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sabato 25 luglio 2009

Condannati all'inferno

Respinti verso la Libia anche se erano rifugiati. E poi sottoposti a violenze. Il governo italiano sotto accusa

Ci sono le prove. Foto e testimonianze che dimostrano come l'Italia il 30 giugno scorso abbia negato l'asilo a rifugiati eritrei, stremati dalla fame e dalla sete. Tutti respinti. Pur sapendo che si trattava di profughi con il diritto di entrare. E invece no. Gli 82 disperati, fra cui donne e bambini, sono stati rispediti in Libia, in aperta violazione della Convenzione di Ginevra: nessuna identificazione, maltrattamenti, confisca dei beni, consegnati poi alle autorità libiche. Soldi e documenti di cui non si sa più nulla. Ora sono tutti rinchiusi nelle carceri attorno a Tripoli, a pane e acqua, dove la polizia di Gheddafi picchia e tortura. E un'ombra inquietante si allunga sul governo Berlusconi, dopo l'ennesimo respingimento di un barcone al largo di Lampedusa.

Le organizzazioni internazionali, dall'Unhcr, l'Agenzia Onu per i rifugiati, al Cir, il Consiglio italiano per i rifugiati sotto il patrocinio dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite, hanno denunciato la linea dura del Viminale e mosso accuse per i diritti negati. Ma i ministri Ignazio La Russa e Andrea Ronchi hanno risposto con veemenza, stigmatizzandole come "avventate, false, demagogiche, offensive e ripugnanti". E pretendendo scuse.

Quegli addebiti trovano, invece, conferma. Sia nelle immagini scattate ai profughi sbarcati in Libia, sia nelle testimonianze dirette raccolte da 'L'espresso' anche fra i prigionieri trasferiti nei centri di detenzione, da Tripoli a Bengasi. Dove stupri, sevizie e botte sono la quotidianità.

Sulla prassi non rispettata restano pochi dubbi: "Non risulta che le autorità italiane abbiano cercato di stabilire la nazionalità", ripete l'Unhcr. Come invece deve essere fatto, stando alle convenzioni internazionali sull'obbligo di 'non respingimento'. E c'è di più. L'Italia non avrebbe avuto nemmeno bisogno di effettuare quei controlli. I nostri militari sapevano da prima dello sbarco chi c'era a bordo della carretta del mare. "Profughi in fuga dalla dittatura eritrea, con donne e bambini, alcuni dei quali sono morti durante il viaggio e qualcuno ha gettato in mare", riferisce la parente di uno di quei disperati. Bene, è stata proprio lei, cittadina eritrea in Italia da 20 anni, a contattare la Capitaneria di porto, quello stesso pomeriggio verso le 15.30, pochi minuti dopo avere ricevuto un Sos dal barcone. "Hanno rischiato di affondare e morire tutti. L'ho detto subito ai militari", racconta. "Dopo la mia chiamata sono seguite 5 o 6 telefonate fra me e un capitano della Marina, molto gentile, al quale ho fornito tutti i dettagli. E ho specificato che a bordo c'erano dei rifugiati. Ho fornito addirittura il numero di cellulare del mio parente, per ogni verifica".

Esistono poi le fotografie, in mano al Cir, dello sbarco dei rifugiati in Libia. Sono le prime immagini che provano i respingimenti di profughi con diritto d'asilo da parte dell'Italia. Sono parecchie. Sfuocate. Ma volti e dettagli appaiono sufficientemente chiari. Una mostra un giovane ferito alla testa. Ha una vistosa benda bianca. È uno dei sei eritrei che hanno denunciato l'uso della forza da parte della nostra Marina e hanno avuto bisogno di cure mediche. Un'accusa pesante, "l'utilizzo di bastoni elettrici", conferma il Cir, durante il trasbordo sulla motovedetta. Eccolo ritratto. Certo anche il respingimento di donne e i bambini, assieme al gruppo. E ritratti in un'altra foto dopo l'arrivo in Libia.

Ai profughi sono stati confiscati soldi ed effetti personali: 600 dollari a uno, 400 a un altro e così via. L'elenco è lungo. Cellulari, agende telefoniche, carte d'identità. A un ragazzo è stata sottratta la tessera della Croce rossa. La numero 037871. E ancora le foto dei familiari. Via anche la Bibbia, a chi l'aveva con sé. Cancellati tutti i legami, quel rimasuglio di vita che resisteva. La risposta del governo è che questi soldi e questi oggetti sono stati imbustati e consegnati ai libici. Ma nei centri di detenzione non ce n'è traccia. "Riteniamo il racconto di queste persone credibile", afferma Cristopher Hein, direttore del Cir. "E il loro non è nemmeno l'ultimo barcone rifiutato. Ce n'è stato un altro il 4 luglio e i centri sono sovraffollati". Dal 7 maggio, quando sono cominciati i respingimenti italiani, circa 350 eritrei sono stati rifiutati senza controlli. Eppure il governo non ha avviato verifiche su tutto questo, limitandosi a una "dettagliata informativa sul respingimento", spiegano alla Difesa. Nemmeno alle due lettere dell'Unhcr che chiedeva accertamenti, datate 2 e 7 luglio, è seguita risposta.

Gli eritrei respinti verso l'inferno, una volta sbarcati, fanno tutti la stessa fine. Incarcerati e smistati fra Tripoli, Bengasi, Misurata, Zuwarah e Zawia. I mudin sanno che l'Italia li rifiuta e cercano di guadagnarci due volte, all'andata e al ritorno, costringendoli a telefonare a parenti all'estero e farsi spedire altri soldi. È grazie a uno di quei satellitari 'concessi' e poi usati per le estorsioni a distanza che 'L'espresso' ha potuto contattare i prigionieri. Raccontano che dentro il capannone arroventato dal sole sono rinchiusi in 800. "Ci sono 30 bambini, alcuni molto piccoli. Ancora nessuno è morto, ma fra poco succederà. Ci sono 150 malati gravi, non riescono più a muoversi. E non ci sono medicine". Attorno violenza e malattie: "Abbiamo due bagni per tutti, senza l'acqua. Ci tirano il pane e c'è la rissa per mangiarne un po', una volta al giorno. Ci danno acqua o the senza zucchero al mattino e a volte di notte".

In quelle condizioni la vita non vale niente. "Ci picchiano anche con i bastoni elettrici", denuncia. Torture, ustioni sui volti, sul corpo, sulle braccia. I segni dei mozziconi di sigaretta spenti sulla pelle umana. Disidratazione, feci dappertutto, puzzo di urina. In quella prigione, come nelle altre, le donne incinte non sanno chi sia il padre dei loro figli. Stuprate da tre o quattro per volta. "C'è uno Stato intero che ci tortura", urlano disperati da Bengasi. Qualcuno ha tentato il suicidio. La morte è meglio di quell'orrore. Per loro Libia significa l'inferno, mentre l'Italia gli era stata prospettata come un paese libero e democratico. Ma non è più così: "Vi prego ascoltateci, moriremo tutti e uccideranno anche i bambini".

Il governo ripete che sono tutte accuse "inammissibili" e "ripugnanti". Eppure il diritto internazionale che vieta all'Italia di respingere i rifugiati, anche se non sono sbarcati, è regolarmente violato. È il prezzo degli accordi fra Gheddafi e Berlusconi: tutti indietro. Nell'inferno da cui cercano di fuggire.

da L'Espresso di Tommaso Cerno

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