di Pietro Orsatti
La lotta alla mafia si è fermata a Fondi, e il suo atto finale non è tanto la decisione del consiglio dei ministri che ha respinto la completa e puntualissima richiesta del prefetto di non sciogliere il comune, quanto in una dichiarazione di uno dei politici del Pdl che più avrebbe ricevuto danno da uno scioglimento e dall’emersione del fenomeno di condizionamento e infiltrazione dei clan. «Oggi è stata fatta giustizia, restituendo in un Comune sciolto la parola al popolo sovrano, che potrà scegliere da chi farsi governare e a chi affidare l’amministrazione della propria città» Questa la dichiarazione del senatore del Pdl Claudio Fazzone, coordinatore del Pdl in Provincia di Latina.
«Noi – prosegue – siamo dalla parte della legalità, e il governo lo sta dimostrando con i fatti. La sinistra invece sta utilizzando la lotta alla criminalità organizzata per tentare di sovvertire i risultati che il centrodestra ottiene democraticamente. Il tutto a danno di migliaia e migliaia di cittadini, dipinti come malavitosi per la sola brama della sinistra di accaparrarsi qualche voto in più». Ma chi è Fazzone? È, come si mormora, l’uomo forte per la corsa alla Regione Lazio del prossimo anno? Se così fosse, Fazzone, che proprio su Fondi basa molto del suo consenso, davanti a uno scioglimento per mafia del comune sarebbe stato costretto a rinunciare alle proprie ambizioni. Ma, continuiamo a ripetere, chi è Fazzone? È un ex poliziotto, fedelissimo di Nicola Mancino, di cui fu l’uomo forte quando l’attuale vicepresidente del Csm nel ’92 ebbe l’incarico di ministro dell’Interno, e con un passato «nei ruoli della Presidenza del Consiglio». La sua storia politica nasce lì.
Sarà solo una coincidenza, ne siamo certi, ma ci troviamo ancora riproiettati nel Novantadue, l’anno terribile di Gladio, dell’impeachment a Cossiga, di Mani Pulite e delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Torna ancora quell’anno e quello scenario di funzionari infedeli dello Stato come Contrada e delle “agende rosse” scomparse, degli armadi dimenticati di Gladio a Forte Bravetta e dei computer di Falcone manomessi nel suo ufficio al ministero di Giustizia. Molte facce nuove sono salite sul palcoscenico della politica in quel periodo, Fazzone compreso. E oggi quel comune da cui lui attinge un consenso formidabile diventa il simbolo di un conflitto che sembra ormai insanabile fra due Italie totalmente differenti, dicotomiche, non comunicanti.
Fondi è diventata il Fort Apache del Pdl. Mentre nei processi di Palermo a Dell’Utri e a Mori e Obinu, che si valutavano ormai sterilizzati, parte l’attacco all’atto fondante del Pdl, ovvero la nascita di Forza Italia, la creatura politica di Berlusconi (che a Fini ogni giorno che passa sembra stare sempre più stretta) usa Fondi come baluardo, punto irrinunciabile, quasi una Stalingrado alla rovescia. Fondi non può essere sciolta, anche contro l’evidenza di una relazione prefettizia che, se resa pubblica, avrebbe effetti devastanti. È facile dedurlo semplicemente andando a vedere le dichiarazioni agli atti di pentiti accreditati come Antonino Giuffré che a proposito dell’interessamento di Cosa nostra (sempre nel ’92 quando Dell’Utri stava iniziando a mettere in piedi il “movimento” per la discesa in campo di Berlusconi) afferma che «a Cosa nostra interessava che il vertice di questo movimento assumesse delle responsabilità ben precise per fare fronte a quei problemi e poi, successivamente, l’andare a mettere degli uomini puliti all’interno di questo movimento che facessero, in modo particolare, gli interessi di Cosa nostra in Sicilia, mi sono spiegato?». Si è spiegato benissimo Giuffré, le sue dichiarazioni, infatti, hanno contribuito a condannare Dell’Utri a nove anni in primo grado. E di che anno parlava? Il Novantadue, ovviamente.
Tratto da: orsatti.info
da AntimafiaDuemila
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