di 109 esuli.
Ad attenderli all’aeroporto di Asmara c’era l’esercito. Dopo un rapido appello furono caricati su dei camion militari e portati a Gel’alo, sul mar Rosso. Non era un carcere, ma un campo di lavori forzati. Fuori città, in una zona arida e isolata. La struttura era circondata da un fitto bosco di arbusti spinosi, che rendevano impossibile ogni tentativo di fuga. Mantenuti sotto strettissima sorveglianza, ogni giorno marciavano scortati dai militari armati per lavorare al cantiere del nuovo albergo di Gel’alo, simbolo del progresso dell’economia del Paese. I prigionieri erano circa 500. C’erano i cento deportati dalla Libia e i duecento deportati da Malta due anni prima, nel 2002. Gli altri erano disertori dell’esercito arrestati lungo la frontiera mentre tentavano di fuggire clandestinamente dall’Eritrea verso il Sudan. La giornata tipo iniziava con l’appello, alle cinque del mattino e poi dalle sei al lavoro nei cantieri, sorvegliati e bastonati dai militari, scalzi e denutriti, in una delle zone più calde del deserto eritreo, dove le temperature sovente superano i 45°. Per pranzo e per cena il menù era pane e acqua. Rimasero in quelle condizioni per dieci mesi, fino al 30 maggio del 2005. Dopodiché furono trasferiti nel campo di addestramento militare di Wi’yah per essere reintegrati nell’esercito, per il servizio di leva a vita. Tutto questo senza essere autorizzati a ricevere visite o telefonate dei propri familiari, tenuti all’oscuro del loro destino.
La loro storia è confermata da un quarto testimone. Si tratta di uno dei 232 esuli eritrei rimpatriati da Malta nel settembre del 2002 e intervistato dalla documentarista eritrea Elsa Chyrum nell’agosto del 2005. Testimone oculare della morte per stenti di alcuni dei prigionieri per la durezza delle condizioni di lavoro, la denutrizione e la mancanza di cure. “Tutti sanno – dice – che Alazar Gebrenegus, del gruppo dei deportati da Malta, morì per la mancanza di cure, implorando un’arancia”. E se la fame, la sete e il caldo non erano abbastanza, continua il rifugiato, “i prigionieri erano continuamente picchiati”.
Anche questa notizia trova conferma in una terza fonte. Nel rapporto “Service for Life”, pubblicato lo scorso 20 aprile da Human Rights Watch, c’è un intero capitolo dedicato alle torture. Elicottero, otto, ferro, Gesù Cristo, gomma. I nomi in italiano delle tecniche di tortura lasciano supporre che siano eredità delle nostre forze coloniali. Il rapporto conferma che un gruppo di 109 eritrei venne rimpatriato nel 2004 dalla Libia e si sofferma anche sul destino dei rimpatriati da Malta nel 2002. Vennero rinchiusi nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Dahlak Kebir, in celle sotterranee, in condizioni di estremo sovraffollamento, e tenuti alla fame.
Quasi tutti i 3.000 eritrei sbarcati nel 2008 in Italia hanno ottenuto un permesso di soggiorno di protezione internazionale. Eppure l’Italia fa di tutto per bloccarli prima. E non è soltanto la storia dei 76 eritrei respinti in Libia lo scorso primo luglio. Né dei 700 che da tre anni sono nel carcere di Misratah, in Libia. È una storia che inizia proprio con E., D. e M. Già, perché i quattro voli che deportarono il gruppo di 109 rifugiati furono commissionati e pagati dall’Italia, all’interno degli accordi di cooperazione contro l’immigrazione firmati nel 2003 con Gheddafi. Lo dice un documento riservato della Commissione Europea. C’era anche un quinto volo, ma non arrivò mai a destinazione. Perché fu dirottato. Proprio così. Era il 27 agosto del 2004. Gli 84 passeggeri presero il controllo dell’aereo e atterrarono a Khartoum, dove vennero riconosciuti come rifugiati politici dalle Nazioni Unite. Peccato, avrebbero potuto contribuire anche loro al Warsay Yeka’alo Program
tratto da http://fortresseurope.blogspot.com
da Carta
Nessun commento:
Posta un commento