giovedì 15 aprile 2010
Da Kabul, cronaca di un sequestro
Una delle infermiere italiane di Emergency rientrate a Kabul da Lashkargah racconta a PeaceReporter i fatti di questi giorni
I cinque membri dello staff internazionale di Emergency che si trovavano a Lashkargah lo scorso sabato, quando Matteo Pagani, Matteo Dell'Aira e Marco Garatti sono stati prelevati dall'ospedale, sono riusciti a rientrare a Kabul martedì mattina.
PeaceReporter ha contattato telefonicamente una di loro.
"Noi stiamo bene, ma siamo molto preoccupati per la sorte dei nostri colleghi, di cui non sappiamo più nulla", ha dichiarato a PaceReporter. "Non li vediamo da sabato mattina e non sappiamo più niente di loro da quando l'ambasciatore ha potuto incontrarli, domenica. Da allora buio assoluto. Lunedì non hanno concesso all'ambasciatore italiano di rivederli e ad oggi non sappiamo dove siano detenuti. Ci pare allucinante che il nostro governo, che mette tanti soldi e soldati in questo paese, non abbia nemmeno la possibilità di chiedere dove sono rinchiusi tre suoi cittadini! Tutta questa storia è una macchinazione vergognosa, e anche stupida".
"Sabato mattina Marco Garatti doveva partire per Kabul, ma il suo volo è stato cancellato. Dopo pranzo l'amministratore del nostro ospedale ha fatto evacuare tutti noi internazionali dall'ospedale dicendo che c'era un allarme-bomba. Quindi siamo tornati tutti a casa. Dopo un po' l'amministratore ci ha detto che l'allarme era rientrato e che potevano tornare tutti al lavoro. Ma proprio in quel momento ci ha chiamato l'infermiere afgano del pronto soccorso, dicendoci che dei militari erano entrati all'ospedale armi in pugno. Allora sono andati solo Marco, Matteo e Matteo per vedere cosa stava succedendo, e noi cinque siamo rimasti a casa, in attesa di notizie.
A un certo punto ci siamo accorti che sul tetto di casa c'era un poliziotto armato: ci siamo spaventati e ci siamo messi in corridoio, la zona più protetta della casa, e abbiamo cercato di contattare gli altri in ospedale, ma non rispondeva nessuno al telefono. La polizia avevano circondato la casa. Abbiamo chiamato i nostri a Kabul e a Milano per capire cosa stesse accadendo e dopo un quarto d'ora agenti afgani armati, in divisa e in tuta mimetica, sono entrati in casa. Hanno perquisito tutte le nostre stanze, hanno preso radio, computer e hard disc esterni e li hanno messi tutti in una delle camere, che poi hanno chiuso e sigillato con il nastro adesivo, dicendoci di non aprirla: sarebbero tornati l'indomani per controllare il contenuto dei computer. Non ci hanno dato nessuna spiegazione".
"La mattina dopo, domenica, sono arrivati tre agenti in borghese che si sono qualificati come agenti della Nds (National Directorate of Security, n.d.r) che hanno esaminato file per file tutti i nostri computer per tre ore, facendoci un sacco di domande sulle foto e su vari documenti e altre strane domande sul numero dei militari afgani deceduti mentre erano ricoverati nel nostro ospedale. Poi se ne sono andati portandosi via i computer dicendoci che erano 'sospetti' ma che ce li avrebbero restituiti in giornata. Ci hanno intimato di non lasciare la città fino alla fine delle indagini. Intanto l'ambasciatore era arrivato a Lashkargah, ma non è venuto a casa nostra perché a quanto pare non era autorizzato. Un afgano ci ha detto che c'erano delle persone in città che 'manifestavano contro Emergency'. Lo staff locale ci ha informati che l'ospedale era rimasto sotto il controllo della polizia armata afgana che ha chiesto loro di proseguire le attività mediche di routine. Ma non sappiamo se abbiano continuato ad ammettere pazienti. Eravamo sempre più tesi e preoccupati".
Lunedì la situazione è rimasta la stessa: noi chiusi in casa con la polizia fuori, senza notizie. L'ambasciatore italiano non è venuto a farci visita. In serata abbiamo sentito una forte esplosione nelle vicinanze, e abbiamo temuto il peggio: poi ci hanno detto che era una carica esplosiva fatta brillare dai militari Isaf. Alcune ore dopo abbiamo saputo che l'indomani saremmo potuti tornare a Kabul. Questa mattina, scortati dalla polizia, abbiamo raggiunto l'aeroporto dove ci hanno perquisito come mai era successo, svuotando tutti i nostri bagagli e facendoci anche brutti commenti sui nostri indumenti. E ora siamo qui a Kabul, senza i nostri passaporti, che - a quanto ne sappiamo - sono ancora in mano alle autorità afgane che li hanno prelevati dagli uffici dell'ospedale. Tutto questo è surreale!".
di Enrico Piovesana da PeaceReporter
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