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giovedì 20 maggio 2010

Vilipendio alla libertà


Una manifestazione, una mostra antireligiosa, un cartello con l’immagine del papa. Troppo per una città come Lecce, abituata ad inginocchiarsi di fronte all’autorità religiosa dispensatrice di preghiere e scambi di favori… Se chi manifesta è pure anarchico, i cani da guardia non possono non intervenire.
In un pomeriggio assolato alcuni anarchici decidono di parlare per strada della continua intromissione nell’intimità di ognuno da parte del Vaticano. In seguito allo “scandalo pedofilia” la Chiesa è andata all’attacco pur di occultare e sviare il problema esplosivo al suo interno. Così l’offensiva contro aborto e omosessualità è stata ripetuta e violenta, fino ad affermare che la pedofilia sarebbe strettamente collegata all’omosessualità. Impossibile, per chi ancora ha coscienza, tacere davanti a queste parole che tentano di
confondere la violenza sui minori (quello di cui sono responsabili moltissimi preti, secondo le cronache) con il libero amore tra persone dello stesso sesso.
Perché il discrimine è questo. Amare costringendo qualcuno, oppure amarsi liberamente e consensualmente. Il primo è un gesto terribile, il secondo meraviglioso.
Eppure la Chiesa pretende ancora dare lezioni di morale; la sua storia fatta di violenza, intolleranza, abusi, persecuzioni, continua a produrre vittime. La cappa di oppressione, sadismo, oscurantismo continua a negare la libertà. Già la Libertà! Violata e vilipesa dalle parole di papa e vescovi, quando affondano i loro anatemi contro chi non è conforme alla loro moralità. Libertà violata e vilipesa dagli agenti della Digos di Lecce che hanno denunciato alcuni anarchici per “vilipendio della religione dello Stato”, per aver esposto,
durante la manifestazione citata, un cartello con l’immagine di Ratzinger, su cui fare centro con alcune freccette. Forse per ricordare le frecce della morale che papa e vescovi lanciano continuamente al cuore di ognuno quando condannano la sessualità libera. Quelle si, fanno veramente male.

Anarchici

Thailandia: tregua imposta manu mlitari. Cosa vogliono i 'rossi'?


Negli ultimi scontri muore un giornalista italiano.

La guerra di strada è finita. Ma solo formalmente. La resa dei Rossi non ferma le violenze governative. Nella capitale altri cinque morti, fra cui c'è un cittadino italiano. Si chiamava Fabio Polenghi, ucciso da colpi che sono arrivati all'addome e secondo altre fonti anche al cuore. Aveva 45 anni, milanese, da tre mesi era arrivato a Bangkok dove lavorava per conto di una rivista europea. La morte di Polenghi è avvenuta poco tempo prima che i leader delle Camicie rosse si arrendessero, consegnandosi nelle mani della polizia.


Cosa vogliono "i rossi"?

Aldilà degli esiti di una mobilitazione che vede le 'camicie rosse' accettare la resa e consegnarsi alle truppe governative, quanto accaduto nelle ultime settimane non mancherà di condizionare, e profondamente, la storia futura della Tahailandia, segnata negli ultimi due anni, dall'irruzione nello spazio politico nazionale delle 'camicie rosse', forma riconoscibile assunta da un movimento popolare proveniente dalle campagne del paese, da sempre espropriate da qualunque rappresentanza politica.

Abbiamo chiesto a Alessandro Ursic (ieri, 18 maggio) giornalista free-lance da tempo presente in Thailandia (da dove non manca di fornire accurate descrizione della composizione sociale di questo nuovo movimento) cosa sono e quali istanze muovono queste fantomatiche 'camicie rosse'.
Nell'intervista emerge chiaramente come, lungi dal poterlo ridurre a parametri euro-centrici dove la scala cromatica ha delle precise connotazioni politiche, il movimento delle camicie rosse sia stato reso possibile dall'ex premier Taksim che, con molta astuzia e spregiudicato populismo, ha ben colto il potenziale politico-elettorale di masse di non rappresentati entranti nello spazio politico, soprattutto se queste possono essere maneggiate a suon di populismo e proposte politiche governate dall'alto.
Nei fatti, comunque vada, la mobilitazione dei 'rossi' ha comunque prodotto una forte polarizzazione politica sulle preesistente polarizzazione sociale tra le classi medie urbane e la sterminata provincia rurale con le sue masse escluse dall'agone politico da un ordinamento sociale nei fatti quasi castale.


