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lunedì 12 aprile 2010

L'alternativa possibile


di Nichi Vendola
Per il popolo del centrosinistra, e anche per molti dei suoi dirigenti, è stata una amara delusione. Ci eravamo illusi che le vistose crepe nell'edificio del berlusconismo, le contraddizioni e le divisioni, le malcelate contrapposizioni fra gruppi di potere, le smagliature nell'ipnotico racconto berlusconiano, dalla ricomparsa della spazzatura nelle strade campane alla permanenza delle macerie in quelle dell'Aquila, dovessero immediatamente tradursi in un vertiginoso calo dei consensi elettorali.
Non è stato così, e anche dove si è effettivamente verificato quel calo di consensi ha premiato non il centrosinistra ma un'altra destra, forse più coerente e omogenea, di certo ancor più temibile, quella leghista.
Ma perché le cose sarebbero dovute andare altrimenti? Quale racconto diverso e alternativo ha saputo costruire il centrosinistra nei due anni che ci separano dallo sfondamento del centrodestra nelle elezioni politiche? Quali antidoti e anticorpi ha messo in campo per contrastare quei fenomeni profondi e incisivi, sociali e culturali oltre che politici, che sono il berlusconismo e lo spostamento a destra dell'intera società italiana?
Non possiamo, come nell'antico adagio cinese, restare seduti sulla sponda del fiume aspettando che passi il cadavere del nostro nemico. Se il centrosinistra non troverà il coraggio di guardarsi senza ipocrisie allo specchio, accorgendosi di quale vasto cimitero è spesso diventato, scoprendo l'impedimento e l'ostacolo che esso stesso oggi rappresenta, la crisi del berlusconismo si risolverà solo in un'ulteriore e ancor più fonda deriva di destra.
Quello che ci si richiede è un lavoro di lunga lena, metodico e paziente: non un miracolo o un colpo di bacchetta magica. Questo è il tempo della semina, senza la quale non arriverà mai il raccolto, non fra tre e neppure fra dieci anni. E dobbiamo sapere che non esistono formule salvifiche e preconfezionate. Non basterà neppure il «ritorno ai territori», in questi casi continuamente, e giustamente, evocato. Al territorialismo della Lega, che reagisce al trauma della globalizzazione con un messaggio di chiusura, contrapposizione ed egoistica difesa degli interessi minuti locali dobbiamo saper opporre un territorialismo altrettanto radicato ma opposto: cosmopolita, aperto, solidale, capace di usare le specificità locali come leva per una valorizzazione complessiva delle differenze.
Non basteranno neppure le primarie, che pure, come l'esperienza della Puglia dimostra, comportano uno scatto imponente in termini di partecipazione e rimotivazione diffusa. Ma una politica che voglia essere davvero «buona» e partecipativa non può limitarsi a convocare ogni tanto il popolo per chiedergli di esercitare, con le primarie, il potere decisionale che gli spetta. Deve saper modificare i termini stessi del rapporto tra rappresentanti e rappresentati, rendendoli sempre e comunque orizzontali anziché verticali, fondati sullo scambio e il dialogo anziché sulla formula novecentesca della delega in bianco. Dobbiamo chiedere alla nostra gente di intervenire attivamente in ogni occasione, e altrettanto diretti devono saper essere «i rappresentanti». A una platea che esplode in applausi scroscianti quando si parla di raccolta differenziata bisogna chiedere non di applaudire ma di praticare effettivamente quella raccolta differenziata, di agire subito per dar seguito nei fatti a quello che proclamiamo e che applaudiamo. Per sperimentare concretamente, qui ed ora, nella quotidianità, un altro modo di vivere.
Dobbiamo anche avere, tutti, il coraggio di ammettere l'inadeguatezza degli strumenti di cui disponiamo, dei partiti che abbiamo costruito in questi anni. Rischiamo di avere partiti leggerissimi quanto a consenso e partecipazione e pesanti, elefantiaci quanto ad apparati. Non è stata la via giusta sinora. Lo sarà ancor di meno in futuro.
Dobbiamo, infine, restituire spessore e senso a quel termine, «alternativa», che è oggi vuoto e che per questo non esercita più alcuna attrazione, non ridesta emozioni, non suscita speranze. Potrebbe forse essere un buon punto di partenza organizzare ovunque incontri liberi e di massa, quasi delle vere lezioni partecipate, su ciascuno dei termini di quel vocabolario che abbiamo smarrito e la cui eclisse spiega e giustifica più d'ogni altra cosa il dilagare della cultura e del sistema di disvalori della destra nel nostro paese.
Svincolata e astratta dal lavoro, la parola di cui la destra di Berlusconi più frequentemente abusa, «libertà», rovescia il suo più intimo significato. Intrecciare di nuovo lavoro e libertà, riscoprire il nesso indissolubile che c'è tra loro, è forse oggi la priorità assoluta, e più che mai di fronte all'assalto contro l'art. 18, circondato anche nel centrosinistra da un colpevole e suicida silenzio nel corso della campagna elettorale. Quel silenzio del centrosinistra va interrotto, tanto più alla luce della decisione di Napolitano di rinviare la legge di riforma del diritto del lavoro alle Camere. E' necessario che tutta l'opposizione si mobiliti subito unitariamente e organizzi una grande manifestazione per respingere questo attacco contro uno dei più elementari diritti di libertà del lavoro.
Sino a che la parola «alternativa» non tornerà a indicare materialmente la possibilità effettiva, a portata di mano, di una vita diversa, tutti i discorsi sulle alleanze e sulle possibili alchimie politiche sono destinati a restare solo chiacchiericcio e vaniloquio. Faccio solo due esempi: la liberazione delle nuove generazioni dalla gabbia del precariato e il ripristino del primato dei beni comuni contro l'onnivora invasione della logica del mercato e del profitto. Basterebbe questo a dare il senso di cosa deve significare alternativa.

da IL MANIFESTO

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