Laila Wadia è nata a Mumbai e vive a Trieste, dove lavora all’università.
Per lavoro ho avuto modo di conoscere molti diplomatici italiani. A volte il loro sguardo critico verso l’Italia spiazza gli interlocutori stranieri, che non riescono bene a capire perché delle persone così ben pagate si lamentino. Da un po’ di tempo, però, mi capita di incontrare un altro tipo di ambasciatori. A questa nuova categoria di rappresentanti del Belpaese la parola “Italia” fa brillare gli occhi.
Salgo sul taxi dell’ambasciatore Mohammed alla stazione ferroviaria di Bruxelles. Irritato per il traffico del mercato domenicale intorno alla Gare du Midi, alza le braccia ed esclama: “Bienvenue à Marrakesh!”. Per calmarsi, accende la radio, si sintonizza sui risultati del campionato di calcio italiano e impreca in bolognese. Con un certo stupore vengo a sapere che ha vissuto in Italia prima di trasferirsi in Belgio. Nonostante abbia un ottimo lavoro (sono i marocchini a mandare avanti il sistema dei trasporti nella “capitale d’Europa”), rimpiange la vita nel Belpaese. “Gli italiani sono come noi marocchini: allegri, pieni di idee, un po’ pasticcioni. Poi, mi manca ‘o’ sole mio’, qui fa sempre freddo. E, se devo dire la verità, ci sono troppi nordafricani. Forse è per questo che la Lega nord non vuole proprio sentirne parlare di Bruxelles!”, dice ridendo.
Gli ambasciatori Igor e Boris li incontro a colazione nella sala di un piccolo albergo a Stoccolma. Mi piacciono le gallette svedesi che servono la mattina e chiedo in inglese al cameriere se mi sa dire la marca. Igor, il cameriere, si rivolge in italiano al collega che sta preparando il caffè dietro al bancone. Così, cambio lingua anch’io e Igor mi regala la scatola delle gallette con un sorriso. Poi si concede una breve pausa per il caffè e mi racconta delle sue migrazioni, dalla Bosnia all’Italia, dalla Svizzera alla Svezia.
Alla domanda se è felice, i suoi occhi si velano di nostalgia. Mi risponde che nessun paese è allegro quanto l’Italia, anche se dal punto di vista economico si sta meglio a Stoccolma. “Ma cos’è che ti manca di più?”, gli chiedo. “Tutto”, risponde Igor, “a cominciare dalla lingua. Magari è solo nostalgia della gioventù. So che ora le cose sono cambiate. Nel 1991 l’Italia era una nazione aperta e generosa. Tutti si ricordavano che in passato il loro era un paese di migranti”.
L’odore del mercato
Boris si unisce a noi. Parte della sua famiglia vive ancora a Napoli. Sostiene che gli manca l’odore dell’Italia, in senso letterale e metaforico: il profumo degli ortaggi al mercato dove lavorava e l’aroma del vivere giorno per giorno, anche arrangiandosi, ma sempre con altruismo e ottimismo. Il giorno della mia partenza Igor e Boris mi regalano un pacchetto di gallette e mi chiedono di salutarmi la loro Italia.
Il terzo incontro lo faccio ad Atene. “Signora, scusi, ma lei vive nel paradiso terrestre?”. La domanda mi viene rivolta nella macelleria del mercato generale. Al mio sguardo interrogativo segue una spiegazione e una supplica. Sembra infatti che Rudy, di Tirana, addetto al quinto banco, non faccia che cantare le lodi di Chianciano. I suoi colleghi greci non vedono l’ora di rispedirlo indietro. “È qui fisicamente, ma con la testa sta ancora là”, dicono.
Mi indicano un ragazzo dagli occhi verdi che fischietta una canzone di Eros Ramazzotti. Il giovane albanese non fa altro che parlare del suo soggiorno in Italia, che ha dovuto interrompere perché non aveva il permesso di lavoro. “Pensi un po’, noi greci gli diamo di che sfamarsi, ma lui serve ancora il governo italiano! Nonostante la crisi economica, Rudy ha convinto metà mercato ad andare in vacanza in Toscana in autunno. Quando torna a casa, lo dica ai capi che qui c’è uno che fa l’ambasciatore dell’Italia gratis”. Laila Wadia
da Internazionale
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