Il vuoto di potere e una società divisa

La crisi in cui la Thailandia è precipitata nelle ultime settimane, se da un lato ha fatto emergere in maniera lampante le profonde spaccature interne al paese, dall'altro ha dimostrato la debolezza del sistema politico e quella del governo di Abhisit Vejjajiva. Una crisi non circoscritta alle manifestazioni iniziate due mesi fa a Bangkok, ma che risale almeno ai tempi del colpo di stato incruento che ha deposto Thaksin Shinawatra nel 2006 e al modo in cui le dinamiche del potere sono state gestite da allora.
Il movimento delle camicie gialle sceso in piazza per la prima volta nel 2006, di segno opposto a quello delle camicie rosse ma uguale nelle modalità di azione e nell'intento di far cadere il governo in carica, potrebbe tornare a farsi sentire, come del resto ha già fatto nei giorni scorsi, criticando, stavolta, il premier Abhisit. Il bagno di sangue in cui sta sfociando in queste ore la protesta dei rossi non farà che acuire le tensioni, aumentando la rabbia dei rossi.
Ma le divisioni nella società non si limitano solo alla quella tra rossi e gialli, poveri e ricchi, contadini ed élite urbana, filo-Thaksin e filo-monarchici che non vogliono perdere i propri privilegi. Tutto questo esiste, certo: è un dato che il 70% della popolazione vive in aree rurali, che una buona parte di questo 70% è rimasta tagliata fuori dallo sviluppo economico degli ultimi venticinque anni, mentre il paese oggi è la seconda potenza del sudest asiatico dopo l'Indonesia, e che 3 milioni su 61 milioni di thailandesi sono poveri, non scolarizzati e vivono nelle campagne.
Il boom economico degli anni ottanta che ha visto fiorire Bangkok come centro commerciale, turistico ed economico, si è lasciato dietro masse di contadini con una disparità di salario rispetto agli abitanti della capitale pari a un terzo in meno. Le regioni agricole del nordest hanno inoltre sofferto della crescente competizione con il mercato cinese. Ma le polarizzazioni all'interno della società tailandese sono più complesse e il dato forse più rilevante, e che spiega la testardaggine dei manifestanti che continuano a invocare Thaksin, pronti a dare la vita pur di non cedere, è la mancanza di credibilità e quindi di riconoscimento del potere.
Abhisit ha dimostrato di essere un personaggio debole, incapace di affrontare la situazione, ma il suo tallone d'Achille sta nel modo in cui è arrivato al governo. Quando le camicie rosse lo accusano di non essere legittimato a guidare il paese perché non è stato eletto, in parte dicono la verità. Alla fine del 2008 si è ritrovato primo ministro dopo che la Corte suprema aveva dichiarato illegittimo il partito allora al governo, guidato da un fedelissimo di Thaksin. Venuta meno la maggioranza, l'opposizione guidata dal Pad di Abhisit ha preso il suo posto.
Tra i manifestanti scesi in piazza con le camicie rosse ci sono anche cittadini di Bangkok che fanno parte dell'élite istruita e di quella classe media, minoritaria nel paese, che non si riconosce nel governo di Abhisit, troppo arroccato sugli interessi di pochi. La maggior parte dei manifestanti che sotto il cappello del Fronte unito per la democrazia contro la dittatura (Udd), movimento di piazza nato nel 2009 contro l'attuale governo, dal 12 marzo scorso occupano il quartiere commerciale di Bangkok e in queste ore sfidano i proiettili dei militari, provengono dalle zone rurali del nord e del nordest.
Ma dietro tra i leader dei rossi, una compagine frastagliata che va dall'estremismo del generale Kattya, eliminato non si sa bene ancora da chi, a soggetti più moderati che erano favorevoli ad accettare la road map di Abhisit ora carta straccia, ci sono anche ex sostenitori del Pad e uomini come Nattaw Saikua, che incitava i manifestanti col megafono in mano e che in un'intervista a un giornalista americano nei giorni scorsi aveva spiegato: "Non siamo tutti per Thaksin, ma lui è diventato un simbolo potente dell'ingiustizia e del doppio-standard interne alla società, in questo senso per il movimento è importante". Inoltre l'assenza del re, che più volte in passato aveva svolto un ruolo di mediazione, pesa molto su questa crisi. Ma pesa ancor di più il fatto che la devozione al monarca non è più comune a tutta la popolazione. Il fatto che esista ancora il reato di lesa maestà, per cui chiunque critichi il sovrano può essere punito anche con quindici anni di prigione, per molti è anacronistico e poco si addice a una democrazia, che alcuni vorrebbero vedere riformata, modernizzata.

