mercoledì 23 settembre 2009
Ora Marcello ha paura
Palermo, Dell’Utri di nuovo alla sbarra. Intanto Ciancimino parla e sostiene che la trattativa con lo Stato sarebbe cominciata prima delle stragi. E che l’ex leader di Publitalia avrebbe saputo: una sorta di exit strategy dalla fase armata di Cosa nostra
di Pietro Orsatti su Left/Avvenimenti
Non è ancora un clima da resa dei conti ma poco ci manca. Dopo una settimana di polemiche durissime, e l’attacco dei giornali legati al premier nei confronti della Procura di Palermo e in particolare dei due pm Ingroia e Scarpinato rei di aver partecipato, senza intervenire, alla presentazione del quotidiano Il Fatto, l’attività è ricominciata come da calendario. Ma l’atmosfera non è certo quella che ci si aspetterebbe dopo le ferie estive. L’attacco di Berlusconi alle procure e in particolare a Palermo, un attacco preventivo visto che nel palazzo di giustizia del capoluogo siciliano non c’è alcun fascicolo che riguardi il presidente del Consiglio associandolo direttamente alla vicenda delle stragi del ’92 e del ’93, ha scosso ovviamente l’ambiente ma a dire il vero non ha stupito più di tanto. Perché qualcosa doveva accadere vista la complessità e l’importanza di due processi attualmente in corso. Quello di secondo grado a Marcello Dell’Utri e quello al generale Mario Mori.
Le dichiarazioni di Massimo Ciancimino e del pentito Gaspare Spatuzza in relazione alle stragi sono di competenza della procura di Caltanissetta. Nel primo giorno dopo le ferie, il procuratore aggiunto di Palermo Ingroia ricorda che il pentito di mafia Gaspare Spatuzza negli ultimi tempi sta facendo nuove rivelazioni «sull’uccisione di padre Pino Puglisi e altri fatti di sangue, ma tutto quello che dice dei fatti stragisti non è di nostra competenza, come ha detto il procuratore di Palermo nei giorni scorsi». E poi, intervenendo sull’attualità della macchina della giustizia, smonta l’accusa di “archeologia giudiziaria” che gli è stata rivolta. «Benché ci siano state, da parte del governo, assunzioni di impegni, basti pensare all’inasprimento del carcere duro, non penso che si possa negare che i tagli di bilancio del comparto giustizia e sicurezza non abbiano aiutato la lotta alla mafia – ha spiegato, infatti, il procuratore aggiunto -. Polizia e carabinieri, così come i magistrati non hanno i mezzi e gli strumenti all’altezza della sfida. È vero che ci sono stati molti successi e sono stati inferti colpi durissimi a Cosa nostra, ma la mafia non è ancora in ginocchio». Tutt’altro tema, tutt’altra inchiesta, quindi. E allora perché l’attacco? È nei corridoi della procura dove si ipotizza che si stia assistendo a una sorta di ricatto di Dell’Utri nei confronti di Berlusconi. Il senatore del Pdl già condannato in primo grado a nove anni per associazione esterna è in difficoltà, ha paura che l’appello vada male, e questo sarebbe il suo modo di ricompattare gli amici più potenti.
Tutto qui? Non tanto. Perché la situazione è molto più complessa. Perché sia Ciancimino che Spatuzza parlano anche di altro, raccontano della “trattativa” fra pezzi dello Stato e Cosa nostra a cavallo delle stragi e poi anche del potente ex capo di Publitalia (ne avrebbe parlato Ciancimino a più riprese) Marcello Dell’Utri. E poi ci sarebbe anche la “ricomparsa” di una relazione della Dia del 1999 che parla di legami tra imprenditori mafiosi e un’azienda (la Co.Ge costruzioni) in cui compaiono due soci, Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, e Giorgio Mori, fratello di quel generale Mori ex capo del Ros e poi del Sisde e oggi a capo dell’ufficio sicurezza del Comune di Roma. Questo documento della Dia ritorna oggi di attualità come il procedimento contenitore “Sistemi criminali” archiviato in passato dai pm Ingroia e Roberto Scarpinato sugli intrecci fra affari, criminalità e massoneria. E poi si parla, e tanto, di Bernardo Provenzano, e quello che starebbe emergendo dalle dichiarazioni è tutt’altro che una mera operazione “di archeologia”, perché, secondo una delle ipotesi di indagini (questa sì anche a Palermo) e delle dichiarazioni del figlio dell’ex sindaco del “sacco” di Palermo, la “trattativa” avrebbe avuto inizio ben prima del ’92, almeno dall’anno precedente, e protagonista della vicenda non sarebbe stato Totò Riina, estensore del famoso “papello”, ma Binnu Provenzano. E ci sarebbe di più. Lo stesso Ciancimino avrebbe fatto capire che anche Marcello Dell’Utri sarebbe stato quanto meno a conoscenza di questa trattativa, una sorta di pax di affari, una exit strategy dalla fase stragista condotta dall’ala armata di Cosa nostra guidata da Riina e Bagarella.
Si rischia di fare scenari fantascientifici o di cadere in qualche trappola cercando di mettere insieme tutti questi frammenti. Di certo c’è che Ciancimino parla e che Spatuzza svela uno scenario, quello militare di Cosa nostra agli inizi degli anni 90, che rimette in discussione tutto l’insieme delle verità processuali acquisite finora. E si apre anche un quadro inquietante non solo sugli intrecci che erano dietro le stragi e la trattativa, sulle presunte deviazioni di alcuni apparati dello Stato, ma anche sulla fretta di ottenere subito risultati dopo che il tritolo aveva ucciso Falcone e Borsellino. Anche di questo Spatuzza parlerebbe. E anche nella polizia giudiziaria il nervosismo si fa evidente. «Qui di cose ne sono successe dopo le stragi – si lascia andare un funzionario -. Le faccio una domanda: lei quante azioni da parte del nucleo investigativo dei Carabinieri e dei Ros ha visto nei confronti di Provenzano dopo la mancata cattura ai tempi del colonnello Riccio? Io francamente non me ne ricordo una». Si parla della testimonianza, e della morte, di un collaboratore, Luigi Ilardo, vice del capo mafia di Caltanissetta “Piddu” Madonia che nel 1995 era in grado di far catturare a Mezzojuso Bernardo Provenzano nel corso di un summit di capi mafia, ma che (questa l’accusa del processo a parte dei Ros siciliani dell’epoca) per un inspiegabile non intervento degli uomini del generale Mario Mori non andò in porto. Dopo più di un decennio il malumore e le tante perplessità su come vennero condotte le indagini negli anni successivi alle stragi oggi riemergono prepotentemente. E il disagio poi si amplifica, soprattutto all’interno della polizia di Stato, a causa dei tagli economici, delle sempre minori risorse anche sul piano formativo.
«Se parliamo dei processi finiamo in politica, se parliamo di politica finiamo nei processi», si lascia sfuggire uno degli investigatori. Sono tutti “abbottonati” in questi giorni a Palermo. La chiusura dell’appello a Dell’Utri da un lato, il processo Mori dall’altro. E poi le nuove dichiarazioni di Ciancimino sui “piccioli” e sulle “collaborazioni” fra boss e pezzi dello Stato. E ancora l’ombra dei servizi e della massoneria e i tanti affari che, dopo un breve periodo di rallentamento successivo alle stragi, sarebbero ripresi come se nulla fosse successo. E poi l’attacco, che in molti si aspettavano, alle procure. Ma che ha stupito perché così specifico su Palermo. Come se qualcuno temesse che con l’arrivo di una condanna a Dell’Utri poi si andasse a una nuova e ancora più devastante stagione di rivelazioni.
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