da Infoaut

G8 Genova: condannati i vertici della polizia


I giudici della terza sezione della corte d'appello di Genova, dopo una lunghissima camera di consiglio, condannano gli alti gradi della polizia presenti al momento dell'irruzione nella scuola Diaz, il 21 luglio del 2001. Erano stati tutti assolti in primo grado. Condanne per un totale di 85 anni di carcere. Francesco Gratteri, oggi capo dell'anticrimine, condannato a 4 anni e all'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Stessa condanna per Giovanni Luperi, oggi capo dipartimento dell'Aisi.
Dopo una lunghissima camera di consiglio iniziata nel pomeriggio di martedì, i giudici della corte d'appello di Genova hanno ribaltato la sentenza di primo grado sull'irruzione alla scuola Diaz, avvenuta durante i giorni del G8 del luglio 2001. I giudici della terza sezione della corte d'appello hanno condannato tutti i vertici della polizia, che erano stati assolti in primo grado, a pene tra 3 anni e 8 mesi e i 4 anni, assieme all'interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Nel complesso le pene superano gli 85 anni. In totale sono stati condannati 25 imputati su 27. Tra i giudicati colpevoli anche Francesco Gratteri, oggi capo dell'anticrimine, e Giovanni Luperi, nel frattempo promosso a capo diparimenti dell'Agenzia informazioni e sicurezza interna: 4 anni di reclusione e a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici.

Nella requisitoria finale il procuratore generale Pio Machiavello aveva chiesto per i ventisette imputati oltre centodieci anni di carcere. Il magistrato ha usato parole molto dure: «Non si possono dimenticare - aveva detto - le terribili ferite inferte a persone inermi, la premeditazione, i volti coperti, la falsificazione del verbale di arresto dei 93 no-global, le bugie sulla loro presunta resistenza. Nè si può dimenticare la sistematica e indiscriminata aggressione e l'attribuzione a tutti gli arrestati delle due molotov portate nella Diaz dagli stessi poliziotti».

Il procuratore generale Machiavello ha riproposto la ricostruzione dei fatti compiuta dai pm del primo grado, Zucca e Cardona Albini, ma ha rilevato con ancor maggior insistenza la responsabilità dei vertici della polizia presenti sul posto al momento dell'irruzione nella Diaz, dove dormivano decine di persone dopo le manifestazioni del 21 luglio 2001 contro il vertice del G8.

In primo grado, tutti i vertici, Francesco Gratteri, Giovanni Luperi e Gilberto Caldarozzi, erano stati assolti, così come il capo della Digos di Genova Spartaco Mortola, mentre il capo del settimo reparto della mobile Vincenzo Canterini era stato condannato a quattro anni di reclusione, il suo vice Michelangelo Fournier (l'unico che abbia accettato di deporre in aula e rispondere alle domande dei pm usando l'espressione «macelleria messicana» per descrivere il raid) a due anni, otto agenti del reparto erano stati condannati a pene diverse.

Una sentenza, quella di primo grado, che non ha convinto i giudici della corte d'appello di Genova, che hanno ritenuto di dover punire anche il comportamento degli alti funzionari della polizia.

Oggi davanti al tribunale di Genova c'era stato anche un presidio del Comitato Verità e giustizia che dal 2001 chiede che sia fatta piena chiarezza sulle responsabilità dei vertici della polizia, fino all'allora capo Gianni De Gennaro, oggi al vertice del Cesis, l'ufficio di coordinamento dei servizi segreti. Amnesty international aveva definito la situazione del luglio 2001 come «la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale».

da Carta